Apprendimento e disposizione affettiva dell’allievo

Constatare l’educabilità ai sentimenti e la grandissima utilità degli stessi per il comportamento umano ci conduce a considerare necessaria la loro ricerca, identificazione e la facilitazione del loro manifestarsi. Rapportare l’affettività all’intelligenza ci consente di considerare i sentimenti, non soltanto come effetto di cause esterne, ma come il risultato di una vera e propria elaborazione mentale, di una certa interpretazione della realtà, di uno sguardo gettato su di sé, sugli altri e sulle varie situazioni di vita.

E’ giusto ritenere che non sia compito della scuola quello di intervenire sul versante affettivo della personalità degli allievi? Molti docenti risponderebbero negativamente a questo quesito, argomentando come a scuola non ci si debba preoccupare troppo di ciò che attiene al campo sentimentale ed emozionale.

Non si intende ravvisare un’insensibilità dei docenti nei confronti della connotazione affettiva del rapporto educativo, c’è però da rilevare come gli stati emozionali vengano spesso guardati come fattori inficianti altri tipi di comportamento, senza purtroppo che esista alla base di ciò sufficiente approfondimento della natura di tali vissuti.

Dato per certo come sia irrinunciabile arrivare a conoscere gli allievi per poterli davvero promuovere educativamente, è possibile sostenere che ignorare quasi completamente l’incidenza del fenomeno affettivo sulla persona possa ostacolare e rendere anche meno produttivo il compito dell’insegnante.

Proprio non si capisce come mai l’odierno e giustificabilissimo forte interesse per la preparazione professionale degli insegnanti non tenti di colmare anche questa lacuna: è presumibile sia da imputare a motivazioni di ordine culturale. Fin dai tempi antichi pensiero e razionalità hanno ottenuto in un certo qual modo una posizione di preminenza all’interno della vita dell’uomo, da sempre ciò che cade al di fuori di queste categorie più evidentemente identificate con la ragione, viene per così dire, emarginato.

Pare quasi che l’uomo in quanto essere razionale non possa e soprattutto non debba conferire troppo valore agli impulsi del sentimento e dell’emozione, considerati un po’ risibili e deteriori.

Va da sé, entro una siffatta temperie culturale, che gli eventi affettivi subiscano un conseguente declassamento, che arriva poi a ripercuotersi all’interno delle istituzioni educative, presso cui l’interesse viene incentrato sul
‘coltivare’ le attività di pensiero.

Sarebbe ingiusto non sottolineare parallelamente come lo scenario sia altresì in mutamento: oggi il ruolo della ragione sta rapidamente evolvendo verso nuove forme, la dimensione affettiva della personalità sta assurgendo con sempre maggior pregnanza ad oggetto di ricerca, questo porta a pensare che in qualche modo stia cambiando anche l’importanza assegnata a sentimenti ed emozioni nell’economia della persona.

E’ quindi certo come queste trasformazioni di pensiero possano arrivare a mutare anche il concetto che dell’affettività si ha all’interno della scuola: oggi, sempre più, si giunge a capire come il versante emozionale della personalità umana, lungi dall’essere qualcosa da subire, costituisca una ricchezza alla quale attingere e dia modo alla persona in crescita di aprirsi al mondo più efficacemente.

Osservare i sentimenti

Constatare l’educabilità ai sentimenti e la grandissima utilità degli stessi per il comportamento umano ci conduce a considerare necessaria la loro ricerca, identificazione e la facilitazione del loro manifestarsi.

Rapportare l’affettività all’intelligenza ci consente di considerare i sentimenti espressi da bambini e ragazzi, non soltanto come effetto di cause esterne, come risposte ovvie e scontate ad uno stimolo, ma come il risultato di una vera e propria elaborazione mentale, di una certa interpretazione della realtà, di uno sguardo gettato su di sé, sugli altri e sulle varie situazioni di vita.

Anche la “storicizzazione del sentimento”, tutto ciò che in qualche modo può essere collegato all’esperienza pregressa del soggetto, può consentire all’insegnante o all’educatore di comprendere reazioni che altrimenti rimarrebbero completamente al di la della sua portata, così da facilitarlo nella progettazione e implementazione di interventi futuribili.

La letteratura scientifica di riferimento[1] indica come la competenza affettiva del bambino o dell’adolescente possa essere osservata sia in estensione che in profondità[2].

L’osservazione estensiva consentirà all’insegnante di rilevare la gamma dei sentimenti presenti – o mancanti – nel quotidiano dell’educando, mentre cogliere i sentimenti nella loro profondità potrà consentire una valutazione di matrice storico-dinamica per individuare la direzione e la portata di eventuali interventi compensativi in vista di quell’alfabetizzazione affettiva che dia modo all’individuo in crescita di imparare a padroneggiare la propria libera energia.

I sentimenti possono essere rilevati ed osservati in modo concreto, esaminando l’agito dei ragazzi. Nell’espletare questo tipo di osservazione può risultare utile tener presente alcuni tratti comportamentali: cosa il soggetto tenda a manifestare anche con ostentazione, cosa ripeta, cosa al contrario non esprima mai.

Questi tratti possono riguardare espressioni dirette od indirette, quello che conta sarà – tra l’altro – rilevare le espressioni che rimangono celate, così’ da tarare l’intervento degli educatori verso il recupero e l’attivazione di tali sentimenti per qualche motivo inespressi.

Altro esempio di ricognizione può essere trovato all’interno delle situazioni problematiche, quelle dentro cui il ragazzo sperimenta maggiori attriti e franche difficoltà di gestione: qual è la reazione che più tipicamente ripropone? Rabbia nei propri confronti, nei confronti altrui, oppure tristezza, risentimento, angoscia….

L’osservazione invece dei sentimenti in certo qual modo “mancanti”, corrisponde ad un’analisi più sofisticata: la persona, se non ha difficoltà alcuna nell’adottare comportamenti perfettamente corrispondenti all’immagine che ha di sé, quella in altri termini che si è costruita nel corso del tempo, trova invece maggiore difficoltà nell’esprimere sentimenti e comportamenti che avverte invece essere non compatibili con la propria identità. Esprimere tali sentimenti sarà quindi evitato perché sentito come potenziale minaccia.

Il “semianalfabetismo” emozionale che ne deriva allora, non corrisponderà a mera inesperienza, sarà piuttosto la risultante di una decisione consapevole derivante da un vissuto di incompatibilità tra tensioni di polarità opposta nel complesso dell’economia della persona stessa.

Riattivare quei sentimenti che la persona sceglie quasi di vietarsi, sarà direttamente connesso con la possibilità di giungere a vivere questi sentimenti come positivi e compatibili con il proprio sé.

Proprio qua si iscrive la pregnanza di interventi psicoeducativi che alleggeriscano il soggetto rispetto a determinati pesi inconsci e lo rendano capace di permettersi le sensazioni fino a quel momento sentite come non in linea con il suo stesso vissuto profondo.

Un reale mutamento affettivo sarà raggiunto dalla persona attraverso il completamento della propria identità, ma affinché questo traguardo sia varato sarà di fondamentale importanza il giusto apporto erogato da una figura professionale specificatamente formata.

Quando l’affettività è messa alla prova

Curare la disposizione affettiva dell’allievo assume a scuola un rilievo del tutto particolare per le ragioni che di seguito si cercherà di delineare.

Il bambino che fa il suo ingresso nel mondo della scuola giunge con una determinata immagine di sé che ha avuto modo di costruirsi in famiglia. Essa è il risultato di un’elaborazione di esperienze, dati, messaggi che nel corso del tempo si sono assommati e che il bambino in qualche modo ha interiorizzato.

Questa immagine ‘sedimentata’ a cui il soggetto a poco a poco si è abituato e, diremmo, affezionato, si trova a doversi improvvisamente confrontare con un’altra immagine che a scuola inizia gradualmente a strutturarsi: quella di allievo, di persona che “impara ad imparare” in modo inedito, del tutto diverso rispetto al modo utilizzato nel passato, vivendo la routine extrascolastica.

Iniziare ad andare a scuola significa per il bambino incontrare occasioni di verifica di sé non prive di sorprese, piacevoli o meno.

Se in famiglia veniva costantemente vezzeggiato, definito “genietto”, circondato da benevolenze di ogni tipo e abituato all’indulgenza, ora si trova a scoprire un universo molto differente, dove non è più il centro dell’attenzione, dove deve per forza considerarsi “pari” rispetto agli altri compagni presenti in classe, dove giocoforza deve apprendere a lavorare facendo leva sulle proprie capacità e imparando anche ad interagire con i compagni.

Scoprirà presto che a scuola ciò che dice, ciò che fa e ciò che è, non necessariamente verrà guardato con incontrastata ed aprioristica ammirazione, può essere che essa gli venga tributata una volta, ma di certo sarà poi destinata ad essere comunque condivisa nel confronto con gli altri allievi della classe.

L’atmosfera scolastica non necessariamente porterà il soggetto a scornarsi con i propri limiti, potrà anche riservargli riscontri più gratificanti quando per esempio avrà modo di sentirsi non più il “pasticcione” che pensava di essere in virtù di critiche ricevute dai genitori, ma una persona riconosciuta per ciò che di costruttivo sa fare.

L’esperienza scolastica – nel bene come nel “male” – rappresenta comunque un sicuro punto di rottura rispetto alla vita trascorsa in precedenza, anche in ordine ai ritmi scanditi dai tempi scolastici i quali contribuiscono a mettere meno l’accento sul “bambino” per dare invece più risalto allo “scolaro”.

E’ facile intuire come questo passaggio rappresenti una tappa di sviluppo cruciale, essendo ora il soggetto chiamato a prendere posizione, a conciliare due diverse identità – quella di bambino e quella di scolaro – le quali potranno anche in prima battuta collidere tra loro, contrapporsi, apparire quasi inconciliabili.

 Sono queste dinamiche che possono sfociare in conflitti immediati o rimanere latenti per presentarsi drammaticamente in momenti successivi della vita: adolescenza o adultità.

L’esperienza scolastica dell’apprendimento rappresenta perciò un “nuovo” assoluto, inaugura un itinerario di lenta costruzione di un’immagine di scolaro con cui il bambino deve imparare a convivere.

Il modo con cui questa immagine di sé si sviluppa è di notevole importanza, andando positivamente o negativamente ad interessare ogni processo di apprendimento nonché l’esito della scolarizzazione stessa.

L’immagine che la persona si fa di sé mentre apprende, costituisce premessa e risultato insieme dello stesso processo di apprendimento che a scuola deve trovare occasione di snodo.

Da parte degli insegnanti, degli educatori, di tutti gli adulti di riferimento,
l’attenzione a queste dinamiche, l’attenzione alla nuova immagine che la persona sta costruendo per poter necessariamente “funzionare” nel nuovo ambiente in cui si trova, appare quindi come una “garanzia affettiva” di grandissima rilevanza.

Sul piano educativo questo tipo di sensibilità, dovrà tradursi in osservazione continua del comportamento del soggetto che andrà osservato sul piano della timidezza, insicurezza, ipersensibilità, unitamente a tutto ciò che possa in qualche modo sottendere disagio, senza archiviazioni semplicistiche verso le caratteristiche innate di temperamento.

Identificheremmo quindi questa prima fase di scolarizzazione come uno dei momenti più appropriati per utilizzare le dinamiche di apprendimento in termini formativi e per porre attenzione alla persona che apprende, ricuperata sul piano dell’affettività, della pregnanza dei sentimenti interagenti a livello sottile, del vissuto profondo.

Se letta in questo modo, la scolarizzazione rappresenterà non soltanto un’esperienza da facilitare in ordine all’arricchimento contenutistico, ma costituirà un’imperdibile occasione per mettere il soggetto “sotto il microscopio”, allo scopo di analizzare specificatamente i pensieri, i sentimenti, i processi in atto.

Il ‘portato di rottura’ dell’esperienza scolastica infatti, non và considerato come qualcosa di “aggiuntivo” rispetto a ciò che sussisteva prima, ma come qualcosa di profondamente modificante, che richiede quindi un riassetto globale della personalità.

Il bambino conosce emozioni che prima ignorava del tutto, deve arrangiarsi nell’esprimerle ed eventualmente nel difendersi, è chiamato a sapersi affermare riuscendo nel contempo ad adattarsi, a ridiscutere con se stesso il concetto di libertà, a sperimentare la propria vita in un contesto del tutto diverso.

Qualora il versante affettivo non assurga all’attenzione degli adulti chiamati a formare, il rischio in cui si potrà incorrere sarà rappresentato da una dicotomia, dalla crasi che verrà a crearsi tra essere bambino ed essere scolaro, accompagnata da un penoso senso di “sdoppiamento”, oppure potrà condurre a facili scelte di compromesso.

Scegliere di essere bambino e indossare il costume da scolaro solo per finzione e per compiacere gli insegnanti che si aspettano che si agisca in un determinato modo andrà ovviamente a discapito del bambino stesso, impoverirà grandemente gli stessi processi apprenditivi, svaluterà ed immiserirà l’intera esperienza scolastica e preparerà il terreno all’insuccesso, scolastico e in termini di vita futura.

Può essere che adattarsi fintamente al ruolo di scolaro procuri al bambino anche qualche passeggera soddisfazione, ma certamente innescherà la miccia di un conflitto che presto o tardi chiederà di essere fronteggiato, conflitto il cui sbocco potrà anche compromettere senza ritorno l’intera economia della persona.

L’intervento educativo che non prescinda dalle componenti di natura affettiva, risulta utile allorché riesca a prevenire questa situazione di dicotomia, insegnando al soggetto, non a scegliere tra bambino e scolaro, ma a conciliare armoniosamente queste due dimensioni della propria vita.

L’esperienza del primo apprendimento costituisce una sorta di matrice per quelli che saranno tutti gli apprendimenti successivi, i cui effetti perdureranno poi per tutta la durata dell’esistenza.

L’insegnante empatico e facilitante

Se l’attenzione agli stati emotivo-affettivi dell’allievo da parte dell’insegnante è di fondamentale importanza per favorire l’apprendimento e per creare i presupposti allorché l’allievo viva ottimamente l’esperienza-scuola, accettazione e comprensione sono gli atteggiamenti che fondano uno stile relazionale empatico.

E’ molto facile constatare come nel contesto operativo si manifestino spesso condizioni che richiedano sostegni emotivo-affettivi specifici.

Quello che il bambino prima e l’adolescente poi devono percepire, è che alla base di tutti i suoi interventi, l’insegnante pone stima e fiducia, entrambi ‘sintomi’ di accettazione incondizionata per la persona che sta dietro l’allievo.

A questo proposito, Carl Rogers, psicologo statunitense, perviene a conclusioni estremamente significative. Egli considera la facilitazione dell’apprendimento come lo scopo stesso dell’educazione, il mezzo che rende possibile lo sviluppo intellettuale dello studente.

Precisa a questo proposito che “il facilitatore deve darsi da fare per stabilire il clima o atmosfera iniziale in cui dovrà maturare l’esperienza di gruppo o di classe. Se la sua fondamentale filosofia si basa sulla fiducia nel gruppo e negli individui che lo compongono, questo punto di vista potrà essere comunicato tramite mille canali. Una volta stabilito in classe il clima di accettazione, il facilitatore è in grado di fare di se stesso un discente partecipe, condividendo i propri sentimenti ed i propri pensieri con il gruppo, senza pretendere ne imporre”[3].

Queste affermazioni consentono di estendere il discorso a ciò che concerne la validità del sostegno emotivo-affettivo che il docente dovrà saper esprimere nelle diverse situazioni di interazione con i suoi allievi.

Nelle teorizzazioni di Rogers viene enfatizzata la fiducia che deve permeare ogni tipo di interazione all’interno della scuola.

Accade malauguratamente spesso che gli insegnanti ritengano una perdita di tempo dedicarsi ad ascoltare quanto i ragazzi vogliono comunicare: atteggiamenti di questa fatta portano a misconoscere il sentimento di accettazione e di fiducia che, come dicevamo, è di fondamentale importanza saper dimostrare ai discenti. Per non incorrere in questo grave limite sarà utile improntare il proprio lavoro alla flessibilità, nella comunicazione contenutistica, nella testimonianza axiologica e nell’interazione in generale.

Secondo Rogers quindi, il docente dovrà porsi nei confronti dei propri allievi come “facilitatore”, dovrà cioè sempre essere aperto e disponibile nell’accogliere ogni tipo di comunicazione, tutto ciò che ogni singolo allievo intenderà esternare.

In questo sistema la flessibilità diviene strumento di regolazione del nostro modo di essere nella relazione con gli allievi, la cui partecipazione si cerca di stimolare così da realizzare un coinvolgimento effettivo.

Ancora una volta arriviamo ad accreditare l’importanza di emozioni e sentimenti: sentirsi accettati è stato inscindibile rispetto ai processi apprenditivi oltre che di realizzazione della personalità.

C’è un caso particolare di cui si vorrebbe fare menzione: è esperienza abbastanza comune vivere in classe situazioni che arrivino a causare difficoltà di vario tipo ad uno specifico allievo.

La scaturigine della difficoltà può essere un mandato particolarmente arduo da comprendere ma anche un evento di natura più personale che didattica: a fronte dello stesso si osserva comunque un allievo incline a soccombere sotto la coltre dell’emotività travolgente.

Ogni sollecitazione dell’insegnante si dimostrerà inutile e cadrà nel vuoto, ogni strategia tentata, anziché giungere come aiuto, parrà quasi peggiorare la situazione.

Questo caso specifico richiederà piena estensione del rapporto empatico da parte del docente, il quale dovrà manifestare piena solidarietà all’allievo in confusione, questo sarà percepito come un volersi a lui accomunare nello sforzo di superare insieme lo stato critico sopraggiunto.

L’allievo che esperisce questa comunione spirituale con l’insegnante incrementerà subito ogni propria disponibilità, perché prima di ogni altra cosa avrà vissuto un incontro, non mera collaborazione sul piano operativo, bensì prova di accettazione, di affetto sincero, da parte dell’insegnante.

Proprio questa comunione darà modo all’allievo di isolare ed identificare i vissuti ansiosi che hanno agito da freno potente fino a quel momento: percepire un sentimento di alleanza sul piano umano con l’insegnante di riferimento gli conferirà nuovamente la capacità di riottenere il controllo, per tornare così a gestire e padroneggiare positivamente la propria esperienza scolastica.

Conciliare ‘cognitivo’ ed ‘affettivo’

Riprendiamo un concetto dello psicologo e pedagogista americano Benjamin S. Bloom secondo cui: “per disposizione affettiva verso la scuola intendiamo una disposizione generale a considerare la scuola e l’apprendimento scolastico in modo positivo o negativo”[4]. ‘Positività’ o ‘negatività’ della disposizione affettiva si rendono determinanti meritatamente al rendimento scolastico dell’allievo; reiterati successi o insuccessi sono quindi forieri di buona o cattiva disposizione dell’alunno verso
la scuola nel suo insieme o verso singoli stimoli apprenditivi.

Il riferimento è ovviamente collegato all’immagine generale che l’allievo arriva a farsi di sé.

E’ molto interessante notare come – nell’opera già citata – Bloom parli di “concetto di sé scolastico”: a seconda del prevalere di stima o al contrario disistima delle proprie capacità in relazione alle richieste della scuola, muta il contenuto di quel concetto.

Il portato di questa riflessione ci porta a non perdere di vista la correlazione tra rendimento scolastico e capacità autovalutative della persona, facoltà con cui l’allievo arriva in qualche modo a percepire il livello delle proprie possibilità in ordine all’apprendimento e di conseguenza a modificare, in positivo o in negativo, il sentimento della fiducia in sé stesso.

E’ facilmente comprensibile come non sempre gli insegnanti sappiano considerare e valutare attentamente queste componenti, nello svolgimento del proprio mandato in classe: quando si parla di apprendimento generalmente ci si riferisce quasi in automatico al campo di studio dei processi cognitivi, disconoscendo troppo spesso il peso delle dimensioni affettive nella strutturazione di buone prassi verso un compiuto apprendimento.

Non si sta ovviamente secondarizzando l’importanza degli studi incentrati sui processi percettivi e sull’assimilazione delle conoscenze in generale, si sta sottolineando come sia altresì essenziale non dimenticare che dietro ognuno di questi processi pulsa tutta una serie di componenti di natura affettiva le quali condizionano profondamente la possibilità di assimilazione delle conoscenze proposte.

Quando si riusciranno a conciliare queste due dimensioni – cognitiva ed affettiva – ci si accorgerà di come negli allievi, anche in quelli apparentemente più problematici, rendimento e “sé scolastico” inizieranno costruttivamente a dialogare, collaborando tra loro in un vero rapporto di mutualità.

Lo stesso meccanismo di osmosi va sempre regolato e controllato dall’insegnante.

Una prima coordinata operativa potrebbe essere cercare di partire da una realistica analisi delle personali capacità dell’allievo: molti insuccessi scolastici originano proprio da mancanze in questo screening pregresso, il soggetto non viene educato a padroneggiare le proprie capacità.

L’alunno lasciato libero di sovrastimarsi si scontrerà prima o poi bruscamente con determinati limiti con cui nessuno l’ha mai abituato a fare i conti, viceversa l’allievo uso a sottostimare le proprie capacità non si percepirà mai in grado di ambire a mete di apprendimento peraltro alla sua portata.

Entrambe le situazioni di squilibrio produrranno dunque calo della fiducia ed incidenza marcata di insuccessi che un intervento formativo accorto avrebbe potuto benissimo evitare.

Non è facile provvedere con disinvoltura a questa opera di sensibilizzazione, ma riteniamo importante sottolineare che la scuola dovrebbe comunque incaricarsene.

Esistono d’altro canto procedure di “istruzione individualizzata”[5] preposte allo scopo di motivare negli scolari le consapevolezze realistiche delle proprie capacità, così che possa essere conferita loro la sicurezza di padroneggiare pienamente le richieste che la scuola pone, senza che vissuti d’ansia arrivino ad inficiare la loro condotta.

Sul rendimento scolastico ovviamente influiscono molto anche le più o meno celate aspettative degli insegnanti: è impossibile non pensare agli effetti talora devastanti che possano derivare da un’aspettativa maldestra e poco meditata di un insegnante su un allievo.

Quell’insegnante andrà inevitabilmente a condizionare, in senso deteriore, la propria interazione educativa con quell’allievo, facendo si che il bambino/ragazzo, schiacciato dal peso di quell’aspettativa inopportuna, perda energie e risorse che avrebbe dovuto utilizzare nella realizzazione di un proficuo percorso scolastico.

Esiste poi un’altra dimensione che potrebbe essere interessante considerare.

Quando si parla di apprendimento e resa scolastica in riferimento al versante del vissuto affettivo si finisce presto o tardi a soppesare più o meno empiricamente quello che viene colloquialmente definito “l’umore” generale dei componenti la classe.

Non è sbagliato chiedersi se anche i semplici stati d’animo possano essere iscritti in quelle componenti affettive che è utile monitorare così da ottenere risultati migliorativi in ordine all’apprendimento.

Alcuni ricercatori hanno accertato che “il buon umore ha una funzione generica di stimolazione sull’attività cognitiva”, vale a dire, tale stato d’animo “determinerebbe un contesto cognitivo particolarmente ampio e complesso da cui potrebbero originarsi criteri nuovi e diversi per la codifica e l’organizzazione delle informazioni”. Il buon umore insomma “ha l’effetto di modificare le strategie di pensiero usate per risolvere problemi, fare inferenze, prendere decisioni: ne risulta stimolata la creatività e l’uso di strategie intuitive”[6].

Come si potrà facilmente inferire, si ribalta la situazione considerando invece gli stati d’animo caratterizzati da malumore costante, tristezza e depressione diffusa. I già citati Autori dipingono tali sentimenti come “globali e pervasivi, fungono come un contesto che induce a giudizi pessimistici”[7]. Uno stato d’animo perennemente negativo impedirà allo studente di collaborare con buona volontà all’interno del gruppo di pari, lo renderà incline all’aggressività, poco avvezzo all’altruismo nonché, sul piano apprenditivo, poco desideroso di considerare e capire cose nuove, svogliato, apatico, irritabile e costantemente sulle difensive.

Se l’umore positivo o negativo dei componenti la classe ha modo di influenzare così profondamente la propensione degli stessi ad apprendere, finanche gli stessi processi cognitivi e le condotte in generale, è indiscutibile concludere che l’insegnante esperto debba essere in grado in qualche modo di intervenire sugli stessi, per modificarli all’occorrenza.

E’ evidente come non si possano dispensare magiche ricette, come non esistano strategie precise e validate con cui promuovere il buonumore negli studenti e scacciare la depressione, molto però dipenderà dalle modalità con cui l’insegnante si approccerà alla classe ed al singolo.

L’insegnante che fa dell’empatia, benevolenza, equilibrio i tratti distintivi del proprio mandato contribuirà ad innescare sentimenti medesimi negli alunni su cui dovrà in qualche modo agire. Al contrario, il docente inflessibile, mai incline al momento di allentamento della tensione, colui che presenterà l’esperienza di apprendimento quasi come un regime coatto, sempre teso e rigido in ogni sua manifestazione diretta o analogica, creerà come logica conseguenza un clima generale di malumore, che gli individui maggiormente esposti per caratteristiche peculiari interiorizzeranno con disastrose conseguenze.

Vorremmo avviarci alla conclusione non prima di aver riservato qualche considerazione al vissuto d’ansia di cui spesso si parla come della “bestia nera” che giunge a tarpare coloro che ambiscono a realizzare una qualsivoglia impresa.

Declinando verso il contesto oggetto di disamina, possiamo identificare l’ansia come uno stato emozionale che insorge quando l’allievo inizia in via pregressa a prefigurare di fronte a sé un vissuto di insuccesso, è come se già percepisse anzitempo la svalutazione che gli perverrà dagli altri e la delusione vissuta sul piano personale.

E’ importante considerare come alcuni ricercatori sostengano, a dispetto di ciò che si potrebbe credere a tutta prima, che un dato livello d’ansia possa addirittura tornare utile nel migliorare le dinamiche di apprendimento[8]. Nonostante questo inciso, quando l’ansia arriva a superare una determinata soglia diviene un problema da risolvere, una vera e propria invalidità che mina la capacità di concentrazione, la ritenzione dei concetti, che porta a scarsa coerenza nel capire le reali richieste del compito.

Particolare attenzione dovrà essere prestata da parte degli insegnanti alla presentazione degli obiettivi, evitando pressioni specie quando inutili, non imponendo limiti di tempo stringenti, non minacciando interventi disciplinari e valutazioni negative e via dicendo.

I compiti di apprendimento, non ci stancheremo di ripeterlo, andranno possibilmente presentati come una splendida avventura conoscitiva da intraprendere, avventura che condurrà all’ampliamento del bagaglio culturale dei bambini/ragazzi e che aprirà il campo a tutta una serie di esperienze nuove che la persona non avrebbe potuto incontrare qualora non fosse giunta a quello specifico varo.

I già citati Franta e Colasanti consigliano di fornire agli allievi una serie di abilità accessorie tra cui potremmo enumerare: capacità di organizzazione delle abilità di studio,
autocontrollo in situazione di pressione, rafforzamento della attitudine collaborativo-interattiva specie nel caso di allievi già particolarmente timidi e/o insicuri.

Conclusioni

Pretendere di trarre conclusioni di “valore assoluto” da temi vasti come quello trattato, caratterizzati da innumerevoli sfaccettature, riveste un tentativo inutile, anche e soprattutto perché non esistono ricette magiche o formule perfette attraverso cui risolvere ogni problema od ottenere risultati omogenei ed immediati.

La cosa importante crediamo sia segnalare, intrecciando i contenuti sopra tratteggiati, alcuni elementi essenziali da cui non prescindere al momento di affrontare una problematica come quella della disposizione affettiva dell’allievo in funzione dell’apprendimento.

La tesi fondamentale per una conclusione potrebbe essere la seguente: solo considerando la persona nella sua totalità e mettendo a segno un processo di apprendimento del quale si senta protagonista attiva e che non percepisca come “nemico” avverso alla sua stessa sensibilità si potrà notevolmente migliorare il risultato dell’apprendimento medesimo e prevenire o almeno migliorare le situazioni di insuccesso scolastico.

Crediamo sia inutile seguitare a cambiare le strutture scolastiche senza preoccuparsi di affinare parallelamente le nostre pratiche pedagogiche.

Bibliografia

G. Petracchi, “Affettività e scuola”, La Scuola, 1993

F. Montuschi, “Competenza affettiva e apprendimento”, La Scuola, 1993

G. Bodei, “La geometria delle passioni”, Feltrinelli, 1991

F. Boschi, “Ansietà, lettura, apprendimento”, Le Monnier, 1985

V. D’Urso, “Imbarazzo, vergogna ed altri affanni”, Cortina, 1990

A. Ellis, “Ragione ed emozione in psicoterapia”, Astrolabio, 1989

A. Heller, “Teorie dei sentimenti”, Editori Riuniti, 1981

M. Cannao, “Problemi emozionali nel rapporto educativo”, La Scuola, 1989

N. Arabi, “L’emotività a scuola: una proposta di auto osservazione dei processi relazionali”, Angeli, 1985

M. Ammanniti – N. Dazzi, “Affetti, natura e sviluppo nelle relazioni interpersonali”, Laterza, 1990

C. G. Desbouts, “La scuola non fa per me”, LAS, 2006

J.A. Alcantara, “Como educar a la autoestima”, Ediciones CEAC, 1993

M. Buber, “Il principio dialogico ed altri saggi”, San Paolo, 1993

[1] Per una considerazione più estensiva dell’argomento si veda la bibliografia proposta dall’autore

[2] F. Montuschi, “competenza affettiva e apprendimento”, La Scuola, 1993

[3] C.R. Rogers “Freedom to learn”, Merril, Columbus, 1969 (traduzione italiana di Giunti Barbera, Firenze 1973)

[4] Benjamin S. Bloom, “All our children learning” McGrowHill, 1980

[5] N.E. Gronlund, “Individualizing classroom instruction” Macmillian Publishing, 1974

[6] R. Trentin, “Emozioni e processi cognitivi” in V. D’Urso – R. Trentin, a cura di, “Psicologia delle emozioni” Il Mulino, 1988.

[7] Opera citata, R. Trentin “Emozioni e processi cognitivi”.

[8] Si veda Franta, Colasanti “L’arte dell’incoraggiamento”, Carocci, 1991