UN NUOVO INIZIO (editoriale)

Di MARIA PIACENTE

Forse l’etica è una scienza scomparsa dal mondo intero. Non fa niente, dovremo inventarla un’altra volta.
(Jorge Louis Borges)

L’etica è il respiro dell’eternità e in mezzo alla solitudine è l’affinità che riconcilia gli uomini fra loro.
(Søren Kierkegaard)

Cara abbonata e caro abbonato, cari lettrici e cari lettori,

prima di tutto buon nuovo anno! Un 2023 che vogliamo immaginare di pace e di giustizia, così difficili da raggiungere e, proprio per questo, così necessari da pensare e per quanto possibile da perseguire, ciascuno e ciascuna nel proprio piccolo o grande mondo. Si, perché per continuare a vivere e stare al mondo, non possiamo non essere visionari e capaci di prenderci il tempo per riflettere sul fatto che, solo prendendoci tutti per mano, gli uni con gli altri, è possibile pensare la pace. Quella pace che Silvia Vegetti Finzi, una delle nostre illustri componenti del Comitato Scientifico afferma come «possibile, pensabile e realizzabile», soprattutto dalle donne, da quel materno che le abita con o senza figli; le donne che non sono mai state paladine della guerra.

Come potete leggere, nella pagina dedicata al piano editoriale del 2023, il primo tema che ci sta a cuore è il discorso etico: quell’attenzione ai valori verso se stessi e verso gli altri, che hanno a che fare con l’agire di ciascuno di noi. Un argomento che ci mette fortemente in discussione. Un tema suscettibile quindi di contrapposizioni proprio riguardo l’etica, o meglio l’etica e la morale spesso usati come sinonimi, che di fatto ci impongono riflessioni sul comportamento umano di ciascuno e ciascuna, e di come questo agire si riverberi nei gesti e nei messaggi educativi indirizzati ai bambini e alle bambine, alle ragazze ed i ragazzi con i quali siamo in relazione, sia come genitori, sia come maestri, docenti, educatori. Abbiamo quindi proposto, in seno al comitato di redazione, una riflessione sulla questione, all’inizio con una certa perplessità, un po’ timorosi… E invece l’argomento è stato accolto con grande interesse sia dai vari collaboratori e collaboratrici storici, sia da quelli nuovi.

Infatti, per potere pubblicare tutti i pezzi che ci sono arrivati, anche in considerazione degli specifici contenuti abbiamo pensato di pubblicarli tutti in un numero monografico. In effetti, la preoccupazione che l’argomento – “Una direzione (etica) per educare” – fosse divisivo, si è rivelata infondata. Partendo dal suo personale punto di vista, dalla sua formazione e dai suoi saperi, ciascuno ha risposto alla “domandona”: è possibile insegnare l’etica?

Noi pensiamo che ai bambini e alle bambine, ai ragazzi e alle ragazze, ai giovani e alle giovani (e nominiamo tutti e tutte, perché le parole non solo sono importanti, ma rappresentano cose e soggetti) occorra dare una direzione e che questo non significhi riempire un vaso vuoto, ma tracciare un percorso nell’educare che non è definitivo e prescrittivo, ma solo indicativo. Non pensiamo naturalmente a formulette rassicuranti, ma crediamo che con il sapere e la testimonianza degli adulti si possano tracciare sentieri, al plurale, eventualmente percorribili. Quindi confrontarsi su queste questioni è necessario e pensiamo anche doveroso. C’è bisogno di etica e la pedagogia se ne deve fare carico, coraggiosamente.

Perché parlare di coraggio nell’individuazione dell’argomento che vuole riflettere sul rapporto tra educazione ed etica? Perché dovrebbe essere così difficile indagare e riflettere sul comportamento dell’uomo e della donna nei vari ambiti dell’agire umano?

È chiaro che ci addentriamo in un territorio accidentato, dove molto spesso il relativismo la fa da padrone; là dove occorre, invece, una buona dose di coraggio, di individuazione di sé, delle proprie radici, del proprio presente e, soprattutto, di assunzione delle proprie responsabilità.

E’ necessario occuparsi di etica, così come assicurarsi che la pedagogia sappia stare al passo dei grandi mutamenti che avvengono costantemente e in gran rapidità.

I contesti più diretti, la famiglia e la scuola in particolare, sono i luoghi dell’apprendimento di quell’etica che ci permette di stare nel mondo salvaguardando noi stessi e gli altri, rispettando le nostre e altrui libertà. I luoghi dove l’educazione si manifesta dovrebbero pullulare di testimonianze e di gesti che dovrebbero costituire l’humus entro il quale nuove generazioni e nuove soggettività si formano, crescono, fioriscono. Luoghi dove alle parole dovrebbero seguire gesti che testimoniano i contenuti delle parole stesse.

Succede spesso che il “dover essere” ecceda ciò che vorrebbe essere ed è lì che il dialogo non avviene, non prende forma. La parola, magari altisonante, non ha avuto seguito, non si è incarnata nei corpi delle ragazze e dei ragazzi, non li ha toccati nell’anima. Forse non si sono sentiti riconosciuti?

Ne “Le parole del ritorno”, la grande filosofa spagnola Maria Zambrano scrive: «C’è bisogno di una coscienza che raccolga il personaggio che vaga errabondo per la città oppresso sotto il peso della propria vita indefinita, non vista da alcuno (…). Ci vediamo nell’altro, e solo quando qualcuno raccoglie la nostra storia, la storia delle nostre pene, della nostra contentezza e del nostro fallimento, solo allora ci conosciamo. Come conoscerci se non ci conosce nessuno?».

Succede a scuola, ma anche a casa, che toccati certi argomenti, spesso si rimanda la discussione ad un domani indefinito che non è mai l’oggi, il presente dal quale né il docente né i discenti possono “scappare”. Siamo sempre alla ricerca di un gesto, un gesto perduto che poche volte si realizza, di solito avviene in presenza di qualche evento eccezionale, che però poi passa nel dimenticatoio… Magari si parla di bullismo perché quel giorno è successo un certo fattaccio… ma poi non se ne parla più.

È vero, la scuola, l’università, gli ambiti educativi in generale soffrono di una inutile burocrazia che annichilisce e stanca anche gli insegnanti più volenterosi… Si cerca di stare a galla, o lo si impara. Certo ci sono contesti in cui lavorano maestri, insegnanti e docenti appassionati, che amano il loro mestiere, il mondo e quindi anche i ragazzi. Ogni tanto mi viene in mente un famoso libro di diversi anni fa, era il 1990, scritto dal Maestro Marcello D’Orta: “Io, speriamo che me la cavo”, diventato poi un caso letterario e sociologico dal quale la regista Lina Vertmuller prese spunto per realizzare un film di grande successo. Al centro del libro una sessantina di temi scritti dai bambini di una scuola elementare, dai quali emergeva una condizione sociale ed economica difficile, povera, tipica di un paesino dell’hinterland napoletano. D’Orta purtroppo scomparso a soli 60 anni, è stato un maestro che ha saputo tirar fuori dai suoi alunni il meglio, appassionandosi e impegnandosi in particolare per i bambini più disagiati quelli “sgarrupati”, quelli che occorreva guardare con occhi diversi. Se lo si è fatto con passione, si rimane maestro per tutta la vita, diceva il Marcello D’Orta.

Assunzione di responsabilità, testimonianza, e gesti (etici): ogni gesto è etico! Dovrebbero arrivare dal mondo adulto dei genitori, degli insegnati. Per seguire la crescita fisica e psichica dei ragazzi, oggi quanto tempo hanno a disposizione i genitori – fuori casa dalla mattina alla sera – e i docenti (sempre impegnati a finire il programma)?

È vero, si può dare solo quello che si ha, ma educare deriva dal latino ex ducere: tirare fuori, far venire alla luce qualcosa che è nascosto, allevare.

Come noi stessi siamo stati educati? Occorre davvero fare un pensiero su noi stessi, su come siamo stati, su cosa possiamo fare per migliorarci e, magari, se siamo pronti a qualche sacrificio…

Occorre assumerci, insomma, le nostre responsabilità.

MARIA PIACENTE