Solitudini contemporanee: al di là del muro
Di REBECCA CONTI
Il tema della solitudine è tanto intrinseco nella storia dell’uomo, quanto recente e distintivo della nostra epoca. Il contesto moderno parla, citando Noreena Hertz, di secolo della solitudine[1] come risultato di una società in cui gli individui, oberati di impegni e programmi stringenti da seguire, si trovano essenzialmente soli ad affrontare il proprio rapporto con il mondo. Si parla dunque di una solitudine reale, ma anche di una percezione di solitudine; quante volte, pur in mezzo alle persone, ci siamo sentiti senza una reale compagnia?
Eugenio Borgna descrive la solitudine[2] come strumento grazie al quale ci è possibile dialogare col nostro sé, e conoscere il mondo esterno attraverso la conoscenza di noi stessi: proprio i momenti introspettivi di solitudine possono essere occasioni generative di creatività, apertura al mondo e attenzione all’altro.
Ma quando la solitudine passa dall’essere un’imposizione dell’assenza altrui, all’essere frutto di una consapevole scelta personale? Può esistere una solitudine positiva, che decide di rallentare di fronte alla frenesia quotidiana? Cosa ci mette a rischio e ci protegge dalla solitudine? E ancora, qual è la differenza tra solitudine e isolamento?
Il convegno dal titolo “Solitudini contemporanee”, svoltosi lo scorso 6 Marzo all’Università Bicocca, ha tentato di rispondere a queste domande con punti di vista e spunti di riflessione illuminanti. Innanzitutto, sul fatto che non esiste un’età per la solitudine: questa accade e si fa spazio in diversi momenti delle vite delle persone. Al contrario del sentire comune, non è solo la vecchiaia ad essere caratterizzata dal trovarsi soli. Anche l’età adulta può essere una fase in cui la solitudine cresce e si dipana; così come l’età dello sviluppo e l’adolescenza: momenti cruciali in cui è essenziale un equilibrio tra socialità e tempo passato in presenza solo di se stessi.
Come giovane adulta del ventunesimo secolo, benché la nostra sia un’epoca in cui essere soli è davvero raro, credo che il sentirsi soli sia una sensazione spaventosamente comune.
Tanti ragazzi e ragazze vivono una realtà in cui comunicare con l’altro è semplicissimo, ma tale comunicazione si limita ad uno scambio di informazioni: viene meno il senso del comunicare e della presenza. Forse sentirsi soli a 20 anni significa proprio questo: percepire una risposta dall’esterno che arriva sempre puntuale, ma che risulta essere disinteressata, depersonalizzata, superficiale. La domanda, perciò, rimane: quando le persone si sentono sole? A partire da qui, il sopracitato convegno ha contribuito ad arricchire punti di vista e, in particolar modo, due relatori hanno lasciato il segno in chi scrive: don Gino Rigoldi, cappellano per 50 anni del carcere minorile Beccaria di Milano; e don Virgilio Colmegna, presidente della Casa della Carità, da sempre dedito all’assistenza delle persone svantaggiate e in difficoltà economica. Entrambi hanno trattato in maniera commovente il tema apparentemente banale del rapporto tra le persone, e dell’infinita ricchezza del mettersi in relazione ascoltando chi è davanti a noi. La Chiesa, che da sempre è un’istituzione che si occupa degli “ultimi”, è anche quella che per prima dovrebbe occuparsi della solitudine: “curarla” mettendosi in una relazione sempre umanamente cordiale, accogliente ed educando lo slancio intimo della natura umana, cioè l’amore.
Il messaggio veicolato è tanto semplice quanto rivoluzionario: cambiare il mondo attraverso la relazione è possibile e l’educazione pedagogica va proprio in tale direzione. Dedicarsi all’altro ci permette di crescere ed evolvere nella nostra solitudine: creare uno spazio in cui chi ci accompagna può sentirsi compreso, rispecchiato, riconosciuto e, così, non più da solo.
Proprio questa forza della condivisione ci pone davanti alla consapevolezza rassicurante che, finché in questo mondo qualcuno ci guarda, noi non siamo soli. La solitudine infatti investe specialmente chi, nella società, è guardato da pochi e facilmente può diventare invisibile. Basti pensare alle persone senza tetto; o a coloro che hanno una malattia mentale; o sono affetti da qualsiasi disabilità. Ma anche a chi, pur non vivendo nella miseria o nella malattia, si sente solo perché incompreso. Basti pensare, per esempio, a quante più donne in gravidanza si sentono come incastrate in una strettoia, senza poter contare su un supporto che realizzi i propri principali ambiti di realizzazione, cioè il lavoro e la casa.
In questo contesto, il carcere si configura come il luogo in cui la solitudine è più drammatica, perché consiste anche nell’isolamento dal mondo. Perché una persona può mettersi in una simile condizione? Come ha potuto cioè scegliere così evidentemente il male, anziché il bene? La risposta, sempre complessa, è da ricercare nelle conseguenze che la solitudine porta con sé: sentirsi soli può portare ad una bramosia spasmodica dell’altro, ad ogni costo. Sentirsi abbandonati può farci gridare a gran voce il nome di qualcuno, anche con violenza. Sentirci isolati può farci credere che l’unico modo di essere degni di vera compagnia, sia una via sbagliata. Così si può finire in carcere, ma il carcere può inaspettatamente essere un luogo imprevedibile ed imprevisto: può essere uno spazio fisico e psicologico di crescita, rinascita, di aggregazione, di incontro con l’altro. Incontrare l’altro, lasciarci cioè coinvolgere e immedesimare nella sua esperienza non è qualcosa che avviene sempre in maniera spontanea. Spesso abbiamo bisogno di qualcuno che ci educhi a questo incontro, che ci prepari e che ci disponga a cogliere il meglio da chi è diverso da noi. In una dimensione quasi spirituale, forse è chi si trova veramente solo che diviene poi capace, meglio di chiunque, ad accettare l’altro, ad incontrarlo e a scegliere la compagnia invece che la solitudine.
Così i volontari delle associazioni presenti in carcere si pongono come educatori laici delle anime dei detenuti: non si concentrano sui reati commessi, ma – appunto – sulle loro anime, cioè sui desideri e sui bisogni che emergono dal loro vissuto. Davanti al racconto di un male e di una grande sofferenza, l’istinto umano vorrebbe allontanarsi. Scegliere di avvicinarsi è l’imprevisto più desiderabile. Solo così, solo in una relazione di vicinanza, può rinascere la speranza in chi l’ha perduta, tanto da decidere di darsi una seconda possibilità. Tanto da imparare a riconoscere quale medicina portentosa sia uno sguardo benevolo, cordiale, immedesimato e appassionato alla sorte della propria vita.