Dalla parte dei bambini: un nido per crescere insieme

(Testo dell’intervento tenuto al Convegno “Asili nido in azienda: come si cresce insieme”, Como, 9 ottobre 2004, organizzato da Soroptimist International d’Italia Club di Como)

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Il buon giorno si vede dal mattino

Premessa: riscopriamo il valore delle persone

Oggi, nel momento in cui la mobilità dei contratti di lavoro rende spesso incerti, precari e di conseguenza ansiogeni i rapporti tra lavoratori e imprese, l’iniziativa di organizzare asili nido nell’azienda rappresenta una controtendenza di grande interesse. Significa che si sta valorizzando il capitale umano, che non si pensa più soltanto in termini di “forza lavoro” ma di rapporti tra persone. I due terzi dello sviluppo di un’impresa economica, sostengono gli esperti, dipendono dalle abilità dei lavoratori. E non si tratta tanto di competenze tecniche, che si possono sempre acquisire, quanto di atteggiamenti affettivi. Un’ “azienda amica” non ha solo finalità assistenziali perchè gli effetti di un buon clima emotivo hanno ricadute positive sul funzionamento complessivo dell’impresa, a breve e lunga scadenza, soprattutto quando i progetti non cadono dall’alto ma coinvolgono i lavoratori. Nel secolo scorso la fabbrica ha costituito un grande operatore di identità individuali e collettive e il luogo di lavoro non era vissuto come un contenitore anonimo perchè offriva occasioni di partecipazione, di solidarietà, di lotta, una storia condivisa, una prospettiva per il futuro . Ora invece il lavoratore e la lavoratrice sono spesso soli, inseriti in una società di massa e in una cultura mediatica più attente agli aspetti finanziari e spettacolari che a quelli umani della vita. Del disinteresse colettivo ne fanno le spese soprattutto le donne, particolarmente vulnerabili negli anni
della maternità, quando l’attesa e l’accudimento di un bambino distolgono energie e risorse al mondo esterno. Gli atteggiamenti degli addetti ai rapporti con il personale sono spesso caratterizzati da disapprovazione latente o palese, come se l’eventuale calo di efficienza delle dipendenti fosse provocato da scelte arbitrarie e da una sostanziale irresponsabilità nei confronti del lavoro. Si dimentica che il compito di mettere al mondo e di crescere i bambini è in assoluto il più importante e che l’avvenire di una civiltà dipende in gran parte dal modo in cui verrà svolto. In un certo senso, organizzando un nido, l’azienda fuoriesce dall’ambito delle sue competenze, si protende verso l’esterno e, porgendo una mano alle famiglie, ridisegna i confini del suo perimetro, reale e simbolico. Il contratto di lavoro si integra con un patto di alleanza che prende in considerazione i bisogni, i desideri, i corpi, l’intimità degli affetti. E comprende nuove figure: i bambini e i loro parenti-il padre, i fratellini, i nonni-oltre agli educatori e ad altri operatori per l’infanzia. S’instaura così il clima idoneo perchè si costituisca quella che io chiamo ” genitorialità diffusa”: una responsabilità parentale condivisa da tutti gli adulti in quanto tali, indipendentemente dai legami familiari. Ai vocaboli tecnici del lessico specialistico si affiancano ora parole nuove, che sanno di natura, di casa, d’infanzia, di fiaba. In questo senso l’espressione “nido aziendale” è quanto mai significativa: l’accostamento di due termini così eterogenei, l’uno poetico l’altro tecnico, rivela il potenziale creativo insito nell’impresa. Un nido fragile e vivo, accolto tra i rami dell’albero azienda, può costituire infatti una risorsa affettiva valida per tutti.

Per chi è l’asilo nido?

Racconta Susanna Mantovani, la maggior esperta italiana di istituzioni educative per l’infanzia, che alla domanda “per chi è l’asilo nido?” ottiene di solito queste risposte: “l’ asilo nido è per l’Azienda” oppure “per le donne che lavorano “. Indubbiamente il servizio, soprattutto nel caso di nidi aziendali, è rivolto al personale femminile e finalizzato a sostenere le prestazioni professionali delle giovani madri. Ma questa priorità vale in fase di progetto, finchè si valuta l’opportunità e la possibilità di aprire un nido. Dal momento però in cui si passa alla sua attuazione la centralità va attribuita al bambino. Ogni decisione deve tener conto del suo benessere e della sua crescita perchè il primo diritto dei nostri figli è quello di evolvere secondo i propri tempi, di diventare grandi realizzando le proprie potenzialità. Operando una forte semplificazione, si può dire che nel nostro Paese sono stati attuati due modelli di asili nido. I primi, realizzati dall’OMNI negli anni ’30 e continuati sino agli anni ‘6O, svolgevano principalmente compiti di assistenza ed erano condotti da balie di buona volontà, poco acculturate e sommariamente preparate. Il modello successivo, sorto in opposizione al precedente, appare invece particolarmente finalizzato all’educazione dei bambini in vista del loro inserimento nella scuola materna. Qui la massima attenzione è attribuita ai processi di apprendimento e di socializzazione, si mira a realizzare un bambino competente. Ma la psicologia contemporanea ha messo in luce anche l’importanza di altre dimensioni come le sensazioni, gli affetti, i sentimenti, le emozioni, l’immaginazione, il senso estetico, le capacità espressive, la convinzione di poter agire in prima persona, modificando l’ambiente e le relazioni. Da tempo la “Fondazione Agnelli” ha sottolineato la rilevanza, nei moderni processi produttivi, delle capacità creative rispetto a quelle esecutive, progressivamente affidate a strumenti tecnici. Di conseguenza l’educazione si sta dando, sin dall’infanzia, nuove priorità, ove è fondamentale la capacità di “imparare a imparare”; si tratta cioè di essere mentalmente duttili e aperti, disponibili a cambiare per seguire il rapido corso dell’innovazione tecnologica. In questa prospettiva l’asilo nido svolge un compito fondamentale perchè è proprio nei primi anni che si struttura la nostra apertura al mondo. Un buon metodo educativo esorta il bambino all’esplorazione, all’apprendimento attivo , che nasce dal “fare”, piuttosto che dall’ immagazzinamento passivo di dati preformati. La consapevolezza della complessità dell’infanzia rende sempre più esigente la formazione degli educatori, non solo nei rapporti con i bambini ma anche nella gestione delle relazioni tra di loro e con le famiglie. Venendo meno la figura dell’insegnante unico, risulta sempre più importante, a tutti i livelli, il gruppo di lavoro. Gli operatori devono essere capaci di pensare e di agire in termini di “noi” anzichè di “io”, sottoscrivendo un programma comune cui attenersi, seppur con flessibilità. In questo contesto i genitori non costituiscono una controparte rispetto agli educatori; sebbene la mamma sia la principale figura di riferimento dei bambini in età prescolare, il papà può sostituirla egregiamente in ogni fase della vita del nido perchè ormai, nelle nuove famiglie, l’allevamento e l’educazione dei figli è un’impresa congiunta e le funzioni sono divenute interscambiabili, pur nella differenza delle posizioni e di ruoli. Mentre, fino a pochi anni fa, si chiedeva all’educatore di essere competente, ora gli si domanda di essere anche sensibile, consapevole, accorto, di sapersi coinvolgere affettivamente ed emotivamente nelle relazioni senza tuttavia smarrire il senso del limite e della misura. Vi è però un rischio, anche in questo caso, che l’attenzione rivolta ai protagonisti adulti dell’impresa nido finisca col far dimenticare la priorità e la centralità del bambino.

“Non ho mai visto un bambino!”

Con questa dichiarazione, volutamente provocatoria, Winnicott intendeva attirare l’attenzione degli ascoltatori. Poi riprendeva specificando: ogni volta che sono stato chiamato al capezzale di un bambino, questi aveva sempre accanto a sè un adulto, per lo più la mamma. Ed è proprio dall’unità madre-figlio che dobbiamo prendere le mosse se vogliamo comprendere che “andare al nido” s’inserisce nella fondamentale dinamica psicologica che conduce dall’attaccamento madre-figlio alla reciproca autonomia. Durante la gravidanza il nascituro è tutt’uno con la madre, partecipe del suo corpo e dei suoi pensieri. Ma, sin dal primo giorno dopo il parto, inizia una lenta, graduale marcia di allontanamento. Il ritmo del primo distacco è scandito da un regolatore interno alla coppia che trova via via conferma nei comportamenti del bambino, nella sua capacità di resistere all’assenza della mamma senza cadere nell’ angoscia. Il movimento che conduce dalla mamma al mondo non è però a senso unico e sono sempre possibili rapidi dietro-front, repentini mutamenti di intenzionalità e di umore. Possiamo così comprendere che il piccolo ha raggiunto due importanti traguardi: ha acquisito i fondamentali sentimenti di sicurezza e di fiducia benchè abbia ancora bisogno di essere sostenuto e confortato. Solo così la regressione temporanea si configura, non come una sconfitta, ma come una rincorsa per saltare più in alto e più in là. In ogni caso al momento dell’ingresso al nido vi sono una mamma e un bambino che chiedono di essere presi in carico insieme, uniti da sentimenti condivisi di speranza e di paura. Per il neonato la mamma è più di una persona, è il suo ambiente, il suo mondo, la sua ” impresa” (holding). L’nserimento al nido dipende in gran parte dallo stato d’animo della mamma, da come vive la momentanea sospensione delle sue funzioni, la delega del suo ruolo a un’altra figura femminile. Al tempo stesso la mamma, che non è un’isola, recepisce le reazioni degli altri, delle persone a lei prossime, come il marito, i nonni, le amiche, i conoscenti e, anche senza saperlo, ne resta influenzata; per cui nel momento, indubbiamente ansiogeno, della prima separazione, possono emergere immotivati sensi di colpa nella madre e speculari sentimenti di riprovazione delle operatrici. Riconoscere l’esistenza di questi fattori di perturbazione serve tuttavia a minimizzarli e mantenerli sotto controllo. Il bambino che entra al nido non passa dalle braccia della madre a quelle di una vice-madre. La mamma resta comunque una sola, la sua; piuttosto scivola lentamente da un rapporto a due a una rete di relazioni differenziate e tuttavia limitate e sufficientemente stabili. Il passaggio può essere prematuro ma l’anticipo viene ben presto recuperato se l’esperienza nido entra nella corrente evolutiva, se risponde allo spontaneo bisogno del bambino di allargare il perimetro delle sue esplorazioni e la gamma delle sue interazioni. Dapprima il neonato comunica attraverso un contatto corporeo, di pelle, in cui prevale la corrente della tenerezza ma progressivamente
aumenta lo spazio che lo separa dall’adulto. Uno spazio che deve essere occupato dalla parola come discorso affettivo, empatico, che comunichi qualcosa a qualcuno. Sappiamo che l’intelligenza è emotiva e che anche l’apprendimento più semplice riesce meglio se viene sostenuto da sentimenti positivi. Un ambiente istituzionale adeguato stimola i processi cognitivi e i comportamenti sociali dei piccoli purchè esistano le condizioni per crescere: una mamma serena, educatrici competenti e affiatate, uno spazio accogliente e un tempo regolare, dove gli eventi siano prevedibili. In questo senso il nido aziendale ha una marcia in più perchè la prossimità della mamma al figlio non è solo ambientale ma psicologica, non si misura in metri ma in stati d’animo. La possibilità di incontrarsi durante il giorno, di intervenire tempestivamente in caso di bisogno, di parlare direttamente con le educatrici, di assaggiare i cibi, di captare il clima che s’instaura con il personale e tra bambini, di conoscere tutto e tutti lenisce la sofferenza del distacco e il sentimento di reciproco abbandono. Se il programma funziona “abbastanza” bene, l’inserimento al nido viene vissuto, non come una perdita, ma come una conquista. Ricordiamoci che un tempo i bambini crescevano in una famiglia allargata, dove convivevano più generazioni e i punti di riferimento erano molteplici. Ora la solitudine che contraddistingue la coppia madre-figlio, non solo nelle grandi città ma anche nei centri minori, comporta che il nido costituisca una risorsa e che possa essere scelto come un valore e non semplicemente come una necessità.

Il nido non è mai finito: fare nido

Un buon nido non è quello perfetto, per altro inesistente, ma quello che sa interrogarsi, mettersi in crisi, rimanere aperto ai cambiamenti. Una prova di buon funzionamento è data dallo stato d’animo di chi vi partecipa per cui è importante, non solo sondare le valutazioni dirette dei partecipanti, ma anche cogliere gli eventuali segnali di malessere. Lo scontento, se non è interrogato per tempo, tende infatti a dilagare a macchia d’olio perturbando tutti i rapporti. Nell'”impresa nido” non vi è nulla di irrilevante perchè il bambino non ha ancora differenziato le sue implicazioni e pertanto vi partecipa con tutto se stesso. A quell’età corpo e psiche, pensieri e affetti, sensazioni e cognizioni, mondo interno e mondo esterno interagiscono continuamente, senza filtri. La disarmata disponibilità dei più piccoli richiede all’adulto di attivare una particolare sensibilità, la capacità di mettersi in sintonia con ognuno al fine di trattarlo nel modo più adeguato, senza prevaricarlo. Nei primi anni di vita il semplice contatto delle mani con l’epidermide infantile trasmette molti messaggi, non sempre intenzionali. La tonalità affettiva deve, nei limiti del possibile, ricalcare la tenerezza materna, un’affettività depurata dalle componenti sessuali che contraddistingono gli scambi tra corpi adulti. Ricordiamo che il bambino possiede un senso innato del pudore che va rispettato proteggendo l’esposizione delle sue nudità e delle sue funzioni corporali dallo sguardo degli altri. Momento cruciale, come sappiamo, è l’inserimento del bambino nel nido: con ciò gli si permette di adattarsi alla nuova situazione nel rispetto della sua soggettività. Il piccolo non è un pacco postale che si possa consegnare e ritirare senza aprirlo. Se invia messaggi, positivi o negativi che siano, significa che crede nella comunicazione, che ritiene di poter essere compreso e aiutato. Monitorando il suo benessere psicofisico, l’adulto può capire a che punto si trova e come procede il suo inserimento nella comunità. Anche un piccolo progresso può testimoniare che sono in atto dinamiche di assimilazione e di accomodamento alla nuova situazione e non importa che il successo sia raggiunto presto o tardi. Spesso un inserimento troppo facile maschera un atteggiamento di accondiscendenza: il bambino si comporta “come se” stesse bene perchè dispera di poter modificare la sua condizione. La rassegnazione iniziale tende poi a stabilizzarsi in una forma di passività di fronte a tutti gli eventi della vita. Ma i traumi non elaborati, buttati fuori dalla porta della mente, rientrano spesso dalla finestra del corpo sotto forma di sintomi psicosomatici: inappetenza, sonnolenza o insonnia, attacchi d’asma, disturbi gastroenterici – che un pediatra attento e preparato può diagnosticare e un educatore sensibile e accorto prevenire o risolvere. Non che i bambini debbano sempre essere felici, se lo sono tanto meglio, il nostro compito è prima di tutto quello di aiutarli a crescere. Posti nelle condizioni di esprimere le loro capacità e di scoprire le loro potenzialità, i bambini sono spontaneamente contenti. A quell’età l’attività è piacere mentre la passività, l’inerzia, la disattenzione, la “sordità” dell’adulto sono causa di disagio e di sofferenza. Momento centrale dell’attività del nido, il suo cuore pulsante, è il gioco. E il gioco è libertà, spontaneità, piacere. Nulla è più serio del gioco e solo un adulto maturo è capace di giocare, di esprimere la sua parte infantile senza per questo sentirsi sminuito. Certe volte i bambini desiderano giocare con l’educatrice, altre volte tra di loro oppure da soli. L’importante è che si sentano presenziati e che l’adulto sia disponibile ad ascoltarli, ad accogliere dentro di sè le inquietudini che talora li turbano e a trovare insieme un punto di equilibrio. Altri momenti d’intensità sono il sonno e il pasto. Per addormentarsi i bambini hanno bisogno di sentirsi sicuri, presenziati da adulti premurosi, e circondati da un ambiente accogliente. La “cuccia” del cucciolo non può essere collettiva (un pavimento di gommapiuma su cui sdraiarsi alla rinfusa) perchè rappresenta il grembo materno, la sua particolare protezione. A questo scopo è opportuno personalizzarla con una copertina portata da casa e il peluche preferito. Anche il momento del pasto riveste una singolare valenza emotiva in quanto il cibo è un simbolo d’amore e tutto quanto riguarda l’alimentazione è carico di significati affettivi ed emotivi. Non è tanto importante la quantità quanto la qualità dell’alimentazione infantile. Data la particolare sensibilità della sua bocca, ingozzare un bambino equivale ad aggredirlo ed è sempre preferibile non mangiare che essere nutrito a forza. L’insonnia protratta così come il rifiuto sistematico del cibo sono sintomi che devono essere colti, interpretati e trasformati in dialogo. “Parliamo molto dei bambini ma poco con i bambini”, osserva Francoise Dolto, invitando gli educatori a dire quello che fanno e fare quello che dicono. La parola umanizza il gesto e i bambini sono in grado di capire il linguaggio molto prima di parlare. Colgono intuitivamente il senso del discorso attraverso il suono, il silenzio, il respiro. Le emozioni hanno un linguaggio universale e il bambino le recepisce come un diapason. Quanto ai rapporti dei bambini tra di loro, la cosidetta ” socializzazione” , anch’essa va inserita in un processo evolutivo e valutata in base alle esigenze di ognuno. Certi bambini sentono per temperamento il bisogno di ambiti di silenzio e di concentrazione, di spazi per sè, di contatti rari e selezionati. Dovremmo essere capaci di distinguere tra l’isolamento difensivo e quello creativo. Non esistono comportamenti esemplari, da imporre a tutti. Meglio far sì che ciascuno trovi il suo modo di crescere, insieme agli altri ma non necessariamente come gli altri. Durante gli “anni magici” la fantasia è la parte più ricca e attiva della mente e la fantasia ha bisogno, per sbrigliarsi, di comunicare in tanti modi, attraverso la parola e l’ascolto, ma anche il gesto, l’azione, l’espressione artistica, la messa in scena. La difesa dei ruoli e dei regolamenti, la pulizia ossessiva, l’ordine scrupoloso, il rifiuto di evitare ogni rischio le sono d’intralcio. Così come i giocattoli troppo elaborati, che consentono solo un utilizzo prestabilito, nulla lasciando all’esplorazione sensoriale, all’iniziativa, alla manipolazione e all’inventiva del bambino. I più piccoli hanno una sensibilità ecologica spontanea e giocare con gli elementi primi, come la terra , l’acqua e l’aria, e, fosse per loro, anche il fuoco, li rende interiormente soddisfatti. Allo stesso modo, osservare il ciclo della natura attraverso i fiori, gli alberi, il susseguirsi delle ore e delle stagioni li sintonizza con i ritmi biologici dell’ecosistema in cui vivono, ritmi lenti e silenziosi assai diversi dai tempi contratti dell’organizzazione quotidiana. Per i libri poi non è mai troppo presto. I più piccoli si familiarizzano con la carta stampata incominciando a manipolarla, a usare i sensi per esplorarla e procedono poi a osservare le figure , a riconoscerle e nominarle sino a giungere a organizzare brevi racconti, connessi alla loro esperienza. E’ molto importante imparare a “fare storie” nel senso non solo di ascoltarle ma anche di produrle, partendo da pochi personaggi
e da situazioni semplici e familiari. La narrazione è un modo efficace per porre ordine nel magma della fantasia e per moderare l’impeto delle emozioni e dei sentimenti che, lasciati a se stessi, rischiano di perturbare il pensiero e disturbare l’attenzione. Per crescere il bambino ha inoltre bisogno di esprimere anche emozioni negative come la paura, la noia, la rabbia, la sfida. Per l’educatore non si tratta tanto di prevenirle o di soffocarle sul nascere quanto di comprenderle, di scoprire le esigenze che le provocano e di fare buon uso delle energie che le animano, incanalandole nel gioco, nel lavoro, nell’esplorazione del mondo esterno. In questo senso risulta particolarmente efficace la pittura, magari con le dita, e la manipolazione di materiale plastico, come gelatine colorate, creta e pasta di pane. Anche la musica, ascoltata o prodotta, funziona come linguaggio delle emozioni, come una possibilità di comunicare e condividere quegli stati d’animo che non trovano parole per dirsi. Ogni turbamento, una volta espresso e messo in comune , cessa di essere distruttivo ed, espandendosi a cerchi concentrici, si rende sopportabile, pensabile, vivibile. In questo senso il nido è un cantiere aperto, un procedere a vista che, senza negare il valore delle competenze, non può affidarsi a mappe precostituite, a percorsi già tracciati. Né permettersi di diventare un’istituzione burocratica: i bambini cambiano continuamente non solo perchè crescono ma perchè muta il mondo intorno a loro, nel bene e nel male. La nostra epoca è contraddistinta dalla paura diffusa (del terrorismo, della crisi economica, della catastrofe ecologica) ma mai come ora abbiamo compreso il senso della comunità, il valore della solidarietà, l’importanza dei bambini. In un contesto così inquietante le istituzioni per la prima infanzia (asili nido e scuole materne) rappresentano la possibilità di un mondo senza il male, di una società senza conflitti. Così come i Conventi benedettini durante il Medioevo, quando il mondo sembrava travolto dal disordine e dalla violenza, hanno organizzato, intorno al lavoro, piccole oasi di pace e di spiritualità, altrettanto mi auguro possano fare gli asili nido, luoghi protetti ma non chiusi per vivere e crescere insieme.

*professoressa di Psicologia Dinamica all’Università di Pavia