Cage the Elephant – Neon Pill
Rubrica a cura di GOFFREDO VILLA
Cage the Elephant – Neon Pill (17/05/2024)
Sebbene i Cage the Elephant mostrino parentele recenti con Kasabian, Arctic Monkeys e Strokes, il medesimo complesso americano dichiara che tra i propri riferimenti storici annovera Beatles, Rolling Stones, Led Zeppelin, Chuck Berry, Nirvana e Pixies. «Abbiamo sempre tratto ispirazione dagli artisti che amiamo, e a volte li abbiamo persino emulati fino a un certo punto», ammette il cantante Matthew Shultz. Questi descrive il nuovo disco come punto di svolta a partire dal quale lui e i suoi compagni non si sono sentiti condizionati continuamente dalle suggestioni stilistiche che li hanno guidati in passato. Originari del Kentucky e formatisi nel 2006, esordiscono con l’omonimo Cage the Elephant (2008), cui fanno seguito Thank You, Happy Birthday (2011) e Melophobia (2013). Vincitore di due Grammy Awards per il miglior album rock, prima con Tell Me I’m Pretty (2015), poi con Social Cues (2019), il sestetto pubblica ora Neon Pill, sesta opera registrata in studio a cinque anni di distanza dall’ultima. Come opener, HiFi (True Light) configura un ritmo incisivo, deciso a imprimere una certa energia al prosieguo; Rainbow si raggomitola su se stessa e mostra scintillanti riflessi pop, quasi tendenti al R&B. «It’s a hit and run / Oh no / Double-crossed by a neon pill / Like a loaded gun / My love / I lost control of the wheel / Double-crossed by a neon pill» (È un mordi-e-fuggi / Oh no / Tradito da una pillola al neon / Come una pistola carica / Amore mio / Ho perso il controllo del volante / Tradito da una pillola al neon): impreziosita da questo ritornello facilmente orecchiabile, la title-track è sostenuta da spinte rock alternative e da malinconiche reminescenze di un amore fugace. Float Into the Sky ci accompagna, appunto, in un volo leggero nel cielo; dapprima sfiora soavemente le nuvole con una nostalgica visione dall’alto della Terra, poi, verso la conclusione, varca i confini dello spazio con solennità elettronica. Il positivo vigore indie-pop della breve Metaverse non indugia, ma eslode contagioso e sembra voler conferire un cambio di direzione. Out Loud però stronca immediatamente queste intenzioni, rallentando di colpo i battiti; di contro si innalza l’intensità emotiva, portando alla luce difficoltà che mettono in discussione la nostra vera identità: «Man I really messed up now / Too afraid to say it out loud / I can barely breathe, who’m I trying to be / I’m still trying to figure it out» (Amico, ho fatto davvero un casino adesso / Ho troppa paura per dirlo ad alta voce / Riesco a malapena a respirare, chi sto cercando di essere / Sto ancora cercando di capirlo). Il flusso torna a movimentarsi con Ball and Chain, anche se le sue vibrazioni, in equilibrio tra il tribale e l’elettronico, appaiono un po’ troppo spente e sfocate. L’atmosfera non sembra variare di molto in Good Time, dove la strofa scandita da un cantato quasi rap viene contrastata dall’indole melodica del ritornello in cui si ripete l’ottimistico mantra «Everybody had a good time» (Tutti si sono divertiti). Il sincopato binomio groove di basso e batteria rende Shy Eyes un brano coinvolgente, mentre Silent Picture affascina per la sua vividità e brillantezza. «I don’t want to play those games / Will we ever be the same?» (Non voglio giocare a quei giochi / Saremo mai gli stessi?): gli statunitensi, con Same, si interrogano sull’effettiva possibilità di cambiare senza incorrere nelle vecchie cattive abitudini. Con la ballata conclusiva Over Your Shoulder ci si siede in riva al mare, le cui onde fanno dolcemente riaffiorare memorie sepolte sul fondale. Con questo lavoro, i Cage the Elephant sembrano rinunciare a quella spontanea e sfrontata ruvidezza che conferiva loro un’aria da veri outsider: i primi dischi aveva lasciato intravedere un gruppo che, con sano e disinvolto menefreghismo, affrontava le luci della ribalta grazie a pezzi originali e spigolosi. Qui manca la risoluta spensieratezza, spesso presente nei loro passati brani, se non per un paio di episodi: non abbastanza per dare all’album la giusta carica, nonché il giusto taglio. La presenza di canzoni lente dona varietà alla raccolta, ma rompe troppo spesso la sequenza di tracce, sì dinamiche, ma ammantate di tinte nostalgiche e con un’impronta simile tra loro. Il titolo dell’opera sembra tradursi in quella piccola pillola luminescente, seppure di natura artificiale, di cui ci accontentiamo per trovare una benché minima fulgida speranza in tempi oscuri. Lo scorso anno, infatti, il sopracitato Shultz è stato arrestato per detenzione illegale di armi: caduto vittima di quella che lui stesso ha definito “crisi di salute mentale”, probabilmente causata da una reazione collaterale ad un farmaco prescritto, è riuscito a oltrepassare questo ostacolo solo grazie al costante affetto degli amici, della famiglia e della sua band. Questo pare essere il più recondito significato da attribuire a Neon Pill: una luce in fondo al tunnel.