ABSTRACT – Crisi e nuove paure.

La cultura del risentimento non è la soluzione

Abstract dell’articolo di Fabio Lucchini “Crisi e nuove paure. La cultura del risentimento non è una soluzione” apparso su IL FUTURO TRA PAURE E SPERANZE – Pedagogika.it anno 2012 n 1.

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Dopo la breve illusione delle ripresa economica globale, il costante peggioramento degli indici borsistici, l’erosione del potere d’acquisto e la consistente perdita di posti di lavoro preannunciano un futuro prossimo carico di incertezze. Aumenta il timore che la sfiducia dei mercati finanziari o (secondo altre interpretazioni) la deliberata ostilità degli speculatori, si traducano in un sensibile peggioramento del tenore di vita generale.

Chiaramente, all’alba del 2012, ci muoviamo in una fase storica dove la stragrande maggioranza degli individui vive il proprio futuro occupazionale ed esistenziale come un grande interrogativo. In particolar modo, in Italia, dove il sistema economico-produttivo è sotto pressione e il tessuto sociale in sofferenza. Le stime mostrano che la vulnerabilità alla povertà si va diffondendo su ampia scala, dato che già agli inizi degli anni novanta del secolo scorso riguardava quasi la metà della popolazione e considerando che è ragionevole supporre che la situazione volga al peggio, soprattutto alla luce della cronica stagnazione del Pil italiano e degli effetti persistenti della crisi (G. Vecchi, In Ricchezza e povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi, 2011).

Aumenta il senso di insicurezza esistenziale, insieme alla frustrazione, alla paura, al risentimento. Non è certo un fenomeno inedito, ma c’è una novità. Se nell’ultimo ventennio molti hanno identificato nel diverso (l’altro, lo straniero, l’immigrato) l’origine del proprio malessere sociale, reclamando dallo Stato protezione e quindi l’innalzamento dei livelli repressivi, ora è proprio lo Stato, “i rappresentanti del popolo”, e con essi la grande finanza a essere nel mirino, a rischiare di assurgere allo sgradito ruolo di capro espiatorio.

Negli anni novanta del secolo scorso, la maggiore preoccupazione delle nostre collettività, nel complesso benestanti e convinte di rimanerlo a lungo, era rappresentata dalla piccola criminalità predatoria. Negli anni duemila, in seguito agli avvenimenti epocali del settembre 2001, il rischio indeterminato e apocalittico del terrorismo aveva innescato sentimenti di confusa irrequietezza nei confronti del diverso e della sua presunta intenzione di condizionarci e stravolgere, mediante la paura, le nostre vite sino ad allora tranquille. Ora, all’inizio di un nuovo decennio, quelle inquietudini non sono scomparse, ma risultano quasi trascurabili di fronte all’ampliarsi dell’area grigia della precarietà esistenziale. Ciò che pareva garantito (lavoro, pensioni, diritto di cura) non lo è più o è presumibile che non lo sia in futuro. Già le fasce più deboli della popolazione subiscono il peso del declino economico, ma anche la classe media inizia a impoverirsi.

Mentre cresce il fronte dell’insoddisfazione sociale, come detto cambia anche l’obiettivo degli strali popolari: non più l’immigrato delinquente e riottoso all’integrazione, ma i “poteri forti”, incapaci di gestire il sistema globale e le sue risorse finanziarie e tecnologico-ambientali (i ripetuti sversamenti di petrolio in mare e la recente catastrofe di Fukushima aggiungono un alone di inquietudine a un quadro già a tinte fosche). In ultima analisi, la pubblica opinione globale non ha dubbi sull’identità dei responsabili dell’instabilità che ci minaccia.

Tuttavia, è bene precisare che scagliare anatemi e additare nuovi capri espiatori (gli speculatori, i politici, le banche) serve a poco, se non a fomentare la rabbia sociale, a stressare pericolosamente i nervi già tesi della coscienza collettiva. Come ha insegnato lo straordinario e terribile ventesimo secolo, l’unica via per uscire dalla crisi complessiva che sta investendo il nostro mondo è cercare di comprendere, evitare semplificazioni e operare per il necessario cambiamento. Se le risorse economiche declinano, lo stesso non può dirsi per il capitale umano, sostenuto da un livello di istruzione e di accesso agli strumenti tecnologici senza eguali nella Storia. Il crescente bisogno di partecipazione e coinvolgimento nella sfera pubblica avvertito da una nuova generazione di ragazzi “costretti” a riscuotersi dall’apatia del benessere è la miglior speranza per il futuro. Una prospettiva che deve peraltro essere sostanziata dall’impegno di tutti. L’intelligenza collettiva, e non la cultura del risentimento, è l’unico antidoto efficace contro la cinica e disfunzionale irrazionalità che ci ha condotto all’attuale situazione.