Abstract – Educare al desiderio in tempo di crisi

 

Abstract dell’articolo di Jole Orsenigo “Educare al desiderio in tempo di crisi” apparso su EDUCARE AL TEMPO DELLA CRISI Pedagogika.it anno 2012 n. 4.

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Più di venticinque anni fa – da studentessa di filosofia – sono stata affascinata dal tema del tramonto dell’Occidente. Ho temuto l’avvento del nichilismo e ho visto nel crollo di tutti i valori tradizionali una perdita. Il che ha significato laurearsi in pedagogia intorno al nesso, di sapore heideggeriano, tra fine della pedagogia e oblio dell’educazione.

A quei tempi percepivo la necessità di un cambiamento radicale nel modo di pensare l’educazione. Annunciare la fine della pedagogia corrispodeva a denunciare l’estenuarsi del pensiero nei dibattiti, come se si dovesse o potesse davvero scegliere se stare da una parte oppure dall’altra della barricata: educazionisti o istruzionisti, a favore o contro l’insegnamento della religione o del sesso, per l’inclusione oppure l’esclusione delle differenze e delle abilità.

Sono passati molti anni dalla mia laurea. Mentre è cambiata la mia posizione da giovane adulta ad adulta non più così giovane, la crisi del mercato del lavoro non colpisce solamente i laureati in Lettere e Filosofia che in qualche modo si erano rifiutati di studiare economia oppure ingegneria, ma si estende e dilaga. Io, per la strada che ho scelto di percorrere, ho avuto un’esperienza tangenziale rispetto a quella che le generazioni successive alla mia hanno vissuto e stanno vivendo come la normalità: essere adulti ma non autosufficienti, avere interessi, capacità e qualche occasionale lavoro, ma non la stabilità di una professione riconosciuta e riconoscibile, avere una vita affettività ricca, ma non istituzionalizzata; in una parola vivere del presente senza alcuna ipoteca sul futuro.

Ho imparato, in questo tempo, che il desiderio è ciò che struttura l’esistenza di ognuno ma anche che questo stesso desiderio non è tutto nelle nostre mani: in parte ci guida, ci indirizza e ci tutela e in parte ci attraversa, ci sovrasta e ci gioca. Ho appreso, a mie spese, che dà più serenità essere in sintonia con la propria capacità desiderante piuttosto che negarla. Durante tutto questo tempo mi sono chiesta spesso però se sia possibile davvero desiderare, cioè spingere se stessi al di là dell’ora, quando non c’è tempo davanti a sé. Non sto parlando della finitezza strutturale all’esistenza, cioè dell’assumere il fatto che la vita sia sospesa alla morte, ma proprio della perdita di una tale esperienza (vitale).

Nel frattempo la pedagogia non è morta. Da pedagogista quale poi sono diventata, qualche volta sento come un rimpianto per l’occasione mancata: portare il pensiero all’altezza del proprio tempo. Se sul piano accademico la linea nella quale continuo a riconoscermi – il neostrutturalismo critico – è diventata ormai minoritaria, sento invece sul piano esistenziale una responsabilità maggiore. Il dovere, ma anche il piacere, di rendere testimonianza da adulta ai più giovani del fatto che sia possibile diventare grandi.

Non c’è orgoglio nell’affermare quello che resta oggi del passaggio tra generazioni; un bagaglio minimo. Niente di paragonabile alla grande tradizione. Né io, né nessun altro può essere di esempio, come affermma Massimo Recalcati. La fatica della separazione è la promessa di un domani di autonomia. Noi adulti di oggi siamo solo il risultato della possibilità di farcela in qualche modo. Molto poco rispetto al passato. Non il raggiungimento di una meta: sia essa il matrimonio, la maternità o il lavoro. Non la fine della crescita, ma la scommessa di essere sempre in formazione: malleabili, instabili, fragili o in una parola di successo, flessibili. Non più età adulta, ma – secondo il neologismo di Duccio Demetrio – adultità.

Credo che i giovani di oggi siano espropriati proprio della possibilità di vivere quell’esperienza di finitezza che restituisce spessore al proprio desiderio. Non vivono a partire dal futuro che li attende ma in un eterno presente; sono già morti senza aver mai vissuto. Per questo è così difficile attualmente rischiare e fare avventura, cioè educare. Non credo che i giovani oggi siamo meno ribelli di quelli di ieri; non credo che per troppo affetto o protezione non abbiano più la capacità di affrontare il nemico durante la loro sempre più prolungata adolescenza. Credo piuttosto che non abbiano davanti a loro una comunità di adulti pronta a fare iniziazione autentica alla vita. E se questa iniziazione non è più certo quella amministrata dai riti studiati da Van Gennep, non per questo deve abdicare alla sua funzione pedagogica.

È questo lo sforzo che i pedagogisti devono affrontare. Non si tratta di sceglire se stare dalla parte di una pedagogia delle regole oppure senza regole; occorre pensare insieme regole e desiderio oltre ogni rinnovato sadomasochismo pedagogico, secondo una felice espressione di Riccardo Massa.

Che cosa significa davvero educare al desiderio – come tutti andiamo dicendo – oltre il modello disciplinare tradizionale che impedisce, differisce o sublima il piacere oppure il modello tragressivo e contestatario che libera (poi da cosa?), intensifica (ma in che modo?) o si espone alla forclusione del godimento (per fare esperienza di che?), resta ancora da pensare.

Desiderio, piacere e godimento non sono la stessa cosa. Se Deleuze ha pensato il desiderio oltre ogni psicoanalisi della mancanza, il piacere lo ha pensato Foucault rispolverando l’antica pederastia greca, mentre l’ultimo Lacan si è sforzato di pensare il reale del godimento. È in questi scarti che c’è da pensare per noi pedagogisti.