A proposito di integrazione scolastica

Il Ministero della Pubblica Istruzione ha presentato al Parlamento, nello scorso febbraio, un documento che è stato discusso in quattro audizioni su una nuova politica per l’handicap all’interno della scuola che prevede una serie di interventi anche oltre la scuola.

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L’intento è stato quello di capire come aiutare a far uscire la scuola da una sorta di riserva indiana all’interno della quale si è venuta a trovare, sin dall’inizio degli anni’ 70, come luogo che maggiormente si è fatto carico della presenza di persone in situazione di handicap nella vita civile. La scuola, di fatto, è diventata il principale punto di riferimento.
Attualmente, sul territorio nazionale, sono presenti, all’interno della scuola, circa 120.000 persone portatrici di handicap e sono 59.000 gli insegnanti in servizio per il sostegno di questi ragazzi. Dei 120.000 portatori di handicap, circa il 92% sono persone con un handicap mentale; i sensoriali, ciechi e sordi, sono solo una minoranza, circa 7000, così come gli handicap motori. Nelle Università sono poi presenti 1.600 ragazzi universitari handicappati che da quest’anno devono essere seguiti da tutor specializzati. Abbiamo quindi un supporto sul piano dell’istruzione dei bambini e dei ragazzi su una fascia di età da zero all’infinito.
La politica scolastica del Ministero della Pubblica Istruzione si è trovata a dover fronteggiare tre grandi questioni.
Innanzitutto ci si è posti il problema di come rendere flessibile la risorsa scolastica in rapporto a una gamma di bisogni molto differenziati tra loro. Davanti alla presa di coscienza che le persone in situazione di handicap hanno dei bisogni estremamente diversificati gli uni dagli altri occorre trovare risposte che siano quanto più fessibili.
Nella scuola noi abbiamo infatti una vasta gamma di bisogni ai quali corrispondono risposte molto automatiche. Pensiamo ad esempio all’assegnazione in un plesso di un insegnante di sostegno con delle specifiche competenze che viene assegnata allo stesso in base alla graduatoria, senza che i bisogni specifici del plesso vengano presi in considerazione. Si tratta quindi di mirare gli interventi e con questo andare a modificare situazioni difficili da cambiare.
Il secondo problema è stato quello di rendere stabile la presenza di queste risorse scolastiche. Fino allo scorso anno scolastico (97/98) avevamo in servizio 28.000 insegnanti di ruolo e 31.000 deroghe, con una velocità formidabile di spostamento. L’operazione è stata quella di rendere stabile l’80% del fabbisogno; da quest’anno scolastico viene infatti portata la quota di ruolo a 48.000 insegnanti, in modo da lasciare solo un 20% di posti fluttuanti; risorse, per intenderci, stabilmente assegnate alla scuola ma fluttuanti su una collocazione in base ai bisogni. Rimane ancora il problema di come non sempre, a posti di ruolo, corrispondano poi persone stabili per un periodo considerevole di tempo. Questa operazione ha consentito la stabilità di un certo numero di insegnanti di sostegno a livello provinciale, ma ha reso estremamente flessibile l’assegnazione del dispositivo provinciale alle diverse scuole. Il contingente di insegnanti di sostegno di una determinata provincia viene quindi distribuito sui diversi plessi scolastici in base al progetto e alla strategia della Provincia stessa. Si supera in questo modo la mera distribuzione numerica o per tipologia, con meccanismo automatico di uno su quattro, per avvicinarsi a una logica di distribuzione in base ai bisogni effettivi, ai carichi di lavoro che ogni soggetto presenta.
Il terzo principio è stato quello di dare continuità alla presenza degli insegnanti di sostegno pensando che la continuità possa bloccare quella corsa, che si è verificata negli ultimi sette anni, per cui a fronte di un aumento di certificazioni del 3% corrisponde un aumento degli insegnanti di sostegno del 4,5%. Rimane una questione ancora aperta, se sia necessario fare delle distinzioni tra le persone in condizione di handicap in base alla L. 104, rispetto a tutto il disagio sociale, culturale, famigliare che certamente esiste, ma che forse ha bisogno di diverse forme di intervento.
Un altro nodo problematico che si è scelto di affrontare è la relazione che lega l’insegnante di sostegno al bambino. Esiste spesso una forte delega nei confronti dell’insegnante di sostegno e si tratta quindi di capire come ridurla. A volte poi si viene a creare, tra l’insegnante e il suo alunno, una coppia molto protettiva che, se da una parte, quella della famiglia, rappresenta una sicurezza e un’àncora, dall’altra può trasformarsi in ostacolo per i processi d’integrazione stessa dell’alunno, malgrado le intenzioni dell’insegnante. Ma oltre a questo tipo di relazione, si rende necessario anche aggredire un certo tipo di didattica che per lo più è rimasta ancora di carattere frontale, giocata cioè sull’interrogazione, sulla spiegazione, ma estremamente povera di momenti di apprendimento in situazione di cooperazione, di reciprocità, di scambi e di costruzione comune. Una didattica frontale non consente reale integrazione. Quando negli anni ’70 è partita questa avventura, si pensava che l’integrazione avrebbe avuto senso se fosse cambiato il nostro modo di fare scuola, aumentando il tempo dell’apprendimento rispetto al tempo dell’insegnamento. Il problema che ci si è posti al Ministero riguardava il come coinvolgere in questo disegno tutti gli insegnanti di classe, che in Italia sono circa 700.000 a fronte dei 60.000 di sostegno, sia nel momento della loro formazione, sia all’interno delle classi, per quelli già operanti. In Italia, almeno il 30% delle classi, hanno al loro interno un alunno handicappato è quindi difficile che un insegnante di classe non incontri un ragazzo in situazione di handicap. Nascono quindi due esigenze: la formazione universitaria dei nuovi insegnanti e l’aggiornamento di tutti gli altri.
Nei nuovi piani di studio delle università sono previsti per gli insegnanti alcuni esami legati all’handicap, in modo che nessuno più si trovi a relazionarsi con uno di questi ragazzi senza saperne nulla. Per quanto riguarda la formazione degli insegnanti di classe già in servizio si è scelta la strada di finanziare in modo privilegiato quei collegi che vogliono lavorare sull’integrazione, accanto al lancio di piani nazionali di aggiornamento per il collegio. Questa politica nuova che la scuola si è data, a un quarto di secolo di integrazione che naturalmente avrà bisogno di inserirsi all’interno dell’autonomia, è diretta ad affermare che l’integrazione è un disegno dal quale non si può più tornare indietro, nemmeno sui gravissimi, dove la discussione è invece ancora aperta con alcune associazioni di insegnanti, per fare un esempio, che chiedono di non scolarizzarli. Crediamo sia possibile compiere altri passi in avanti: specializzare ulteriormente gli insegnanti già formati al di là del biennio specifico conseguito, che spesso è un biennio di base ma non è mirato a formare contingenti di persone altamente specializzate. L’idea è di individuare i fabbisogni differenziati che esistono a livello provinciale per impiegare le risorse dove servono; si spostano gli insegnanti, non più gli alunni. E’ necessario trasferire l’attenzione dagli interessi dell’operatore ai bisogni dell’utente, come sta avvenendo in tutti i servizi, anche se ciò significa mettere in gioco delle abitudini molto radicate ed essere pronti a remunerare, quando giustificato, un disagio dell’operatore. Sono quindi iniziati i corsi di alta qualificazione riservati a persone già specializzate, su settori precisi di intervento, e sono ripartiti i corsi biennali, che erano stati chiusi per scandali nel ’97, svolti ora dal Provveditorato in regime di convenzione con le Università. La proposta del Ministero per farne un decreto è stata quella di seguire un sistema di crediti, senza concentrare in un biennio gli insegnamenti, per costruire invece il programma in sei o otto pacchetti permettondo così ad ognuno di costruire una propria competenza in più ambiti. Per gli insegnanti non di ruolo è stata individuata l’Università come punto di riferimento, poiché sarà l’Università in futuro a occuparsi della formazione degli insegnanti.
Il nono anno dell’obbligo scolastico infine, porrà il problema che per tutti i ragazzi sarà necessario iscriversi alle superiori almeno per un anno. Per quanto riguarda i ragazzi portatori di handicap ci si è chiesti in Parlamento quale sia la strada da seguire. L’idea su cui ci si è mossi è stata, da un lato di proseguire gli studi un anno in più, non solo per un passaggio verso il lavoro, ma anche come formazione sul piano culturale. E’ stato sancito cioè il diritto anche di queste persone a continuare la formazione su alcuni linguaggi e momenti culturali, tanto che all’atto dell’iscrizione alle superiori il ragazzo dovrebbe consegnare anche il suo Piano Educativo Individualizzato accompagnato dalla verifica di fine anno. Si è voluto quindi garantire, ai ragazzi portatori di handicap, un percorso di autonomia unitamente a un percorso culturale, e non semplicemente l’approccio al sistema di formazione professionale.