Più liberi… stando in prima linea (intervista ad Ada Lucia De Cesaris)

A cura di Paola Navotti

Nel 2011, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia nominò l’avvocato Ada Lucia De Cesaris come assessore all’Urbanistica, Edilizia Privata e Agricoltura. Specializzata, per altro, in Diritto Amministrativo e Pubblico Comunitario, dal 2013 De Cesaris assunse anche l’incarico di vicesindaco. Nel 2015, un anno prima dello scadere del mandato amministrativo, rassegnò le dimissioni «per il venire meno – così motivò – del rapporto di fiducia con una parte della maggioranza». Tutt’oggi, a dieci anni di distanza, il suo lavoro è rimpianto da molti: spaziando in tutte le branche dell’urbanistica e dell’edilizia – dalla normativa, naturalmente, fino alla tutela del paesaggio e dell’ambiente – le sue competenze hanno reso gli incarichi istituzionali da lei ricoperti come modelli quasi inarrivabili di efficienza. Attualmente è tornata a fare l’avvocato. Già docente di Diritto Ambientale presso l’Università degli Studi dell’Insubria, è anche socia dell’Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione (IRPA) e autrice di numerose pubblicazioni scientifiche in materia di ambiente ed energia.
La incontriamo nel suo studio legale e da subito, sentendola parlare, colpisce la vivacità.

Avvocato De Cesaris, da dove viene il suo interesse per la politica?
Innanzitutto dai miei genitori, che mi hanno trasmesso la profonda convinzione che la politica debba sempre essere al servizio della gente, basarsi sui valori profondi del rispetto, della solidarietà, della necessità di conoscere e approfondire i bisogni e le esigenze degli altri. Di tutto questo i miei genitori hanno sempre parlato, dandone nello stesso tempo una testimonianza personale: a prescindere dalla diversa appartenenza politica (papà era convinto democristiano; mamma, insegnante e preside, comunista irremovibile), in loro ho visto l’esempio di una convivenza possibile e generativa. In questo contesto – oggi abbastanza irrealistico – ho sentito la politica come una dimensione affascinante della vita e mi ci sono appassionata fin da ragazzina, scegliendo di militare nella sezione giovanile del partito comunista. Il mio impegno politico è cominciato nelle borgate romane, dedicandomi a problemi molto concreti: dalla carenza delle fogne, alla carenza di scuole e all’assenteismo scolastico, alla fatiscenza di certi luoghi. Tra la gente che viveva nelle borgate, molti non avevano neanche la terza media, eppure non hanno mai preso le distanze da chi, come me, proveniva da una famiglia borghese. Anzi, riconoscendo che qualcun altro – benché proveniente da un’altra classe sociale o simpatizzante per un partito politico opposto – sapeva fare ciò che loro non sapevano fare (banalmente scrivere volantini o lettere istituzionali), sceglievano noi come voce e megafono dei bisogni del territorio.
Tutto ciò per dire che, fin da giovanissima, ho iniziato a capire una cosa: spendersi per l’interesse collettivo significa innanzitutto non confondere l’accoglienza con una uguaglianza di stampo generalista. Il fatto che siamo tutti civilmente uguali, che cioè ogni persona goda degli stessi diritti di un’altra, non significa censurare che possiamo venire da culture diverse, da storie personali diverse e, quindi, che sia diverso il contributo che ognuno di noi può dare alla società. Sia nelle relazioni personali, sia in quelle sociali e politiche, io credo che la diversità non debba essere né ideologizzata, né idolatrata: non bisogna cioè accontentarsi, nè compiacersi, delle esperienze di nicchia, ma renderle sempre più partecipate, sempre più collettive.


Le analisi statistiche rilevano una crescita esponenziale dell’astensionismo politico, soprattutto tra i giovani. Perchè accade questo?
Io credo perché abbiamo dato per scontato la cultura: il racconto e la partecipazione tra vecchie e nuove generazioni. Da qui è subentrata una certa impazienza rispetto ai cambiamenti, e non ci siamo resi conto che tale impazienza stava delineando una frattura tra paese reale e politica. Non solo: il fenomeno di “Mani pulite” ha provocato contro le istituzioni un’onda d’urto che non abbiamo mai veramente analizzato e superato. Spaventata dalle inchieste di Tangentopoli, la politica ha continuato a comunicare questo spavento e, inevitabilmente, ad allontanare le persone. Quasi vent’anni dopo, il Movimento 5 Stelle ha ampliato ulteriormente questa distanza, pur introducendo la grande illusione che basti un desiderio perché le cose cambino. Non è così. Come afferma l’articolo 3 della nostra Costituzione (la più bella del mondo, si sente frequentemente ripetere, anche se altrettanto frequentemente ci si dimentica il processo che ha portato ai suoi princìpi), la Repubblica deve operare per superare le barriere sociali che impediscono l’uguaglianza. Ecco il punto: o spieghiamo cosa la politica ha fatto e fa per superare queste barriere, oppure la politica sembrerà sempre più lontana, sempre più un optional. Basti pensare a quando, nel secondo dopoguerra, Fanfani si dedicò ad un piano casa per cercare di rispondere alle urgenti domande di abitazione: senza questo grande piano, oggi non avremmo neppure quel poco che abbiamo di case accessibili. Eppure ce ne siamo dimenticati. Ciò per dire che l’errore più grande della politica, soprattutto rispetto ai giovani, è stato quello di non essere stata capace di riprendere il proprio ruolo con orgoglio: di dimostrare cioè che l’intermediazione – non il populismo – serve per avere le competenze per fare. Serve per capire i bisogni, per raggiungere i risultati, trovando un punto di equilibrio tra le diverse necessità di tutti. Al posto dell’intermediazione, invece, è subentrata la necessità politica di far pesare i ruoli – dei parlamentari, della magistratura, dei sindacati… – e, così, ognuno tende a lavorare esclusivamente per il proprio futuro. Pochi politici corrono il rischio di essere impopolari: di riportare la politica alla sua primaria funzione, che è quella di ascoltare i bisogni, di fare delle proposte per tutti e di documentarne l’andamento.

È “solo” un problema di politica?
Io credo sia innanzitutto un problema culturale e ancor prima educativo. L’educazione a conoscere le tappe storiche e culturali di un certo fenomeno e, così, a non schematizzare, a non procedere per slogan: a dare ragione del proprio pensiero e anche a contestare quello degli altri. Se, per esempio, si insegna la Costituzione senza raccontare come ci si è arrivati, cosa ha significato nella sua mediazione nel predisporre le regole, si comprenderà molto meno anche della sua potenza ideale. Pensiamo all’articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Come è diverso leggere queste parole e basta, dal raccontare il percorso al termine del quale sono state scritte! Quando e perché, nella storia, non sono stati garantiti i diritti inviolabili dei singoli e della collettività? Quali sono stati i primi esempi di solidarietà civile? Come si è capito che la solidarietà è un dovere? Solo educando a porsi queste domande e a recuperarne una cronaca storica, si può realmente – non appena concettualmente – far capire ai ragazzi a cosa serva la politica. E così insegnar loro anche a discuterne. Io vengo da una generazione che ha messo in discussione questioni e principi fondamentali, basti pensare al divorzio e all’aborto, e ciò è stato possibile perché la società tutta sentiva urgentemente, cioè esperienzialmente, il bisogno di cambiare: il bisogno di non sedersi sui piccoli privilegi e di poter stare pienamente bene solo occupandosi anche di come stanno gli altri. Oggi non mancano questioni di fondo su cui discutere, in merito alle quali riscoprire il valore dell’idea degli altri, ma mancano posti dove discuterne. Eutanasia, libertà, fecondazione eterologa, leaderismo, populismo, imperfezione della democrazia, solo per fare qualche esempio: tutto ciò ai ragazzi interessa, ma dove ne possono parlare? Bastano, seppur preziose, le competenze di cittadinanza e costituzione trasmesse a scuola da uno specifico insegnamento? Come la conoscenza dei doveri della cittadinanza e dei diritti garantiti dalla Costituzione può generare una vera e propria mentalità, in grado di sollecitare la responsabilità personale e, quindi, anche una creatività sociale e politica? I ragazzi hanno bisogno di luoghi in cui poter discutere di questo. E hanno bisogno di docenti ed educatori che, fin dall’università, siano adeguatamente formati anche per insegnare a discutere, ad argomentare una posizione, a saper contestare rispettando delle regole. In una parola, ad essere capaci di quell’inclusione di cui tanto oggi si parla, ma che è così difficile da realizzare. Come, solo per fare un esempio recente, è accaduto il 26 novembre 2024 all’Università Statale di Milano, dove un convegno contro l’aborto organizzato da alcuni studenti è stato “zittito” da urla, spintoni, insulti e atti vandalici da parte di altri studenti che la pensavano diversamente. Perché episodi di questo tipo non accadano più e per far capire che per essere solidali non basta dirlo, ma occorre rinunciare a qualcosa di proprio, io sono fermamente convinta che la politica debba investire maggiormente nella scuola, soprattutto nella formazione culturale dei nostri insegnanti. Mettendoli innanzitutto nelle condizioni, anche economiche per accedere ai migliori aggiornamenti, e ad un’efficace tecnologia che faciliti loro quello che potremmo definire un “lavoro nel lavoro”.

Da dove viene questa ritrosia ad essere militanti, a farsi “etichettare” in base ai propri ideali?
Identificarsi in una parte politica, cioè in precisi ideali, sembra oggi sempre più difficile, soprattutto per i giovani: io credo che una militanza ideale – e quindi anche politica – risulti molto meno attraente rispetto a qualche decennio fa per il carico storico dal dopoguerra in poi. Non possiamo certamente negare questo carico, ma non possiamo neanche giustificarlo. Mi spiego meglio.
In questo Paese si corre davvero il rischio che ritorni una dittatura? Perché continuare a parlare solo dei dittatori del passato, piuttosto che di quello che dalla loro caduta si è generato, per esempio del rapporto tra autoritarismo e democrazia? Dove si parla di questo? Dove si parla delle varie forme di libertà: della libertà di scrivere e di pensare, o di esprimersi pubblicamente senza mancare il rispetto dell’altro, né tantomeno della sua vita privata? Io credo che la ritrosia a manifestare la propria appartenenza anche politica venga da una forte riduzione degli ambiti di libertà, perché così la gente pensa di poter conservare i propri benefici. Questa autoriduzione della libertà, a mio avviso, è la forma di dittatura che più rischiamo.

Anche dopo la sua esperienza di vicesindaco, cosa rappresenta per lei oggi l’impegno politico?
In verità per la prima volta ho deciso di allentare se non addirittura rinunciare all’impegno politico, ma questo è un altro tema. Ad ogni modo la mia idea di impegno politico è innanzitutto impegno sociale: la necessità di confrontarsi, anche tra idee diverse, di consentire il coinvolgimento di più persone e realtà con cui collaborare per il miglioramento del Paese.  Senza però mai dimenticare anche le esigenze e le domande del territorio nel quale si vive. In effetti, è proprio il rapporto con la gente e, tramite questo, l’aver risolto alcuni problemi, ciò che mi sono portata a casa con maggiore soddisfazione negli anni dei miei incarichi pubblici.

Ad una ragazza o a un ragazzo che sostenessero l’inutilità di andare a votare, lei cosa direbbe?
Direi che la soluzione, nella politica come nella vita quotidiana, non è mai mettersi fuori dal gioco. Il non voto è mettersi fuori dal gioco. A cosa porta? Solo a un progressivo isolamento. Ci si può sentire soli, non lo si è mai davvero: si può votare anche la minoranza della minoranza, ma c’è sempre qualcuno con cui vale la pena condividere le proprie idee.
Direi che partecipare alla vita politica serve all’esistenza, a cercare di trovare il proprio posto, senza aver paura di sceglierlo. Perché l’esercizio della democrazia è l’unico strumento che garantisce la libertà: di pensiero e di azione; individuale e comunitaria.
Direi che dobbiamo sempre più sostenerci nel coraggio di esserci.
Mi piacerebbe però anche dire alla politica di riiniziare ad occuparsi dei problemi reali della gente: ascoltando, coinvolgendo soprattutto i giovani, partendo da chi ha opinioni diverse, insegnando loro che il vero obiettivo è trovar il punto di incontro che porta il risultato, oltre che per se stessi, per tanti altri nella medesima condizione.