SINTOMI DI GUERRA: LA SOCIETÀ È AMMALATA?

A cura della Redazione
Guido Veronese
è psicologo e psicoterapeuta dell’individuo, della coppia e della famiglia e professore associato di Psicologia clinica e della comunità presso l’Università di Milano-Bicocca.Tra i suoi campi di intervento, si occupa di studiare gli effetti traumatici dei conflitti nelle zone affette di violenza politica, militare e di grave violazione dei diritti umani, così come i fattori di funzionamento e adattamento positivo in tali condizioni. Il titolo di uno degli ultimi seminari a cui ha partecipato il 6 giugno 2025, è “The Age of Monsters: Contesting Academic Neutrality”; occasione in cui si è sottolineata l’importanza da parte delle università di schierarsi, reimmaginando l’ambito accademico come “spazio di guarigione collettiva”.

 Molto del suo lavoro si è concentrato sulla tragedia che si sta consumando ogni giorno a Gaza, un dramma che colpisce tutta la popolazione palestinese. Che cos’è un trauma collettivo e che proporzioni ha oggi a Gaza?
Quando parliamo di trauma collettivo parliamo di un livello di sofferenza che non tocca più soltanto il singolo individuo, ma l’intera dimensione sociale di cui fa parte. Nel caso, ad esempio, di povertà diffusa e questioni ambientali o contestuali difficili, questi fattori generano una condizione di sofferenza pervasiva che si configura come una realtà traumatica comune a tutti coloro che la vivono. Nel caso di quel che sta accadendo sulla Striscia di Gaza, la situazione è ancora più complessa poiché la sofferenza si dipana su due livelli fondamentali.  Prima di tutto, esiste una sofferenza consistente della popolazione palestinese che perdura da prima del 7 ottobre 2023, quando la maggior parte degli abitanti della Striscia già viveva in una condizione di povertà estrema che implicava, ad esempio, il non poter accedere a cure mediche dignitose o il non potersi muovere liberamente nelle proprie città. Fin da allora questa realtà era caratterizzata da limiti importanti che erano in grado di causare potenziali sintomatologie di tipo traumatico. Il secondo livello si dispiega dal 7 ottobre in poi, una data che segna un cambiamento drastico e inatteso, sia per intensità che per portata.  Da quel momento, le conseguenze psicologiche si sono fatte tanto profonde da risultare, oggi, difficili da comprendere pienamente e da prevedere. Attualmente ci troviamo, infatti, in una fase ancora acuta di questa sofferenza – collettiva e individuale – che perdura incessantemente da quasi due anni.
Le condizioni di vita sono catastrofiche sotto ogni punto di vista: sanitario, umanitario, ambientale. I bombardamenti continui espongono ad un alto rischio alla vita, mentre la carenza cronica di acqua potabile, cibo, elettricità e medicinali aggrava una situazione già al limite del collasso.
Rimanendo su un piano esplicativo, ciò che sta accadendo può essere descritto come un trauma collettivo, anche se i suoi effetti reali non sono ancora del tutto visibili e sarà solo in futuro che potremo misurarne davvero l’impatto.

La tragedia in atto non risparmia nessuno neanche tra i civili, soprattutto i bambini. Da un punto di vista psicologico, a quali bisogni di questi bambini siamo chiamati e saremo chiamati a rispondere?
I bambini sono – purtroppo – la fascia più vulnerabile vittima di questo genocidio.
Il personale italiano ed internazionale che lavora nel sistema sanitario della Striscia – o meglio dire quel che ne è rimasto – ha rilevato con estrema precisione l’afflusso enorme di bambine e di bambini molto piccoli che arrivano nei pronti soccorsi con situazioni altamente compromesse.  Moltissimi di loro necessitano di operazioni che portano ad amputazioni di arti. Questi bambini – le testimonianze attestano numeri inimmaginabili – si porteranno addosso prima di tutto una conseguenza fisica della guerra per tutta la vita in modo indelebile sul loro corpo. Oltre ad aspetti tangibili, i bambini necessitano e necessiteranno soprattutto della ricostruzione di condizioni ambientali e contestuali di cura, dimensioni che sono completamente andate perse nella situazione attuale. In genere, ciò che permette a un bambino di elaborare un trauma è la presenza di un ambiente in grado di favorire la ripresa dei suoi compiti di sviluppo e di crescita: un contesto che sappia anche ricostruire una routine affettiva ed emotiva stabile. Ogni aspetto ambientale che potrebbe supportare un processo di guarigione psicologica – casa, scuola, servizi, relazioni – è stato invece reso inaccessibile, se non completamente distrutto. A questo si aggiunge l’assenza sempre più frequente dei caregiver. A Gaza si registra oggi un numero altissimo di minori completamente soli, i cosiddetti “orfani soli”. Con questa espressione non ci si riferisce soltanto agli orfani nel senso tradizionale del termine, ma alla condizione di totale indisponibilità di figure di accudimento, anche al di fuori dei genitori. In molte società islamiche, infatti, la perdita dei genitori biologici è generalmente compensata dalle famiglie estese, che per obbligo culturale e solidarietà sociale si fanno carico dei bambini rimasti soli. Oggi, però, anche questo meccanismo di protezione comunitaria è crollato e i nuclei familiari allargati sono stati completamente sterminati, lasciando i bambini senza punti di riferimento. In questo contesto estremo, anche ogni possibilità di resilienza o crescita post-traumatica viene minata.
Ci dobbiamo aspettare quindi qualcosa di estremamente difficile da gestire, sia per chi oggi è triste protagonista in questa storia, sia che per chi sarà chiamato a ricostruire le condizioni materiali e psicologiche per una vita nuova. I segnali di disagio psicologico che già stanno emergendo sono allarmanti, con esempi di bambini di appena sette, otto anni che esprimono il desiderio di morire piuttosto che di vivere in quelle condizioni: ciò ci indica come le derive depressive e patologiche di individui così giovani siano, in questo contesto, assolutamente plausibili. I Paesi potenzialmente ospitanti di questi minori avranno quindi un ruolo cruciale anche nella ricostruzione di un solido senso di sicurezza dei bambini – nonché la percezione di trovarsi in un posto senza pericoli – aspetto che più di ogni altro è stato colpito nel profondo.

I nostri social e i nostri media sono sempre più bombardati da strazianti immagini e video. Per chi come noi segue la guerra attraverso gli schermi, esiste una via di mezzo tra una desensibilizzazione e una presa di posizione violenta?
Prima di tutto mi viene da pensare che questo genocidio ci stia mettendo di fronte ai sintomi di una vera e propria patologia della nostra società. Una patologia invisibile, ma diffusa, che ha fatto sì che qualcosa come quello che sta accadendo sia arrivato ad essere realtà.
Da un lato siamo attori di una vita costellata di aspirazioni, propositi e pensieri rispetto a un ideale di umanità proclamato, dall’altro invece assistiamo a ciò che contraddice i nostri principi nella maniera più assoluta, rivelando una frattura profonda tra i valori dichiarati e le azioni che tolleriamo. Una deriva di questo squilibrio è sicuramente la messa in atto di meccanismi di difesa di desensibilizzazione e dissociazione che ci portano a normalizzare la presa d’atto di certi eventi. Anche l’esposizione attraverso i media a certi contenuti diventa col tempo “normale” e – contemporaneamente – i social, la televisione e i giornali tendono progressivamente a dare meno spazio a quelle stesse notizie.
Una seconda risposta cui stiamo assistendo è invece l’attivazione di reazioni che colpevolizzano la vittima, arrivando in casi estremi ad etichettare interi popoli come “terroristi”, “arretrati” o, ancora peggio, a considerarli responsabili delle proprie sofferenze.
Siamo parte di una società fortemente dissociata che sta avendo come reazioni sintomatiche proprio quella di accettare con più facilità radicalizzazioni e repliche fortemente violente. Le manifestazioni di questa violenza, in tutte le sue forme e intensità, dovrebbero essere un campanello d’allarme per individuarne le determinanti profonde che ne stanno alla radice.
Forse è il momento di pensare ad una società più sensibile, capace di riconoscere i segnali preoccupanti prima che si trasformino in azioni estreme, rivedendo le modalità in cui esprimiamo le nostre posizioni e osservandole poi con spirito critico. Come comunità, è tempo di immaginare una rete più allenata a prevenire i segnali distruttivi, intervenendo proprio su quei modelli di sviluppo disfunzionali che, fallendo, ci hanno condotto fino a qui.

 

 


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