Apprendere ad apprendere: una competenza possibile?
di Pietro Sacchelli
Docente a contratto di Pedagogia Scolastica c/o l’Università di Roma Tre
Ormai in pensione ricordo con nostalgia la mia prima supplenza all’età di diciannove anni in una quarta elementare di dodici alunni in una piccola scuola di montagna. In quell’occasione mi impegnai a fondo per spiegare le caratteristiche dei poligoni che erano già stati presentati dall’insegnante titolare della classe prima di assentarsi per un congedo matrimoniale. È così che in ambito geometrico-matematico rinforzai le conoscenze sul triangolo equilatero, quadrato e rettangolo con lo svolgimento di attività pratiche ed esercizi per calcolare i perimetri e le aree. Nell’ultimo giorno del mio incarico, fiero del lavoro svolto, decisi di verificare i livelli di apprendimento sugli argomenti affrontati e per la mia prima volta provai la frustrazione del fallimento docente nel constatare che soltanto due alunni avevano compreso i concetti geometrici da me spiegati mentre gli altri confondevano i poligoni tra loro, non ricordavano la differenza tra perimetro e area né le procedure corrette per calcolarli. Lo sconforto fu grande ma non inutile perché mi fece capire che non esiste un rapporto diretto tra l’insegnamento e l’apprendimento. Iniziai così a chiedere ai docenti più anziani ed esperti di me come dovevo comportarmi di fronte agli alunni con difficoltà ricevendo al riguardo sempre gli stessiconsigli: ripetere la lezione più volte senza scoraggiarmi, proporre esercizi di rinforzo a scuola e a casa sugli argomenti svolti perché prima o poi qualcosa sarebbe scattato nella testa degli allievi. Ma cos’era quel “qualcosa” responsabile del mancato apprendimento?
Alla luce del tempo trascorso e della mia appartenenza ai cosiddetti “boomer” segnata in modo ineluttabile dall’ingrigimento di capelli e barba, oggi so che per risolvere le difficoltà scolastiche è necessario comprenderne le cause evitando esercitazioni comportamentiste, il più delle volte monotone e inefficaci. L’insuccesso nello studio non potrà essere efficacemente contrastato finché i docenti ne attribuiranno le cause ai limiti biologici della natura umana. In altre parole occorre focalizzare l’attenzione sull’alunno anziché sulle discipline come sostenuto dal filosofo e pedagogista Antoine de La Garanderie (1920 – 2010). Lo studioso francese ha affrontato il problema del fallimento scolastico con innovative modalità fenomenologiche da lui esposte in nove saggi, scritti tra il 1980 e il 1997 e oggi disponibili in versione riassunta anche in lingua italiana.[1]
Ma in cosa consiste questa proposta psicopedagogica ancora oggi sconosciuta in Italia? Per rispondere a questo interrogativo è necessario fare un passo indietro.
Edgar Faure, Ministro dell’Educazione in Francia dal 1968 al 1973, curò il preambolo del “Rapporto sulle strategie dell’educazione” utilizzando per la prima volta il termine “apprendere ad apprendere” o “imparare a imparare” come risposta al movimento studentesco che rivendicava una scuola di massa e non di élite. Questo binomio, rilanciato nel “Libro Bianco Delors” nel 1993, oggi trova collocazione al quinto posto delle competenze chiave di cittadinanza europea per l’apprendimento permanente, rimodulate nel 2018 dal Parlamento e dalla Commissione della U.E. In sostanza si tratta di un palindromo ossia della ripetizione immediata di due verbi leggibili anche al contrario senza alterarne il significato. Il primo termine di “apprendere ad apprendere” si riferisce alle strategie (metacognitive e mentali) da adottare per elaborare contenuti e conoscenze a cui rimanda il secondo. Se questo intento è corretto e pedagogicamente condivisibile risulta però di difficile applicazione perché inficiato da un paradosso. È naturale infatti chiedersi come possa uno studente di normali capacità acquisire in modo autonomo un meta-modello strategico-operativo di secondo livello per studiare in modo produttivo. Non siamo forse di fronte all’assurdità logica descritta nel libro di Raspe “Le avventure del barone di Münchausen” in cui il protagonista, caduto da cavallo in una palude fangosa, si solleva tirandosi in alto per la capigliatura?
È del tutto evidente che “apprendere ad apprendere”, così come esplicitato nei documenti ministeriali e internazionali, rappresenti un’utopia pedagogica che andrebbe rivista sia sul piano nominale che sostanziale ricorrendo al più corretto binomio “insegnare ad apprendere”. È infatti la scuola che dovrebbe farsi carico di questo compito formativo adottando mirati interventi metodologici in grado di valorizzare la dimensione ontologica dell’alunno-persona in cui risiedono le cause del fallimento scolastico.[2]
Fin dalla civiltà ellenica, culla della paideia, l’importanza attribuita al “cosa” insegnare ha prevalso sulla conoscenza dell’alunno relegato sullo sfondo curriculare e nascosto tra la pletora di obiettivi epistemologico-disciplinari. Le ultime linee guida emanate dal M.I.M. (Ministero dell’Istruzione e del Merito) rimarcano in modo inequivocabile la tendenza reazionaria che informa ma non forma la persona dal momento che interviene sul contenuto disciplinare oggetto di insegnamento. Questo modello pedagogico, adottato dalla totalità degli Istituti Scolastici italiani del I e del II ciclo d’istruzione, esalta le discipline mortificando il soggetto in apprendimento. Infatti le scuole tendono a indirizzare le risorse finanziarie e le competenze professionali verso progetti e laboratori di dubbia validità anziché intervenire sulle cause che provocano la dispersione scolastica.
L’impostazione fenomenologica evoca la celebre metafora dell’elefante invisibile nella stanza, alludendo alla sistematica rimozione, da parte dei responsabili degli Uffici Scolastici Regionali, dei dirigenti e dagli insegnanti affetti da miopia pedagogica, della dimensione interiore dell’alunno-persona, sacrificata alla concezione tecnico-funzionale degli ambienti di apprendimento teorizzati da Olson. Ma gli operatori scolastici sono almeno a conoscenza di cosa sostenga la teoria culturalista dello psicologo canadese?
Essa afferma la convergenza tra il cervello dell’uomo e gli strumenti artificiali (tecnologici, manufatti didattici, sistemisimbolici e multimediali) inventati e utilizzati nei vari ambienti culturali, in primis nella scuola. Olson ritiene che senza protesi tecnologiche e simboliche la mente umana non solo sarebbe sottosviluppata ma addirittura inesistente.Lo stesso Bruner, approdato al culturalismo agli inizi degli anni Novanta, ha sottolineato come l’intelligenza resterebbeun ventaglio di pure potenzialità biologiche se non partecipasse al patrimonio culturale e materiale della propria comunità di appartenenza.[3] I media pertanto non sono strumenti neutrali poiché il loro uso determina la forma e ilcontenuto dei messaggi con cui finiscono per identificarsi. Gli elaborati del pensiero diventano così estroflessiattraverso i vari strumenti cioè esternati dall’alunno nell’ambiente di apprendimento e di conseguenza le operazionimentali non avvengono nella sua testa ma divengono atti esecutivi prodotti dai media. Per i sostenitori della teoriaculturalista l’oggetto ingloba il soggetto e di conseguenza l’ambiente di apprendimento assurge a feticcio pedagogicosu cui concentrare l’intervento educativo al fine di stimolare indirettamente lo studente sul piano della crescitacognitiva. Tra il piano culturale-oggettivo e la dimensione soggettiva dell’alunno viene a crearsi così una sorta diisomorfismo di genere e sostanza che, avallando l’eliminativismo della mente, annulla la dimensione ontologica della persona. In altre parole l’adesione alla teoria di Olson ha finito per ostracizzare dalla scuola la struttura interiore dell’alunno a favore degli ambienti scolastici che celebrano la “seduzione” della tecnica[4], impediscono l’insegnamento del metodo di studio ed ostacolano la presa di coscienza fenomenologica necessaria alla personalizzazione dell’insegnamento/apprendimento.
L’educazione scolastica dovrebbe attuare una completa inversione di rotta investendo su una pedagogia e una didattica mentalista. Prima di insegnare i contenuti disciplinari sarebbe infatti prioritario rendere consapevoli gli alunni (aspetto metacognitivo) del loro stile di apprendimento per elaborare le informazioni, stare attenti in classe, riflettere sulle conoscenze apprese per comprenderle a fondo. Ecco perché sembra fuori luogo discutere di competenze in terminiastratti come se esse fossero “entelechie” aristoteliche in grado di svilupparsi in modo autonomo. Sarebbe piùcorretto parlare di persone competenti e consapevoli e quindi partire dal “saper essere” nel mondo per concentrarsisuccessivamente sul “sapere” e sul “sapere fare” declinabili nei molteplici ambiti dello scibile umano. Non è dunque possibile alcuna comprensione se il comprendersi non costituisce l’intuizione fondamentale di sé stessi. Non si tratta di un’opinione ma di una verità antropologicamente fondata e sintetizzata nell’efficace espressione aristotelica ripresa poidalla filosofia Scolastica: “Non sentimus, nisi sentiamus nos sentire; non intelligimus, nisi intelligamus nos intelligere” (Non sentiamo se non sentissimo di sentire, non comprendiamo se non comprendessimo di comprendere). Ne consegue dunque che è sbagliato partire dall’intelligibilità della disciplina ed è fondamentale che la scuola educhi l’alunno alsuo “essere nel mondo” affinché egli divenga consapevole del proprio poter-essere e del progetto di vita che lo anima.La roboante asserzione pedagogica del “sapere, saper fare per saper essere” è quindi mal formulata e deve esserereimpostata al contrario perché non possono aver luogo né il sapere né il saper fare se in origine non è data la consapevolezza del “saper essere” che dispone al suo “poter-essere”.[5]
La scuola continua a restare sorda agli accorati appelli rivolti all’umanità da Papa Francesco prima e da Leone oggi perché la persona sia rimessa al centro di ogni visione socio-economica e culturale per ritrovare il senso più profondo della sua esistenza e con esso quello della fede in Dio.
[1] Sacchelli P., “Il pensiero e le opere di Antoine de La Garanderie. La pedagogia della Gestione Mentale”, Ed. Libreria Universitaria (PD), 2019.
[2] Sacchelli P. “Insegnare ad apprendere è più facile se… sai come fare!” Ed. Il Papavero (AV), 2025.
[3] Bruner J., La mente a più dimensioni, Ed. Laterza, Bari 1993.
[4] Galimberti U., L’uomo nell’età della tecnica, Ed. Orthotes, Napoli 2023.
[5] Sacchelli P., “Valorizzare le differenze per una scuola inclusiva. Dalla dimensione cognitiva dell’insegnamento a quella mentale dell’apprendimento” Ed. Unicopli (MI), 2018

