Il bambino nella relazione

L’opera di Winnicott, psicologo e pediatra annoverato tra gli studiosi che hanno dato enfasi alle primissime relazioni oggettuali, fornisce un modello dello sviluppo infantile che coniuga la riflessione teorica con la pratica clinica. Winnicott mira nei suoi scritti ad approfondire le situazioni che garantiscono lo sviluppo evolutivo normale del bambino rendendo centrale la relazione del bambino con la madre, primo e fondamentale mediatore del suo ingresso nel mondo.

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Winnicott afferma l’esistenza di una dipendenza assoluta del bambino dalla madre nei primissimi mesi di vita; la madre dovrà provvedere e rispondere ai bisogni fisiologici e, in modo particolare, dovrà occuparsi di “sostenere” il bambino. Con il termine “sostenere” (holding) Winnicott intende soprattutto il tenere in braccio fisicamente il bambino; tale operazione è meno semplice e scontata di quanto appaia poiché “ci sono madri capaci di tenere in braccio un infante e madri che non ne sono capaci” (Winnicott, 1976). L’incapacità di una madre di “sostenere” adeguatamente il proprio figlio può produrre un forte senso di insicurezza nel bambino che non si sente sufficientemente protetto e manifesta il suo disappunto con pianti acuti. Winnicott puntualizza quanto siano determinanti per un buon sviluppo psicologico queste prime cure materne e quanto sia errato considerarle secondarie ai fini dello sviluppo di positive relazioni oggettuali; scrive, a questo proposito lo psicologo: “Le basi della salute mentale dell’individuo, intesa come libertà dalla psicosi o dalla tendenza alla psicosi vengono poste da queste cure materne, che passano quasi inosservate quando tutto va bene” (Winnicott, 1976).
Il bambino è, nei momenti iniziali della sua vita, in uno stato simbiotico con la propria madre ed è auspicabile che in quasta fase la madre riesca a comprendere e talvolta prevenire i bisogni di natura ancora prettamente fisiologica del bambino. Quando questo stato simbiotico cesserà, la madre, cambiando il suo atteggiamento, non avrà più comportamenti preventivi e comprensivi a priori ma lascerà al bambino la possibilità di inoltrare segnali che rappresentino adeguatamente il suo stato e le sue necessità. Quando questo passaggio tarda a realizzarsi perché la madre continua ad interpretare puntualmente e preventivamente i bisogni del piccolo si possono verificare situazioni in cui il gesto creativo, il pianto, la protesta, tutti i piccoli segni che probabilmente spingono la madre a fare determinate cose, vanno perduti perché la madre ha già risposto al bisogno “proprio come se l’infante fosse ancora in simbiosi con lei e lei con lui” (Winnicott, 1976).
Quando la madre si comporta nel modo descritto assume un comportamento pericoloso perché castrante e le possibilità che restano al bambino sono soltanto due: o riprodurre sistematicamente lo stato di regressione e di simbiosi
con la madre o inscenare uno sconcertante e totale rifiuto della madre stessa.

Preoccupazione materna primaria

Per riuscire a comprendere la complessità del fenomeno che induce la madre ad un eccesso interpretativo rispetto al neonato è opportuno rifarsi a quanto Winnicott afferma circa la apprensione materna primaria. Tale stato psicologico è una condizione straordinaria che ha il suo apice verso la fine della gravidanza e si protrae fino a poche settimane dopo la nascita del bambino, molto simile ad uno stato di ritiro e di dissociazione contraddistinto da una notevole sensibilità. Winnicott descrive questo stato materno come un episodio di malattia nella quale la madre entra in seguito alla gravidanza e ne esce successivamente, “guarita”.
La madre che realizza tale stato offre al bambino le condizioni affinché le tendenze innate di sviluppo del bambino emergano e si manifestino attraverso la sperimentazione diretta. Questa condizione spinge ad una identificazione materna con il bambino che le permette di avere una percezione molto accentuata dei bisogni infantili. Questa identificazione proiettiva dura per un certo tempo dopo il parto mentre in seguito perde gradualmente di forza e di significato. L’ovvia conseguenza di tale discorso è che mentre una madre non problematica riesce ad abbandonare l’identificazione con il bambino appena si accorge che il piccolo ha bisogno di esprimere i propri segnali in modo compiuto e autonomo una madre “distorta” (Winnicott, 1976) non è in grado di interpretare i segnali del bisogno del bambino di staccarsi da lei continuando a perpetrare lo stato di simbiosi iniziale. Mentre l’iniziale e puntuale riconoscimento dei bisogni del bambino è, a parere di Winnicott, assolutamente indispensabile per garantire ciò che lui definisce come “continuità dell’essere”, poiché le carenze materne sarebbero in grado, in questa fase, di costituirsi come elementi di disturbo e di minaccia per la strutturazione dell’Io del bambino, in un momento successivo la madre dovrà diminuire gradualmente il suo adattamento di pari passo con le crescenti capacità del bambino di tollerare le frustrazioni e di accettare i limiti.
In queste prime fasi della vita del bambino, infatti, si avvia un sistema di relazioni dove le carenze materne non sono percepibili dal bambino come carenze della persona madre ma come una minaccia all’esistenza del proprio Sé. In questi primi momenti la madre insufficiente non viene percepita come tale mentre si produce l’annichilimento del Sé del bambino. Inoltre quando le cure materne risultano inadeguate o insufficienti la personalità del bambino incontrerà molti ostacoli alla sua piena realizzazione poiché è mancato il riconoscimento della sua esistenza in quanto “persona”da parte della madre.

Il falso Sé

Le prime vicende relazionali del bambino con il suo “ambiente materno” diventano determinanti soprattutto rispetto a quello che Winnicott definisce come “falso Sé”. Secondo lo studioso mentre il vero Sé coincide con quello che possiamo definire come nucleo reale ed autentico dell’individuo, con la creatività e la capacità di essere se stessi, il falso Sé è una creazione a livello psicologico che riflette la volontà di nascondere il vero Sé, o meglio una scappatoia ai problemi della realtà “mediante l’intelletto” (Winnicott, 1976). Le radici del falso Sé sono da ricercare nel movimento di assecondamento alle richieste materne. Nella ricerca delle cause scatenanti del fenomeno del falso Sé è opportuno rifarsi non tanto all’osservazione del vissuto infantile quanto alla storia relazionale del piccolo e, in modo particolare, al comportamento della madre dalla quale dipendeva interamente il bambino nei primi mesi di vita.
Per riuscire a comprendere la genesi del falso Sé Winnicott propone il confronto tra due situazioni opposte, ovvero quella in cui una madre è “sufficientemente buona” e quella in cui una madre “non è sufficientemente buona”.
La prima è, per lo studioso, una madre che sa affrontare il sentimento di onnipotenza del neonato andando incontro a quello che è possibile definire come “gesto spontaneo” (il vero Sé in azione), accettando e permettendo al bambino di godersi le illusioni determinate dalla sua onnipotenza, per poi arrivare a giocare con gli elementi illusori creando così i simboli. L’azione della madre in questo frangente è quella di fornire frustrazioni dosate che consentono il graduale declino dei sentimenti di onnipotenza. In questo caso il bambino sviluppa a sua volta un tipo di adattamento sufficientemente buono atto ad affrontare la realtà con la spontaneità che è propria del vero Sé.
Acquisisce così la capacità di creare un oggetto transizionale inteso come quell’oggetto soffice (il pezzetto di coperta, il peluche etc.) dove è concentrata l’esperienza tra il “dentro” e “fuori”, un’area intermedia tra l’onnipotenza e la creatività primaria e la percezione oggettiva della realtà. Il bambino ha bisogno di questa area intermedia dove lui colloca i suoi desideri e le sue illusioni e dove queste vengono soddisfatte; è necessaria per l’inizio di una relazione tra bambino e mondo. L’oggetto transizionale collocandosi contemporaneamentenella realtà interna ed esterna (condivisa da madre e figlio) permette al bambino di vivere l’esperienza di separazione dalla madre in modo meno traumatico: attraverso la simbolizzazione dell’oggetto il bambino compensa la frustrazione della separazione. La madre accetta intuitivamente, in questo caso, l’esistenza degli oggetti transizionali riconoscendo i tentativi infantili di raggiungere attraverso questo primo “possesso” una percezione oggettiva della realtà.
Questo tipo di madre delude gradualmente il bambino ma ha successo proprio perché al principio della sua esperienza materna è riuscita ad offrire al proprio figlio sufficienti occasioni di illusione. Consideriamo, ad esempio, l’esperienza dello svezzamento: una delle “delusioni” che aspetta il bambino. Il presupposto di Winnicott rispetto all’esperienza dello svezzamento è che esso non consiste esclusivamente nel processo attraverso il quale il bambino comincia ad accettare un cibo diverso dal latte bensì anche, e soprattutto, nel processo che lo avvicina e lo abitua alla realtà. Un allattamento ben riuscito rappresenta la base dello svezzamento, durante l’allattamento il bambino ha avuto modo di costruire un ricco materiale per i sogni e di esperire situazioni affettive di grande intensità che lo portano ad avere fiducia nel resto del mondo. Winnicott insiste nell’evidenziare che se la maggior parte dei bambini accetta lo svezzamento senza particolari problemi è merito di un buon allattamento, occasione nella quale la madre ha avuto modo di mostrare al bambino la sua disponibilità ad andargli incontro e il bambino ha così concepito l’idea che il mondo sia un posto piacevole.
Al contrario, una madre “non sufficientemente buona” non riesce ad affrontare l’onnipotenza del proprio figlio e non risponde al gesto spontaneo del bambino, bensì propone un gesto e chiede al figlio di assecondarlo; l’assecondamento da parte del bambino diventa base del falso Sé, funzione diretta dell’incapacità materna di percepire i bisogni reali del figlio. La madre, in questo caso, non si adatta in modo sufficientemente buono ai gesti e alle illusioni spontanee del bambino e il bambino, a sua volta, non riesce a dare inizio al processo di simbolizzazione a causa del mancato collegamento della sensazione all’oggetto, collegamento impedito dalla madre che agisce in modo da separare (e non da unire) bambino e oggetto attraverso i suoi gesti che non tengono conto della spontaneità del figlio.
Il bambino, pertanto, non potendo investire libidicamente la realtà con i suoi oggetti, si adatta a vivere quella che viene definita come una “esistenza falsa”. Egli esprime la propria protesta per un’esistenza falsa attraverso segni di irrequietezza generale, disturbi dell’alimentazione e di altre funzioni che pur scomparendo per alcuni periodi possono ricomparire e aggravarsi in seguito.
Il bambino accondiscendente che emerge da questo quadro reagisce alle richieste del suo ambiente accettandole in toto, costruendosi attorno un falso sistema di relazioni e riuscendo a nascondere così il vero Sé. La spontaneità lascia dunque il posto alla imitazione e il falso Sé appare per quello che è realmente: l’espressione di una strenua difesa contro una madre che non è stata sufficientemente buona. La nascita del falso Sé è da intendersi pertanto come l’esito di un processo difensivo in cui viene protetto il vero Sé infantile; il rischio reale è che il falso Sé venga vissuto dal bambino come reale tanto da giungere ad esautorare irrimediabilmente il vero Sé. Le strade ipotizzate da Winnicott per la trattazione e il recupero di tali problematiche si rifanno all’utilizzo della pratica terapeutica
come tentativo di riprodurre il “rapporto di fiducia” che può svilupparsi tra madre e figlio, le situazioni di sicurezza e di holding.

Bibliografia

G. V. Caprara, Accursio Gennaro, Psicologia della personalità e delle differenze individuali, Il Mulino, 1987
D. Winnicott, Dalla pediatria alla psicoanalisi, G.Martinelli, 1975
D. Winnicott, Bambini, Raffaello Cortina Editore, 1997
D. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, 1976
D. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, 1979
D. Winnicott, Il bambino e la famiglia, Martinelli, 1973
A. Freud, Normalità e patologia del bambino, Feltrinelli, 1969