Educare in psichiatria

Molto spesso in contesti educativi – riabilitativi gli educatori operanti all’interno dei servizi faticano a inserire nel loro “mansionario” anche il termine “terapia”. Questo non per chissà quale loro difficoltà intrinseca, quanto per come il linguaggio si è venuto a delineare e a costruire sul terreno dell’educazione, della riabilitazione, della terapia.

Non si vuole fare assolutamente un excursus etimologico dei tre termini; mi vorrei invece concentrare sulla “prassi” di questi termini. Utilizzo “prassi di termini” perché vorrei sottolineare quanto nell’agire quotidiano gesti utilizzati nella riabilitazione portino con sé atti educativi, rieducativi e terapeutici.

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Alla base di queste riflessioni vi sono sicuramente gli studi recenti sul cervello (la sua plasticità) e l’ottica costruttivista/costruzionista (utilizzerò indifferentemente i due vocaboli non credendo alla diatriba che è in atto su due diverse impostazioni), le quali hanno già da diverso tempo delineato diverse prospettive in merito alla relazione che ogni soggetto ha con sé e col mondo. La logica della scultura del cervello, affiancata alla logica della costruzione di significati (e del mondo) vanno di pari passo con l’agire quotidiano di educatori e operatori agenti nei diversi servizi “di cura”. Credo non sia più possibile tenere drasticamente distanziate discipline quali la medicina dalla pedagogia, la psicologia dalla psichiatria, la filosofia dalla neurofisiologia… e tantomeno la loro prassi. A parte ciò che caratterizza le ricerche specifiche di ogni disciplina, direi quasi di laboratorio, il resto, l’agito, e il pensato, quotidiano, il “curare” (sia esso il curare medico, sia il prendersi cura dell’educatore) attraversa trasversalmente tutte le discipline. Il nullus medicus nisi filosofus ricompare in vesti più moderne in coloro che sostengono l’approccio bio-psico-sociale, ovvero la complessità dell’essere umano; complessità che viene agita, forse a sua insaputa o forse consapevolmente, dall’educatore: dal co- costruire un motivo per cui alzarsi con colui che non trova più senso a scendere dal letto alla mattina, al co-costruire un significato per colui che non vuole prendere una terapia, a tutti quei gesti quotidiani che si verificano nella vita di tantissimi centri.
Allora seguendo le orme de “l’esperienza come un agente della scultura del cervello” e della costruzione di una realtà attraverso il dialogo con essa, l’educatore – che affianca, conduce, fa con, dialoga, fa un percorso con – induce al cambiamento, al riutilizzo di abilità, al rafforzamento di altre, all’incremento e rafforzamento delle “potenzialità residue”.
Ma il cambiamento, la riabilitazione, il potenziamento di taluni comportamenti non erano esclusivi della medicina (psichiatria) e della psicologia (psicoterapia)?
Nello spazio intersoggettivo tra paziente, utente, ospite uomo/donna, persona – in ognuno di questi termini viene poi a delinearsi l’immagine di chi si ha di fronte – ed educatore viene a crearsi una relazione all’interno della quale ognuno degli agenti inventa e re-inventa parte del suo essere-con, del suo essere-in, del suo essere-nel … L’educatore si trova allora a educare, riabilitare, terapeuticizzare, a co- costruire col soggetto altro da ciò che in quel momento sta sperimentando.
Questo non vuole essere un a-specifico dei diversi “soggetti” chiamati in causa nel prendersi cura del “soggetto”, quanto intravedere come queste specificità sono intrecciate tra loro.
Troppo spesso le specificità dei professionisti – è ormai banale dirlo – inducono ad una sorta di schizofrenia del servizio reso. Schizofrenia che prima ancora di colpire il “paziente” colpisce i detentori del progetto sulla persona; molto spesso si sente affermare: “questo compito è dello psichiatra …”; “questo io non lo faccio perché è compito dell’infermiere”; “voi non dovete fare colloqui perché questo è mio compito [psichiatra]” … Questi sono eventi che caratterizzano numerosi centri, residenziali e non, all’interno dei quali diverse figure si trovano a co-gestire un progetto – una quotidianità.
L’educatore/trice si trova quindi, molto spesso, a non sapere quale è il suo ruolo all’interno di un determinato progetto. Una cosa sanno:
essendo educatori … educano! Ma se il loro agire educativo passa attraverso una ridefinizione del soggetto verso di sé e verso il mondo, se il loro arrivare al centro è incontrare l’altro nella sua “totalità”, se il loro interagire con l’altro significa interagire con la sua famiglia, il suo contesto sociale, la sua rete (formale e informale) … non è questo un agito terapeutico?
Allo stesso educatore/trice la parola terapia è stata allontanata, o forse mai inserita, dal suo essere professionale; ed è all’educatore/trice che il termine terapia spaventa. Perché terapia è cambiamento, è ridefinirsi altro da ciò che si è in quel momento … è troppo spesso: avere la verità in tasca: una determinata azione comporterà un preciso mutamento in un persona. E all’educatore/trice la verità in tasca non è permessa (per fortuna), poiché la verità è delle “scienze esatte”: della matematica, della fisica (sic!), della medicina … delle diagnosi. Allora il medico ha alle sue spalle la medicina – lo psichiatra la psichiatria -, lo psicologo la psicologia – lo psicoterapeuta la psicoterapia (e le sue diverse scuole) – ma l’educatore/trice che cosa ha alle spalle? Su quale disciplina può affidarsi?
Avventurandomi nei corsi di riqualificazione per educatori professionali ho notato che la diversità delle discipline porta con sé, non una indefinizione di scienze, ma una visione, considerazione, applicazione di tecniche, teorie, pratiche che a trecentosessanta gradi investono moltissimo del patrimonio scientifico: l’area pedagogica, l’area metodologica, l’area psichiatrica, l’area psicologica, l’area socio- antropologica hanno lo stesso corrispettivo orario: cosa vuol dire? Penso voglia dire che all’educatore/trice è richiesto, formalmente e informalmente, di destreggiarsi in un campo assai ampio, riconoscendogli/le la capacità, il diritto, la professionalità di poterlo fare.
Allora cosa fa l’educatore/trice quando arriva nel centro? Quando colloquia con l’ospite/paziente? Quando in cucina degusta un cibo con qualcuno che non vuole mangiare? Quando accompagna al paese natale, quel “paziente” che urlava al mondo intero che tutti erano contro di lui? Che offre al “paziente” un’alternativa al ricovero coatto, utilizzando strategie, inventate/intuite, forse, al momento?
Riabilita, educa (ri-educa), fa terapia (nel senso più ampio del termine). Entra il relazione con il soggetto “malato”. Entrando quotidianamente in relazione con i diversi soggetti l’educatore/trice si avvale di tutti gli strumenti che appartengono al suo “bagaglio” (e anche al suo background), che porta delicatamente e forzatamente con sé. Nella sua relazione con il soggetto (soggetto – incontra – soggetto) egli tende alla modificazione di comportamenti, visioni della vita, relazioni (con sé e col mondo) che altrimenti il soggetto “malato” non vivrebbe, chiuso in una visione di sé e del mondo rigidamente costruita.
Si entra quindi in uno dei campi del linguaggio in cui il significante porta con sé il significato: seduttivamente l’educatore/trice si fa terapeuta. Nella circolarità della relazione i due soggetti interagiranno in modo co-costruttivo e all’educatore viene richiesta ora una preparazione che tenga conto di questa situazione.

Bibliografia
Robertson I.H., Il cervello plastico, Rizzoli, 1999
Oliverio A., Esplorare la mente, Raffaello Cortina, 1999
Watzlawick P. (a cura di), La realtà inventata, Feltrinelli, 1988
McNamee S., Gergen K., La terapia come costruzione sociale,
FrancoAngeli, 1998