Scelti per voi (MUSICA)
Rubrica a cura di Goffredo Villa
The Cure – Songs of a Lost World (01/11/2024)
La fine è vicina. Ma sembra non arrivare mai. Robert Smith e i suoi Cure hanno spesso e volentieri usato e perlustrato il concetto di fine. In particolare, quella di un brano, più in generale, quella del mondo o della vita. Così ha dichiarato lo stesso frontman: «Le mie canzoni hanno sempre avuto questo elemento, la paura della mortalità. È sempre stato così, fin da quando ero giovane. Ma quando si invecchia, diventa più reale». Per la band britannica questa conclusione viene così frequentemente considerata come prossima, da essere quasi scongiurata e quindi allontanata. Per Songs of a Lost World, quattordicesimo lavoro in studio atteso addirittura da 16 anni, si tratta invece della fine di un mondo perduto, diverso da come si era abituati a conoscerlo. Contrariamente da quello che succede nella maggior parte dei casi, la sua genesi non è collegata direttamente alle sessioni in studio, bensì alle esecuzioni live: durante i 91 concerti del tour mondiale Shows of a Lost World, avvenuto tra il 2022 e il 2023, cinque canzoni sono state presentate al pubblico per la prima volta. Queste tracce avrebbero preso poi parte alla nuova tracklist, insieme ad altre tre inedite, dopo essere state debitamente rielaborate in sala di registrazione. La opener scioglie la sua lunga intro di oltre tre minuti e vi circonda l’ascoltatore per farlo abituare subito al clima generale: costituita da riecheggianti riverberi strumentali, Alone vuole trasmettere l’inquietudine solitaria nella quale si sente immerso Smith poco prima dell’alba. La struggente nenia di piano, archi e chitarra in And Nothing Is Forever culla la promessa, non mantenuta, di restare vicino a un proprio caro fino al momento della sua dipartita. A Fragile Thing prende corpo in uno spazio-tempo tetro ma sfavillante. Il panorama di guerra imminente in ambito mondiale viene miniaturizzato nei piccoli conflitti personali della realtà quotidiana grazie al feedback distorto di Warsong; chitarre aspre e graffianti squarciano l’ordinaria tranquillità come l’oggetto volante descritto in Drone: Nodrone, simbolo di una modernità sempre più intrusiva. I Can Never Say Goodbye è una dedica a Richard, fratello di Robert scomparso negli ultimi anni, da cui emergono dolore e affetto: «Something wicked this way comes / To steal away my brother’s life / I could never say goodbye» (Qualcosa di malvagio arriva da questa parte / Per rubare la vita di mio fratello / Non potrei mai dirgli addio). La batteria e il sintetizzatore stabiliscono il ritmo andante e coinvolgente sopra cui viene legittimata la consapevolezza della propria identità di All I Ever Am. La conclusiva Endsong fu composta un lustro fa per celebrare sia i sessant’anni di Smith che il cinquantesimo anniversario dell’allunaggio: in un ambiente etereo disegnato dalle tastiere, il protagonista si rivolge verso il cielo e si proietta nostalgicamente indietro nel tempo, constatando come quella spinta futuristica che portò l’uomo sulla Luna sia ormai svanita nel nulla («It’s all gone, it’s all gone»: è tutto finito, è tutto finito). Pur mancando pezzi leggeri e spensierati che possano addolcire il clima rigido permanente in tutto il disco, la componente personale presente nei testi attribuisce a Songs of a Lost World un carattere fortemente intimo. Presentandolo, Smith ha descritto come quest’album riprenda Pornography (1982), Bloodflowers (2000) e soprattutto Disintegration (1989) mostrando anch’esso un unico nucleo emotivo (emotional core) che funge da contesto generale per tutti i suoi elementi costitutivi. Non esiste la volontà di comporre un “concept album” vero e proprio, ma l’atmosfera che avvolge Songs of a Lost World perdura costantemente per tutta la sua interezza. Tutte le sue canzoni vanno ascoltate in blocco e non separatamente per non perdere quella nebulosa tinta di malinconia usata come sfondo per la raccolta. In particolare la prima e l’ultima dell’elenco, Alone e Endsong, si assomigliano tra loro per sonorità, tematiche e immagini evocate. Questa specie di accoppiamento crea una referenza circolare che, abbracciando tutti gli altri brani, dà origine a sua volta a un loop infinito dove la fine è l’inizio e viceversa. In partenza si canta «This is the end of every song that we sing», all’arrivo «Left alone with nothing / At the end of every song». Questa sembra essere la filosofia cosmica di Robert Smith e soci, rappresentata anche dalla loro stessa carriera: una conclusione che non chiude mai definitivamente la porta, ma si apre invece verso qualcosa di nuovo.
Marracash – È Finita la Pace (13/12/2024)
«Nessuno ha dato e fatto quello che ho dato e fatto, è un dato di fatto / Anche quando ho dato di matto», sentenzia in uno dei suoi pezzi Fabio Bartolo Rizzo, in arte Marracash. A distanza di tre anni dall’ultimo album, e dopo un intervallo di pausa a causa di un esaurimento nervoso, il 45enne di origini siciliane pubblica il suo settimo lavoro in studio intitolato È Finita la Pace. Il protagonista è un uomo in conflitto con se stesso e con il mondo: un’auto-analisi dei propri limiti che converge naturalmente in una valutazione lucida su ciò che lo circonda. Ciò che ha funzionato per lui viene dispensato agli altri sotto forma di consiglio, per compiere le scelte giuste e cercare di vivere meglio, in relativa pace interiore. La opener Power Slap sferra uno schiaffo potente alle logiche del mercato discografico, alimentato da decisioni repentine e scelte riproposte più volte senza premiare l’originalità («Il messaggio è che nessuno diventa qualcuno seguendo le orme di qualcun altro»). L’indole battagliera di Crash colpisce la deriva estremista del governo colpevole, tra le altre cose, di atteggiamenti prevaricatori e anacronistici («governo di fasci che dice frasi preistoriche»). Con la coinvolgente Gli Sbandati Hanno Perso il flusso si rivolge ora verso la società e le sue molteplici regole che minano la nostra libertà mentale. La title-track È Finita la Pace osa nell’interpretazione canora, mentre Detox/Rehab si guarda dentro con introspezione. Soli risuona come un’accorata ammissione, Mi Sono Innamorato di un AI esegue un’ironica e indisponente disamina dell’attuale rapporto tra uomo e tecnologia. Dall’inno in favore dei lavoratori sfruttati in Factotum, si passa alla delegittimazione dell’autocommiserazione di Vittima. Troi* lotta contro i pregiudizi sessisti, concepiti dai pensieri ed esplicitati con le parole, divenuti ormai quasi luoghi comuni. «Io non so dire mai la verità / Senza mentire / E la tua cura, sai, non fermerà / Le mie tossine / Io ti ho già detto la verità / Ma tu non vuoi sentire», così viene smascherata la realtà in Pentothal. Con Lei un romantico ed etereo sogno d’amore si confronta con l’arrivo dell’alba che lo rinforzerà o lo distruggerà. Happy End si assume il compito di chiudere la fila e dipinge un chiaro orizzonte davanti a sé, colorandolo di speranza e di fiducia nei propri mezzi: «Non esiste altra vittoria che essere se stessi, non esiste altro modo di essere se stessi se non scegliere». È Finita la Pace completa un’ideale trilogia, iniziata da Persona (2019) e proseguita con Noi, loro, gli Altri (2021), che ha sancito un netto cambio di passo artistico e stilistico rispetto al passato. Quest’ultimo capitolo non stravolge il percorso intrapreso fino ad ora, ma sfrutta la sua inerzia per spingersi più in profondità nell’anima dell’autore e quindi anche dell’ascoltatore. Sebbene affronti degli argomenti già trattati in precedenza, questa volta i temi vengono letti con una chiave più intima e personale. Come basi vengono utilizzati frammenti campionati di brani pop oppure provenienti dal repertorio nazionale di musica leggera e classica: si possono qui ritrovare i Pooh, Ivan Graziani e addirittura Giacomo Puccini. Seppure a livello tecnico e qualitativo non sia stato esaltato rispetto ai due predecessori, il disco è stato invece considerato positivamente per il significato che esso assume. È Finita la Pace è un manifesto di cruda critica politica, sociale e culturale con forti tratti di intima introspezione, derivanti dal superamento di un momento psicologicamente difficile. L’assenza di collaborazioni e featuring enfatizza appunto questa spiccata componente personale del lavoro: un’ulteriore dimostrazione di quanto Marracash sia diventato un autore maturo, equilibrato e ispirato. La sua vena rap pulsa soprattutto quando deve scontrarsi con gli aspetti negativi che vuole attaccare, mentre sembra meno presente quell’arrogante auto-esaltazione che appare invece eccessiva in altri suoi colleghi. Il rapper non è più un giovane ragazzino ribelle e inattaccabile, ma un uomo consapevole delle proprie incertezze e debolezze sviluppate nel corso della vita. In un periodo storico in cui non sono l’impegno e il merito a influenzare il pubblico, Marracash imprime con maggiore forza il proprio marchio per affermare, ancora una volta, il proprio predominio sull’intero panorama cantautorale italiano: «Il rap italiano / Che non sa più come dire / Che non sa più cosa dire / Ah, è finita la pace, è finita la pacchia».