L’educazione sessuale è un diritto (non un permesso)
Di Stefania Squadroni
Pedagogista, insegnante delle scuole secondarie di secondo grado
Il giorno 20 ottobre 2025 il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha pubblicato l’intervento del Ministro Valditara in merito all’educazione sessuale e il consenso informato. Mi permetto riportare alcuni passaggi e commentarli.
«Una premessa: i femminicidi non si combattono con l’educazione sessuale: l’educazione sessuale si fa da decenni nei Paesi del Nord Europa che però nel mondo occidentale sono in cima alla lista per femminicidi e violenze sessuali, con tassi di molto superiori all’Italia. Siccome l’articolo 30 della Costituzione attribuisce innanzitutto ai genitori il compito di educare i figli, riteniamo giusto che siano i genitori di minori a decidere se far frequentare ai figli adolescenti lezioni sulla identità di genere dopo aver avuto adeguate informazioni sul contenuto dei corsi. Non sarà più possibile per associazioni ideologizzate far propaganda, spesso retribuita dai contribuenti, nelle scuole: le lezioni dovranno essere affidate a professionisti seri: psicologi, medici, docenti universitari. La riforma del consenso informato rappresenta un passo avanti nella cultura del rispetto e non certo «un passo indietro».
L’articolo 30 della Costituzione italiana riconosce ai genitori il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli. Tuttavia, tale principio non può essere interpretato in modo esclusivo o limitativo, come se l’educazione fosse un ambito riservato unicamente alla famiglia. La stessa Costituzione, negli articoli 33 e 34, affida alla scuola una funzione pubblica e autonoma, finalizzata alla crescita libera e completa della persona. Da un punto di vista pedagogico, l’educazione è un processo complesso e condiviso, che coinvolge diversi soggetti — famiglia, scuola e società — nella formazione integrale dell’individuo. Come afferma John Dewey nell’opera “Il mio credo pedagogico” la scuola è una “comunità democratica” in cui si impara a vivere insieme, confrontandosi con la diversità di idee, esperienze e identità, la scuola è inerente alla vita e non propedeutica ad essa. In questa prospettiva, le lezioni sull’identità di genere non rappresentano un’ingerenza nei compiti familiari, ma un’occasione per promuovere la comprensione reciproca e il rispetto delle differenze, valori fondamentali per la vita democratica. Allo stesso modo, Paulo Freire sottolinea che l’educazione autentica non deve trasmettere verità precostituite, ma aiutare gli studenti a sviluppare una “coscienza critica”. Offrire ai ragazzi momenti di riflessione su temi come l’identità di genere significa, dunque, permettere loro di comprendere meglio sé stessi e gli altri, liberandoli da pregiudizi e stereotipi. Negare questa possibilità in nome di una presunta tutela familiare rischia invece di ridurre l’educazione a un atto di conformismo e obbedienza. Pedagogisti italiani come Franco Cambi e Francesco Tonucci insistono sull’idea di corresponsabilità educativa: la famiglia rimane un punto di riferimento affettivo e morale, ma la scuola ha il compito di garantire spazi di confronto, dialogo e crescita autonoma. In più, come ricorda Tonucci, i bambini e gli adolescenti hanno diritto a essere ascoltati nelle scelte che li riguardano, in coerenza con la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (1989). Alla luce di queste considerazioni, sostenere che solo i genitori possano decidere se i figli frequentino o meno lezioni sull’identità di genere significa limitare la libertà educativa dei minori e ridurre la scuola a un’estensione dei valori familiari. La vera missione dell’educazione, invece, è emancipare, far crescere, aprire alla complessità del mondo contemporaneo. Come scriveva Luigi Volpicelli, la scuola democratica è quella che “forma alla libertà attraverso la libertà”, offrendo a tutti gli alunni pari opportunità di conoscenza e di sviluppo personale. In conclusione, la collaborazione tra genitori e scuola è certamente necessaria, ma essa deve fondarsi sul riconoscimento reciproco dei rispettivi ruoli. Solo così si può costruire un’educazione autenticamente inclusiva, capace di accompagnare gli adolescenti nella scoperta della propria identità e nel rispetto di quella altrui.
Mettere in discussione la funzione educativa esclusiva dei genitori
Alla luce dei numerosi episodi di femminicidi, violenze di genere, abusi sessuali fino ad arrivare all’uso improprio dei social network — basti pensare al recente caso del gruppo Facebook “Mia moglie”, dove migliaia di uomini hanno condiviso e commentato in modo degradante immagini di donne e partner — appare necessario mettere in discussione l’idea che la famiglia sia, da sola, garante di una corretta educazione affettiva e relazionale. Se è vero che la Costituzione, all’articolo 30, riconosce ai genitori il dovere di educare i figli, è altrettanto vero che la realtà sociale dimostra quanto spesso tale funzione educativa risulti insufficiente o distorta. Molti comportamenti violenti o discriminatori nascono proprio in contesti familiari dove si trasmettono modelli patriarcali, sessisti o autoritari, che non vengono mai messi in discussione. La cronaca mostra come il femminicidio non sia un atto isolato, ma l’esito di una cultura della proprietà e del controllo, spesso appresa e normalizzata fin dall’infanzia attraverso atteggiamenti, linguaggi e ruoli di genere stereotipati. Mettere in discussione la sola funzione educativa dei genitori non significa colpevolizzare la famiglia, ma riconoscere con onestà i suoi limiti nel contesto sociale e culturale contemporaneo. Molti genitori non sono direttamente responsabili in senso morale di questi fenomeni, ma spesso non dispongono degli strumenti culturali e psicologici per affrontare l’educazione affettiva e sessuale dei figli. In Italia, il dialogo su questi temi resta ancora un tabù: l’educazione sessuale è spesso rimandata, trattata in modo superficiale o lasciata interamente alla spontaneità dei ragazzi. Di conseguenza, molti adolescenti si formano da soli, attraverso i pari o rivolgendosi ai contenuti pornografici online, che veicolano modelli di sessualità basati sul possesso, la violenza e la disuguaglianza tra i generi. Insistere sulla necessità di una “corresponsabilità educativa” tra famiglia, scuola e società significa affermare che nessun contesto da solo può bastare, e limitare l’educazione alla sfera familiare significa abbandonare i giovani a modelli culturali univoci. Pertanto, i gravi fenomeni di violenza e abuso che attraversano la società italiana non sono solo un problema di ordine pubblico, ma un fallimento educativo che interpella direttamente anche la famiglia. Il compito della scuola e delle istituzioni non è sostituire i genitori, ma completare e talvolta correggere le lacune di un’educazione domestica che non sempre promuove rispetto, parità e consapevolezza affettiva. Come ricordava Don Milani, “il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”: anche nell’educazione, nessuno può pensare di educare “da solo”.
Veniamo all’educazione sessuale: confusione tra correlazione e causalità
«Una premessa: i femminicidi non si combattono con l’educazione sessuale: l’educazione sessuale si fa da decenni nei Paesi del Nord Europa che però nel mondo occidentale sono in cima alla lista per femminicidi e violenze sessuali, con tassi di molto superiori all’Italia».
L’argomento secondo cui l’educazione sessuale sarebbe inefficace nel prevenire i femminicidi, basandosi sui tassi di violenza nei Paesi del Nord Europa, confonde due concetti fondamentali: correlazione e causalità. Il fatto che in alcuni Paesi dove esiste da tempo l’educazione sessuale vi siano anche tassi più elevati di violenze denunciate non significa che una cosa causi l’altra, né che l’educazione sessuale sia inefficace. Anzi, in quei Paesi i livelli di denuncia e consapevolezza sono molto più alti, perché la cultura dei diritti e della parità di genere — anche grazie all’educazione — spinge le vittime a non restare in silenzio. In Italia, invece, il fenomeno è spesso sottostimato a causa di denunce mancate e di una cultura ancora segnata da stereotipi e colpevolizzazione della vittima.
L’educazione sessuale non è solo informazione biologica
«Nelle nuove indicazioni, nel corso di scienze è previsto fra l’altro lo studio delle differenze sessuali fra maschio e femmina, della evoluzione sessuale del corpo, della riproduzione, del concepimento e della procreazione, delle caratteristiche della pubertà, dei rischi derivanti dalle malattie sessualmente trasmesse...».
Molti fraintendono il concetto di educazione sessuale, riducendolo a una questione di anatomia o contraccezione. In realtà, come spiega Alberto Pellai (e molti altri pedagogisti e psicologi) una vera educazione sessuale è parte integrante dell’educazione affettiva e relazionale: insegna il rispetto dei corpi, dei limiti e del consenso, aiuta a riconoscere emozioni e a costruire relazioni non violente. Perché il femminicidio non nasce dall’ignoranza anatomica, ma da una cultura delle relazioni malata: dal bisogno di possesso, dalla fragilità identitaria, dalla paura della perdita. Chi uccide o abusa una donna non lo fa perché non ha ricevuto lezioni sul preservativo, ma perché non ha imparato a gestire il rifiuto, la frustrazione, la libertà dell’altro. Bisogna insegnare non solo come funziona un corpo, ma come funzionano le emozioni e come si costruisce una relazione paritaria, questo richiede un cambiamento culturale non solo curriculare. Dunque, se fatta correttamente, l’educazione sessuale contribuisce alla prevenzione primaria della violenza di genere, agendo prima che si sviluppino atteggiamenti possessivi o stereotipi di dominio.
La relazione tra scuola, università e centri di ricerca è una storia d’amore lunga e consolidata
L’affermazione secondo cui «la riforma del consenso informato servirebbe a impedire a “associazioni ideologizzate” di “fare propaganda” nelle scuole, restituendo invece il compito dell’educazione su temi sensibili (come l’identità di genere o la sessualità) a “professionisti seri” come psicologi, medici e docenti universitari», è una visione che squalifica il ruolo educativo della scuola e dei docenti, che sembra delegittimare la competenza e la responsabilità professionale dei dirigenti scolastici e degli insegnanti. La scuola italiana è già regolata da un sistema di autonomia e vigilanza (d.lgs. 297/1994 e DPR 275/1999) che attribuisce ai collegi docenti e ai dirigenti la piena competenza nella scelta dei progetti educativi, dei collaboratori esterni e dei percorsi formativi. Implica quindi un controllo interno e qualificato che garantisce serietà, pluralismo e coerenza con le finalità educative. Sostenere che serva una riforma per “affidare i corsi a professionisti seri” equivale a insinuare che i docenti e i dirigenti non siano tali, o che manchi oggi un criterio di selezione e verifica. In realtà, la normativa scolastica prevede già che ogni progetto esterno venga valutato dal collegio dei docenti e approvato dal consiglio d’istituto: un processo di garanzia che tutela la qualità e la neutralità educativa. Come ricordava Franco Cambi, la scuola è una “comunità professionale riflessiva”, in cui insegnanti e dirigenti operano come mediatori culturali e non come meri esecutori di programmi. La critica alle “associazioni ideologizzate” ignora un fatto concreto: le scuole italiane collaborano da anni con università, enti accreditati, ASL e centri di ricerca, in base a protocolli d’intesa e convenzioni ufficiali. Molti dei percorsi di educazione affettiva o alla cittadinanza di genere sono progettati insieme a psicologi, pedagogisti, medici e ricercatori universitari, non certo affidati arbitrariamente a gruppi non qualificati. Pertanto, l’immagine di una scuola “invasa dalla propaganda” è retorica e non fondata: serve solo a screditare un lavoro complesso e interdisciplinare che la scuola svolge già con competenza e responsabilità pubblica. L’argomentazione secondo cui occorre “proteggere” la scuola da influenze ideologiche e affidare l’educazione solo a “professionisti seri” non rappresenta un passo avanti nella cultura del rispetto, ma piuttosto un atto di sfiducia verso la scuola pubblica e i suoi professionisti.


