A due voci

Nick Hornby

Non buttiamoci giù

Ugo Guanda Editore, Milano, 2005pp. 293, E 15,50

Angelo Villa

Ero andato in libreria a comprarlo per un regalo. Soldi e tempo sprecati. Il destinatario del dono è un educatore che non legge. Peccato perché a suo modo Hornby è un educatore. Anche se fa di tutto per dissimularlo. Giorni dopo, sono ritornato al negozio. Mia figlia voleva anche lei una copia di Non buttiamoci giù. Il libraio gongolava. Mi invitava a passare il giorno dopo. Le scorte dell’ultimo romanzo di Hornby erano esaurite. Hornby va via come il pane.

Bene, per fortuna. Lo merita. Un pensiero gratuitamente masochista mi rovinava subito, però, la festa. E cioè, quali sono le ragioni di tanto successo? Pensa e ripensa, è così che ci si rovina l’esistenza. Ma pazienza. Me ne sono venute in mente tre. La prima, Hornby scrive bene. In modo facile, estremamente diretto, prossimo al parlato. Ma non è mai banale, di maniera. La costruzione letteraria del suo romanzo è originale. La parte iniziale è semplicemente travolgente. Seconda ragione, Hornby è simpatico. Non tiene il lettore a distanza. Lui è lì, dietro la pagina, o almeno così sembra al lettore. Ama quello che conosce e conosce quello che ama. E cioè quello che poi ama il lettore o un certo tipo di lettore: il calcio, la birra. E il rock (e la sua scrittura ne risente, nei tempi e nella forma della composizione). Non nasconde le ferite poco rimarginabili del crescere. Il prezzo che si paga. Né i dolori che la vita gli ha riservato. Maureen, una delle quattro protagoniste del romanzo, madre di un ragazzino gravemente handicappato parla di un’esperienza che Hornby conosce bene e di cui non fa mistero (vedasi il delizioso 31 canzoni). Basta? No, passiamo alla terza ragione. L’autore scrive del vuoto con cui siamo confrontati nel tempo che confusamente viviamo. Bella scoperta, direte voi. E chi, quale autore, oggi, non lo fa? Un momento. Hornby non si limita a questo. Lui osa di più. Il vuoto prova ad attraversarlo, a indicare non dico una via d’uscita ma una strategia possibile. Un modo per farci i conti. Non scomoda padri o padrini; lui è, forse, un fratello maggiore, un pari non troppo dissimile. Non si rotola nella lagna di una trasgressione furbetta e compiaciuta che nel moralismo dell’immoralità fa cinicamente della disperazione un’icona estetica ad uso e consumo del mercato eternamente giovanilista.

Hornby si cimenta ammirevolmente nell’arte di cui tutti oggi dobbiamo fare, necessariamente, esperienza. Quella cioè di fare i maccheroni. Sì, avete letto bene: i maccheroni. I maccheroni sono, come si dice, della pasta intorno a un buco, a un vuoto. E il vuoto è il peacemaker che, cardiopatici o meno, oggi ci accompagna. Per questo sostengo che Hornby è un educatore. Perché percorre l’unica strada oggi possibile , tenendosi a debita distanza da depressione e idealismo. Due facce della stessa medaglia, in fondo.

Prendiamo Non buttiamoci giù. Il vuoto è lì. Subito, all’inizio della storia. Guarda dentro, dal fondo di una strada londinese, quattro esseri umani in cima alla casa dei suicidi, la notte di capodanno. In procinto di gettarsi di sotto, in attesa di sposarsi con lui, di perdersi in esso. “Nelle tue braccia, nelle tue braccia”, canta da qualche parte Nick Cave.

Chiaramente, il vuoto che si para davanti a Maureen, Jess, JJ, Martin (questi i nomi dei quattro protagonisti) è il prolungamento del buco di infelicità e di fallimenti che li percorre e trapassa da parte a parte le loro esistenze. Loro se ne stanno lì sul ciglio del palazzo, i piedi a penzoloni, mentre gli altri festeggiano, si divertono, si preparano (è un eufemismo) al nuovo anno. La metafora è potente, poiché l’essere in quel luogo, in quel momento isola drasticamente una condizione. Traccia con fermezza una linea. Una linea davanti al vuoto, all’abisso, al confine tra una vita che può assomigliare a una morte e una morte che ne sembra la terapia. Tocca a Jess, inquieta adolescente, la più fragile e la più veritiera del gruppo, rammentarlo.

Ecco, il maccherone, l’invenzione del maccherone inizia lì. In prossimità del baratro, dove il senso e il narcisismo aspettano solo un leggero colpo di vento, una leggera pressione sulle spalle per trasformarsi nella loro negazione. La linea è invisibile, ma quotidiana. Hornby ci porta lì. Anzi, forse ci dice che siamo lì. O che possiamo essere da quelle parti, molto facilmente, “nel mezzo del cammin di nostra vita”. Il mezzo non è cronologico, non guardate il calendario o la carta d’identità. E’ esistenziale, sintomatico. Lì, sul terrazzo della casa dei suicidi bisogna arrivarci.

La linea che separa i quattro di Hornby dagli altri, dalla gente comune è aldilà della legge e dei buoni costumi. Non contro la legge. Rivendica un rapporto differente con se stessi, inventa, tra i quattro, una nuova solidarietà. E’ quella che sorge intorno a un limite e lo ingloba come condizione per poter andare avanti. Raccoglie il vuoto, non come se fosse una malattia, ma la saggezza oscura con cui dialogare, senza troppa fretta di riempirla. Il limite, allorché assunto, ha lasciato un segno. Maureen, Jess, JJ, Martin andranno avanti. Non troveranno la soluzione. Ma una via, ciascuno la propria, inevitabilmente marcata dall’impatto con quella notte. Con l’immanenza di quel vuoto. Hornby non sbraca nel comico, anche se potrebbe: Jess è spesso esilarante. O nel tragico, vedi Maureen, o nel sentimentale, vedi JJ, o nel moralistico, vedi Martin. Non propone maschere o caricature. Dispiega un campionario che è la nostra compassionevole miseria. E anche la nostra, relativa, forza. Tutto dipende dall’arrivare su quel ciglio, dal non aver  paura di trovarsi a tu per tu con quella linea.
Allora? Go, Hornby, go. Abbiamo, probabilmente, fame di questa letteratura. Come del pane, per l’appunto. O meglio, dei maccheroni. Laddove c’è il pericolo, là cresce quel che salva, scriveva Holderlin. Teniamocelo a mente.

Ambrogio Cozzi

Su dai, cavolo, chiacchieriamo un po’, ho detto. Non c’è bisogno di condividere il dolore. Solo, capito, i nostri nomi e perché siamo venuti qui. Potrebbe essere interessante. Potremmo imparare qualcosa. Trovare, forse, una via d’uscita o che so”.

Non prendiamo le parole solo per ciò che letteralmente significano: con non buttiamoci giù si può intendere sia l’idea di non buttarsi dal tetto di un grattacielo in un momento di scoramento, che di non deprimersi e vedere solo il lato negativo della propria esistenza.

Hornby racconta le vicende di quattro persone che intendono suicidarsi perché si sono buttate troppo giù e che riusciranno a non farlo trovando una forza comune per contrastare il pessimismo. Una storia dai toni drammatici che prende tutt’altra direzione grazie all’ironia dell’autore, alla sua capacità di dissacrare e di osservare la realtà da un altro punto di vista (anzi, da quattro diversi punti di vista).

Se esistessero casi di suicidio di individui felici, geniali e di successo, allora sì che potremmo tranquillamente concludere che la loro affezionata trebisonda stava andando a margherite. E non dico nemmeno che essere fidanzati con Miss Svezia, giocare nel Manchester United e vincere degli Oscar sia un vaccino automatico contro la depressione: anzi, sono sicuro di no. Dico solo che queste cose aiutano”. Così riflette Martin Sharp seduto sul cornicione di cemento del grattacielo, in attesa di buttarsi pensando che nella vita non ha vinto Oscar e non ha avuto gratificazioni economiche, personali o sociali. E anche Maureen, madre disperata di mezza età, si spinge fin sul tetto della Casa dei Suicidi, ma incontra proprio Martin, che pur è personaggio televisivo di discreta fama, lo riconosce e iniziano a parlare, finché arriva la scatenata Jess (che più avanti si scoprirà essere figlia del vice-ministro Crichton), intenzionata a liberarsi dal peso della solitudine, ma troppo giovane per farlo, secondo Martin, che la “placca” in tempo. E il quartetto si completa con JJ, immigrato sentimentalmente infelice, costretto a vendere pizze e shockato dall’immagine di quei tre sul tetto che stanno per “prendere la via di Vincent van Gogh per levarsi da questo mondo”. Nessun artista né poeta: una donna non più giovanissima con un’aria da donna delle pulizie, un’adolescente esagitata, un presentatore di talk-show un po’ squallido e ora anche un addetto alla consegna di pizze a domicilio. Una immagine assai lontana dal perverso, distaccato, etereo romanticismo che accompagna il ritratto ideale dell’aspirante suicida. E proprio sbocconcellando le pizze che JJ (l’intellettuale del gruppo) avrebbe dovuto portare ai clienti, pezzo dopo pezzo si mastica e si inghiotte la volontà di morte; e la vita riprende un senso. Si spalancano così quattro finestre su altrettante storie, che finiscono per intrecciarsi. I giornali scoprono il tentato suicidio di una star televisiva, in compagnia della figlia del vice-ministro dell’educazione… e i quattro si ritrovano coinvolti in un vortice di curiosità, di domande, di conseguenze. Superate queste, resta la solidarietà, il rito dell’incontro, consumato spesso su quel grattacielo, che vede protagonisti altri come loro alla ricerca di una soluzione drastica, in una ruota sempre in movimento come quella panoramica sul fiume, il London Eye, che i nostri quattro osservano in lontananza.

L’ultimo romanzo di Nick Hornby trasforma il racconto di una fine in una specie di parabola sull’inizio, e su quel prodigioso ingrediente di ogni inizio che è la speranza. Alimentata dal saper vivere con molta, moltissima ironia. Grazie al ritmo di Hornby il male di vivere assume svariate coloriture.

Se quando parla Maureen, madre estenuata di un figlio gravemente disabile, troviamo un dolore raccontato con realismo, e con una disperazione del tutto priva di aggressività, anzi con una quasi buffa incapacità di comprendere la violenza altrui, quando è l’adolescente di buona famiglia Jess a prendere la parola, è un continuo di provocazioni verbali, unite al puerile cinismo difensivo di una “sballata” sempre disposta a redimersi. E Martin, il conduttore televisivo che ha distrutto la sua vita personale e professionale dopo essere andato a letto con una minorenne, regala alla storia i sarcasmi più feroci. Poi c’è JJ, musicista born in the USA che dopo lo scioglimento della sua band e dopo che la sua ragazza l’ha lasciato si dedica alla consegna di pizze a domicilio sprofondando in deprimenti nostalgie. I quattro aspiranti suicidi si rivelano abilissimi nell’ascoltarsi, disinnescandosi a vicenda nei loro propositi autodistruttivi, fino alla catarsi finale, una vacanza a Tenerife.

L’umorismo nero, la distanza imperturbabile davanti alle disgrazie ha un marchio decisamente britannico. Ma la, tutto sommato, buona disposizione dello scrittore per le situazioni esistenziali più impervie è abbastanza rara. Hornby non cavalca il nichilismo d’effetto, ma neanche i buoni sentimenti in versione cheap, e nemmeno declina il senso dell’umorismo, di cui pure è molto dotato, in un modo fine a se stesso. Riesce a raccontare di ordinary people nella quale è facile immedesimarsi, ma non rinuncia a caratterizzare, con una originalità mai caricaturale, i suoi personaggi.

Alternando pagine grottesche (la visione dell’angelo con il viso di Matt Damon) a pagine tristi (l’arredamento della camera del figlio di Maureen) tenute insieme da un filo forte in una trama esile, Hornby riesce a dare un tocco in più alla sincerità, dove la parola non sbocca nella cronaca, ma diviene elemento centrale per raffigurare l’esperienza, per dotarla di senso.

In fondo sono proprio le parole a salvare i protagonisti, quel chiacchierare un po’ dell’inizio che permette di cogliere che sicuramente non vale la pena di buttarsi giù.