Noi e l’albo professionale (editoriale)
Il titolo che abbiamo voluto dare a questo numero speciale sull’albo professionale degli educatori/educatrici e dei pedagogisti/pedagogiste, parte subito da qualcosa di imprescindibile: NOI. Una parola che evoca la parte più intima e a volte sconosciuta a noi stessi, quella porzione che interagisce direttamente col mondo e che esiste grazie ad un’unione. Ma chi siamo questi “noi”? Questo ampio bacino di inclusione comprende tutti coloro che, attraverso una relazione di cura, mirano a promuovere educazione in un Altro, “traendone fuori” competenze e potenzialità. Educare, lo sappiamo bene, deriva dal latino ex-ducere quindi “condurre fuori”: la sua etimologia ben rende l’azione fondamentale del guidare qualcuno in un terreno a lui sconosciuto, alla scoperta di valori, leggi morali o cultura.
Il pronome “noi” abbraccia appunto chi si impegna ogni giorno a promuovere uno sviluppo fino a quel momento ancora inespresso. Parliamo di un universo professionale ampio e composito, fatto di servizi per minori, per la disabilità, di comunità educative e centri diurni, di scuole, istituti penitenziari, case per migranti, servizi per la salute mentale. In ogni contesto, l’educatore e il pedagogista, in ruoli di intervento diretto o di coordinamento, progettazione, supervisione e formazione, affrontano sfide e difficoltà che hanno a che fare nel profondo con una materia tanto fragile quanto preziosa: quella dell’umano.
Il mondo cinematografico, ci offre tanti esempi potenti di uomini e donne che attraverso la volontà di farsi carico, fanno appello proprio a quella forza creatrice in grado di individuare e soddisfare i bisogni di chi hanno davanti. Pensiamo al Robin Williams dell’L’attimo fuggente, che stimola nei suoi studenti l’amore per la poesia e il coraggio di inseguire i propri sogni. O al medico di Risvegli, sempre interpretato da Williams, che dopo anni di studio e dedizione riesce a restituire ai suoi pazienti, colpiti da una grave forma di encefalite, una possibilità di vita.
Ma cosa distingue quindi chi sceglie il lavoro educativo? Cosa ci rende educanti, al di là dello studio e l’esperienza?
Credo che la competenza più profonda sia proprio la capacità di dare vita ad una “terza dimensione” dell’agire educativo: quella che espande il confine tra utente e professionista e da vita ad un “noi” che supera qualsiasi distanza. Con la lente del “noi”, ogni problema diventa una missione comune e ogni limite un ostacolo da superare insieme. Si tratta, citando le parole di Franco Basaglia, di quell’enorme rivoluzione che può aver luogo ogni volta che “l’impossibile diventa possibile”. Quando, quindi, la speranza e la passione generano cambiamento nell’altro.
È forse questa l’imprescindibile condizione per saper educare?
Tuttavia, questa sensibilità, per quanto autentica, a volte può non essere sufficiente da sola.
Nella mia esperienza di operatrice in ambito educativo, mi è infatti spesso capitato di venire a contatto con importanti fragilità personali emerse dallo scontro quotidiano con le debolezze altrui. All’epoca erano gli anni 80, e chi lavorava con le marginalità, poteva raramente godere di una rete di supporto solida su cui contare. Faticare a porre i confini tra casa e lavoro, dedicarsi completamente alla causa e voler aiutare a tutti i costi anche a proprio discapito: erano modi frequenti – allora come oggi – di gestire una grande complessità. I ruoli erano poco definiti, e non esistevano obblighi formali che sancissero la presenza di più figure professionali, soprattutto di fronte alle autorità giudiziarie. La professionalità era troppo spesso affidata alla buona volontà dei singoli e al senso etico alle istituzioni locali, con poche direttive condivise o consolidate.
Insomma, se è vero che per educare serve un intero villaggio, la solitudine, soprattutto in situazioni difficili, può essere davvero avvilente. Eppure, chi custodisce un mandato tanto delicato e indispensabile non può e non deve restare solo. Ha bisogno di strumenti, di tutele, e forse anche di una cornice normativa che ne riconosca la competenza e ne sostenga l’azione.
A fronte di tutto ciò, la legge 55/2024 ha sancito l’istituzione di un nuovo ordine professionale atto a formalizzare diversi aspetti delle professioni dell’educatore socio-pedagogico e del pedagogista. I principali cambiamenti includono l’introduzione di un codice deontologico che regolamenti le norme etiche e di condotta, una formazione continua obbligatoria e una maggior garanzia sia per chi esercita che per chi usufruisce delle prestazioni. Come accade per ogni riforma istituzionale, gli entusiasmi e le perplessità a riguardo sono molti e divergenti, ognuno dei quali tiene conto di effetti più o meno vantaggiosi che il nuovo ordine potrà arrecare. Quel che sarà, per ora, non possiamo saperlo. Ma sopra ogni rispettabile opinione, ciò di cui davvero abbiamo cura è continuare, sempre, a custodire quella forza generatrice che ci spinge verso l’altro, toccando la profondità con mano senza la paura di scottarci. Come rimanere sempre vicini a quella materia umana? Come fare in modo che le nuove cornici istituzionali continuino a custodirla senza mai smarrirla?