6 – Operatori psico-sociali formazione, …

Diversi sono i percorsi per arrivare ad una definizione della formazione. Nell’accezione corrente si stacca il percorso formativo dalla quotidianità del lavoro. Si  presuppone che la formazione sia già data, precedente all’azione, nella quale essa è inserita e alla quale fa riferimento. Il percorso di formazione si interseca così casualmente con il lavoro, precedendolo, oppure rimandando sine die il proprio termine.

E’ il caso di avvenimenti che vengono letti come difetti nella formazione, come mancata integrazione tra azione e formazione, che è data come preesistente al lavoro. Ciò genera spesso confusione tra gli stessi operatori, anche perché, assumendo il quadro contorni rigidi e sfumati nello stesso tempo, suppone che di formazione e lavoro siano ben fissati i punti di partenza, delineandosi un percorso che in qualche modo restringe le possibilità e rifiuta come errore ciò che non rientra nel quadro stesso. Le ascendenze di questo concetto di formazione si ritrovano nel rapporto distorto con un sapere che, anticipando ed esaurendo il possibile, nonché irrigidendolo in schemi che lo impoveriscono, riducono il lavoro ad una sorta di operazioni standardizzate. La formazione si riduce così alla verifica di un adeguamento tra sapere ed azione, dove prevale quest’ultima.

Una seconda accezione di formazione, negandole il rapporto con il sapere ed eludendolo, pone in primo piano l’azione, che non viene interrogata. Oppure, quando lo si interroga su quel che accade, lo si riconduce a qualcosa di indefinibile ed ineffabile, oggetto di discussioni che si avvalgono di linguaggi o saperi esoterici.

Questo secondo percorso, che spesso sembra più “democratico” perché permette a tutti di prendere la parola, parte dai “vissuti”, ma è, a nostro parere, intimamente solidale con il primo e non privo di rischio per i gruppi di lavoro.

Per ciò che riguarda il primo modo di intendere la formazione, proviamo a riflettere su come talvolta, in un gruppo di lavoro si affronta il caso di un paziente: ciascuno prende la parola su un piano di parità presunta, ma appunto presunta, poiché, non venendo esplicitati gli assi attorno ai quali ruota la discussione, i sentieri attraverso i quali si giunge a formulare delle ipotesi rimangono vaghi e rimandano spesso a dinamiche interne ai
gruppi di lavoro, con aspetti transferali presenti e non interrogati.

Tali aspetti portano spesso all’interno dei gruppi stessi conflitti la cui origine non è chiara. Ma non è chiara ab origine, strutturalmente e non episodicamente. Qui, ciò che viene velato attraverso la finzione democratica è la disparità transferale, che rimane tale proprio perché il riferimento è tutto interno al gruppo e non trova all’esterno parametri ai quali ancorare la discussione.

Dietro la presunta parità degli interlocutori si nasconde un fattore importante: il sapere assume un aspetto esoterico, i cui fondamenti non esplicitandosi, confermano e aggravano le dinamiche interne al gruppo di lavoro. La congruità degli interventi spesso viene valutata sulla base delle simpatie o antipatie che il paziente induce o riproduce, mettendo su un piano di realtà qualcosa di immaginario. Questo è il vero aspetto deteriore del “vissuto”, quello di dare valore di verità a dimensioni immaginarie, buttando a mare anni di riflessioni sul transfert, come se fossero inutili o secondarie.

Qui è proprio il punto di partenza ad essere in causa. Esso si fonda su una sorta di universo chiuso, su una relazione con il paziente che viene data come scontata, sulla quale non occorre riflettere né costruire un sapere (perché sufficiente a se stessa). La relazione è altresì chiusa, proprio perché l’aspetto fondante è interno e riceve alimento da una sorta di alone magico, senza aprire ad un sapere né ad una possibile epistemologia della relazione.

La solidarietà tra i due approcci che abbiamo cercato di evidenziare, oltre che ad individuare le differenze apparenti, mette in luce alcuni fenomeni di fondo che spesso portano i gruppi di lavoro – le cosiddette équipes – ad avvitarsi su dimensioni inconcludenti. Da una parte, può evidenziarsi la tendenza ad evadere lungo una via di fuga che conduce verso un sapere esterno – dove la domanda di formazione si configura come individuale – che esclude la costruzione di un sapere all’interno del gruppo. Dall’altra, possono riproporsi situazioni duali come campo di riferimento della relazione, evitando in questo modo la complicazione che il lavoro istituzionale pone, cioè il fatto che lavorare con altri comporta differenze strutturali.

Tutto ciò si può spesso osservare nei servizi: se da un lato è interpretabile come tentativo di uscire dalla confusione, dall’altro i tempi e i modi sono spesso sbagliati, con l’effetto di opporre questa via al resto del gruppo e portando quindi ad accentuare la dimensione transferale, senza sottoporla a nessun processo di costruzione del sapere.

In questo quadro è interessante sottolineare che un altro piano accomuna i due approcci: la confusione temporale, che rimuove la distinzione tra il momento della relazione e quello della riflessione (che proporrei di chiamare costruzione del caso) nel gruppo di lavoro.

Nel primo caso non si tien conto di quel che accade sul piano della relazione; nel secondo si fa coincidere l’universo del sapere possibile con la relazione.

La proposta che vorremmo avanzare fa riferimento al lavoro di formazione come distinto da quello della relazione, che viene però inclusa come asse portante del lavoro dell’équipe.

Vediamo di esplicitarla evidenziando prima alcuni punti che indicano un percorso possibile.

Il primo rimando è alla diagnosi. Tradizionalmente la diagnosi impone un campo di riferimento in cui quel che affligge il paziente assume senso e completezza; cioè, l’accaduto viene esaustivamente ricompreso dal sapere che lo precede.

Noi proporremo di pensare in termini dinamici la diagnosi, definendola come costruzione  che serve a mettere in luce la relazione del soggetto con il suo altro. A questo proposito ricordiamo, ma riprenderemo questo aspetto, che il rapporto con l’altro segna e fonda la nascita del soggetto. Sin dalla nascita un altro (quello materno) interpreta i vagiti dandogli un senso (ha fame, ha sonno, ecc.), e fonda  per il soggetto una relazione vitale, in assenza della quale il soggetto non si costituirebbe. Questa relazione porta poi a costruire un altro interno: quando un soggetto chiede aiuto lo fa a partire proprio da questa sua relazione, da questa posizione che egli stesso intrattiene con il suo altro.

E’ comune vedere come il fallimento di alcune relazioni di aiuto parta proprio dall’assenza di questa analisi: il soggetto sfugge, lo si vorrebbe aiutare, ma non si riesce a trovarlo, non si riesce ad avvicinarlo; eppure la sua domanda di aiuto ci sembra così forte da echeggiare l’Urlo di Munch.

Proprio per trasformare l’urlo in domanda è necessario comprendere la relazione che il soggetto intrattiene con il suo altro, per evitare di collocarci come un ulteriore anello di quella catena che ha causato le sofferenze del soggetto. Nel gruppo di lavoro è impossibile dare aiuto se ciascuno nel gruppo – e il gruppo nel suo insieme – non sottopone a critica ed interrogazione il posto che occupa presso il soggetto. Senza questa componente critica, infatti, il lavoro è già delimitato all’inizio all’interno del perimetro del posto che si occupa, perimetro dal quale si rivela difficilissimo uscire nel tempo. Il lavoro di équipe si caratterizza allora come possibilità di decifrazione e trasmissione di questo altro  del paziente.

Questo lavoro è preliminare alla possibilità di operare degli spostamenti del paziente nel discorso. Se esiste, infatti, una pluralità di approcci con cui ci possiamo relazionare al paziente, la costruzione serve a decidere quello nel quale ci siamo collocati in partenza e quali spostamenti si possono operare nell’approccio stesso affinché la relazione divenga di aiuto.

La costruzione serve quindi a produrre un progetto di intervento, che non la precede, ma è a lei susseguente e conseguente. Susseguente temporalmente, perchè distingue i due tempi dell’intervento e della riflessione; conseguente, perchè pone un riferimento esterno, un sapere, cioè, che rende possibile la logica dell’intervento. Un lavoro che permette anche di fare i conti con il narcisimo e i fantasmi degli operatori, cercando così di superare il dualismo tra momento della formazione e momento dell’azione, che spesso, di rimando in rimando, rischiano di non incontrarsi. Dimensione spesso dilatoria, questa, che rinvia le possibilità di sperimentazione nel lavoro ad una formazione mitica da raggiungere altrove e da mettere in azione successivamente, quando, magari, i contesti lavorativi sono completamente deteriorati.

Il termine “sperimentazione” non è stato indicato ed usato a caso. Esso, infatti, rimanda ad una curiosità o ad un desiderio di sapere, che permettono di evitare le banalizzazioni o i pettegolezzi nel momento in cui si parla dei pazienti, poiché propongono uno sguardo diverso, uno sguardo sul mondo che viene interrogato nella sua complessità e comprensibilità. Curiosità positiva anche per evitare che l’analisi discorsiva si riduca ad uno “sfogatoio”, ad un momento consolatorio sull’impotenza, oppure gratificante sull’onnipotenza, in questi svelandosi le due dimensioni più solidali di quel che appare ad una prima analisi.

Lavoro per alcuni aspetti di continuo rimando, come un testo da scrivere. Anche il “rimando al testo” non è casuale: esso indica la necessità di un ordine nella costruzione perché sia resa comprensibile ad altri, che ne renda possibile la riscrittura collettiva, ne sottolinei le scansioni, e ne verifichi a distanza gli esiti. Il lavoro di verifica è spesso evitato nella formazione, rinviato ad elementi quantitativi che, mentre cercano di rendere conto del lavoro, si rivelando spesso inefficaci, o fonte di scontento, se non di distruttive dinamiche di controllo tra colleghi.

La costruzione può invece divenire un momento di controllo non tanto esterno, ma sentito come necessità interna. Un momento centrale dove i “vissuti” vengono assunti come prime articolazioni discorsive, che non si avvitano su una sorta di autismo dell’operatore; dove anche i rimandi immaginari all’interno della relazione vengono interrogati.

Questo per evidenziare come occorra portare il contatto istituzionale verso la possibilità di formulazione di una domanda soggettiva e non il contrario, che significherebbe pensare che le collocazioni istituzionali esauriscano le dimensioni della relazione, con le inevitabili implicazioni di tipo gerarchico – le differenze di posizione, nonché di livello.

Il lavoro che abbiamo cercato di delineare recupera l’azione come assunzione di una responsabilità individuale verso il soggettto. Il posto che andiamo ad occupare non ce lo indica né l’istituzione né la collocazione professionale, ma va costruito come possibilità con il paziente.

Inevitabili, quindi, le implicazioni con la dimensione etica di questo lavoro, come dimensione che non è garantita, ma scelta volta per volta con ciascuno, costruendo intorno a quella
presenza, a quel soggetto, una possibile domanda che sia indice del suo essere nel mondo, della sua possibilità di parola, di formulazione di una possibile convivenza con le difficoltà, le fantasie e i godimenti che segnano la sua esistenza.

Ma non vorremmo aver dato l’impressione di ridurre tutto ad un vago “comprendere” il paziente. Attraverso il termine “discorso”, vorremmo evidenziare che per comprendere occorre anche mettere in moto un proprio desiderio. Desiderio che la formazione può alimentare, può indirizzare, ma che solo una curiosità individuale può sostenere.

Solo il gusto della sperimentazione con altri, il confronto tra altri e con altri rispetto al sapere, ripreso nei momenti di verifica, dota di senso il percorso formativo, evitando di separarlo dal lavoro, come elemento artefatto e sterile a cui fare riferimento in una dimensione consolatoria.

* psicologo psicoanalista