Alcuni problemi preliminari ad un possibile discorso
Cercare
una definizione di handicap è un compito arduo se non vano. Gli ambiti di riferimento sono troppo vasti ed elastici, quasi si volessero mettere in primo piano con questo termine gli aspetti psicologici e sociali che accomunano queste persone.
Ma handicap significa anche svantaggio, quasi ad evidenziare le possibilità di un percorso riabilitativo. Handicap è anche una parola straniera, che connota una certa neutralità affettiva, tesa quasi a cancellare e scordare le parole che l’hanno preceduta. Uscire da questo campo intricato non è semplice, le sfumature morali che prima determinavano un campo rischiano di permanere rovesciate nel loro contrario. Nel bel film di Werner Herzog “l’enigma di Kaspar Hauser” le due facce della medaglia sono emblematicamente rappresentati: Kaspar è un selvaggio incapace, da rieducare, da reinserire, ma anche la prova vivente dell’esistenza dell’anima. Kaspar viene esibito come stranezza, e accudito, ma la sua irriducibilità, la sua estraneità sarà causa di una morte che fa tutt’uno con il suo arrivo nel paese, con la sua nascita alla civiltà. Lui, estraneo, di origini sconosciute, viene a mancare per mano di uno sconosciuto, solo sulla piazza come solo era arrivato. Così il portatore di handicap, ieri emarginato, oggi diventa oggetto di cure perché buono, ove il buono è totalmente speculare al cattivo di ieri, negato comunque come soggetto, ridotto ad una dimensione biologica che esaurisce gli ambiti di esistenza del soggetto: tutto è spiegato da questo campo, il corpo, la vita, la morte sono ridotti a quella spiegazione che gira intorno alla nascita, quando, e dove, tutto è successo. Ma probabilmente anche noi potremmo cadere in questa trappola linguistico-ideologica, se ci limitassimo a tenere in campo l’esecrazione morale e l’allarme, senza cercare un percorso analitico, meno forte forse, ma crediamo più utile a delimitare dei campi di comprensione del problema.
Procediamo cercando di individuare delle coppie antinomiche di termini, e poi delle antinomie tra coppie stesse, provando a verificare le incrostazioni ideologiche che ancora inquinano il linguaggio che possediamo, e quindi l’approccio che abbiamo verso l’handicap. Le prime due coppie sono quelle di uguaglianza-diversità e identità-differenza. Uguaglianza e diversità individuano un campo specifico attinente la problematica dell’handicap che è quello giuridico. Riaffermare l’uguaglianza davanti alla legge, vuol dire riaffermare il ruolo centrale del soggetto politico moderno come soggetto di diritto, includendo l’area delle azioni tese a promuovere l’esercizio di questi diritti, la loro valenza pratica e la tutela di soggetti non uguali sul piano delle possibilità.
Ma tutto questo è un lavoro e non un principio realizzato in astratto: implica l’individuazione di soggetti che fondino una politica di convivenza allargata, i percorsi per realizzare le possibilità di uguaglianza, gli equilibri tra attori sociali. Certo è un percorso non facile, e oggi insidiato dalla percezione che le risorse non sono infinite. Proprio questa percezione mette in pericolo le possibilità e rischia di confinare ancora nel silenzio i portatori di handicap. Ma sempre sul piano del diritto si gioca la richiesta di visibilità, di certezze che facciano uscire gli interventi di aiuto dal circuito puramente assistenziale per realizzare servizi adeguati e certezze di indirizzi. Ma questa coppia di termini, nel momento in cui si ritiene esaurisca il problema dell’handicap, si rivela ingannevole e foriera di grossi equivoci. Ci riferiamo alla sovrapposizione di identità ad uguaglianza e di diversità a differenza. Questa sovrapposizione porta a cancellare le differenze, a dare per uguale ed identico ciò che non lo è. Non è raro vedere in questa sovrapposizione una nobile motivazione ideologica, quasi che la volontà possa tutto, che l’amore, il voler bene possano annullare le difficoltà, salvo poi svelare la sua inadeguatezza quando l’altro resiste ai tentativi di cura e si sottrae mettendo in luce una alterità irriducibile, che sfugge al bene e ai tentativi di domarla. l’equivoco presente in questa prospettiva è quello di pensare che il campo giuridico sia esaustivo rispetto al soggetto, che la riaffermazione di principi risolva il problema delle differenze, che l’uguaglianza sia identità, che la socialità primaria (quella in cui si stringono rapporti interpersonali) sia ricoperta in modo esaustivo dalla socialità secondaria (quella che lega statuti e ruoli più o meno definiti istituzionalmente).
Si tratta di un’illusione coltivata anche da parecchi operatori, che fatalmente porta a disilludersi rispetto al lavoro, oppure a ripiegare su una sorta di rassegnazione quando la realtà non si piega alla volontà. Ma che cosa sostiene questa volontà, se non una riduzione o cancellazione del soggetto, prima negato in peggio, ora cancellato in meglio? Non stupisce allora che, pur con anni di lotta alle spalle, le battaglie sociali o le richieste alla comunità si ripropongano in modi quasi uguali: velata da una domanda di servizi vi è una domanda di riconoscimento, che viene elusa sia nell’uguaglianza che nella diversità. Incentrare la riflessione sulla coppia identità-differenza apre allora ad uno scenario nuovo, in cui la differenza possa essere accolta, e la parola dei soggetti (o l’assenza di parola o il silenzio dei soggetti) possa trovare luogo senza essere costretta a negare la differenza. Senza che la differenza si traduca in diversità, ma neppure l’identità si riduca a uguaglianza.
L’identità si costituisce quindi come svincolo centrale, che non coincide con la creazione di opportunità (anche se non ne vogliamo certo azzerare il valore), ma va oltre, come domanda di riconoscimento, di visibilità. Anche i genitori dei soggetti portatori di handicap, che spesso intervengono nelle battaglie civili, nelle loro domande alle istituzioni lasciano trapelare un desiderio di superamento dell’isolamento, isolamento che è una forma moderna di cancellazione, di non riconoscimento come esseri umani. Il fastidio che a volte è presente nelle risposte degli operatori verso i genitori si colloca proprio sul versante del non riconoscimento, del non cogliere questo aspetto dell’attivismo dei genitori. E’ un fastidio spia di una colpa, di un tradimento insostenibile, che il ricorso ai percorsi amministrativi o legislativi cerca di coprire di rinviare, quasi che il tempo possa cancellare una presenza disturbante, una domanda che non ha risposte, che si radica nel cuore stesso dell’esistenza, interrogandola come possibilità, come limite, come sradicamento dalla natura e dal biologico, per trovare la via di una umanizzazione che possa accogliere la sofferenza e il grido, per articolarlo in parola.
Comprensione-performance Assistenza-cura
Il secondo insieme di termini che prendiamo in considerazione è quello costituito dalle coppie comprensione-performance e assistenza-cura. La prima coppia individua uno sbilanciamento spesso presente nei percorsi riabilitativi, dove la comprensione sta dalla parte degli operatori, e la performance è a carico del soggetto handicappato. Il sistema di attese delle performance è costruito su una diagnosi delle abilità, che sigillano le possibilità del soggetto, consegnandolo ad una diagnosi che lo riduce a funzioni o progetta l’intervento dell’operatore come sostitutivo di funzioni mancanti.
Il comprendere del soggetto è negato in assenza delle funzioni, negando così la possibilità di funzioni sostitutive, la valorizzazione di abilità settoriali (credo che tutti abbiamo presenti alcune di queste abilità settoriali, che a volte sono dilatate, quasi a sostituire quel che manca, quasi a trovare percorsi alternativi). In questo percorso la performance si sostituisce alla cura, e l’assistenza alla comprensione venendo così a delimitare il momento dell’incontro all’interno dei confini che la scienza stabilisce. Non si vuol certo negare la consistenza, o, a volte, la supposta consistenza del discorso scientifico in questo campo (anzi, vogliamo sottolineare come talvolta si sia prigionieri di pseudoscienze), ma l’incontro con il soggetto non può essere conosciuto a priori, ma necessita di una centralità differente, altrimenti si rivela un incontro mancato, una ricerca di stimmate più che un percorso di conoscenza. La conoscenza non si esaurisce nella comprensione ma si lega con la cura, con il prendersi cura dell’altro. Anche in assenza di un sapere, si cerca di costruirlo a partire da quell’esperienza, e se sapere c’è, deve di necessità lasciarsi interrogare da quell’incontro, pena lo svuotarsi, il mostrarsi privo di potere pratico.
l’intreccio tra cura e comprensione, sovverte le coppie precedenti, permette di legare l’assistenza al sapere, di non vederla come rinuncia, come sconfitta davanti ai limiti, ma fonda una possibilità di cura, ne è la premessa, non la sua negazione.
Questo non va nella direzione di forzare arbitrariamente i limiti presenti, di negarli, perché in quel caso si cadrebbe nel campo delle pure performance. Si tratta di saper giocare con questi limiti, di non renderli alibi per ritrarsi, di non confondere le paure con i limiti stessi. Rischiare nel proprio lavoro quotidiano è a volte fonte di errori, ma sicuramente meno mortifero che una rinuncia immotivata, che copre la paura della propria impotenza. Logorante l’impotenza quotidiana che nel tempo porta ad estraniarsi, a dare per scontata l’assenza di risposta dell’altro; che porta ad azioni nel gruppo degli operatori, a rimandi sul piano immaginario, a identificazioni e controidentificazioni, foriere di dissolvimento di un gruppo di lavoro. Il rimando al sapere non suona allora casuale nel nostro lavoro, è una via d’uscita possibile a questa sconfitta collettiva, segna il rinvio ad altro, ad una possibile teorizzazione dell’esperienza, che puo anche portare a cambiare ambiti di lavoro, senza tradimento alcuno. Non vi è una causa da difendere, ma solo lavoro, come dimensione umanizzante di quella relazione. “La paura e la noia” erano le dimensioni che uno psicoanalista sottolineava come aspetti paralizzanti della relazione con il paziente. Paura come confusione con il limite; noia come perdita di riferimento al sapere, come sua negazione, magari esaltando la magia dell’incontro con il soggetto per non passare alla relazione, per fermarsi su un limite proprio confondendolo con quello dell’altro. Il concetto di limite e quello di performance ci rimandano a quelli di intelligenza, di mente, di corpo. Non vogliamo riproporre vecchie antinomie come quella mente-corpo (invecchiata: ci torneremo riservandoci di chiarirla in termini attuali in un altro lavoro), ma riproporre un termine di resistenza, che si incontra nel lavoro con questi soggetti. Sembra quasi che qualcosa sfugga, che se solo ci fosse… Spesso il qualcosa viene descritto come deficit intellettivo di origine ignota però quantificabile, misurabile, quasi che l’operazione di misurazione esaurisse l’interrogativo, permettendo di uscire da un imbarazzo. Oppure, opposto ma solidale, si avvia un percorso di riabilitazione teso ad annullare quel qualcosa, senza chiedersi come entra quel percorso nella vita del soggetto, se lui è il protagonista di quel percorso, oppure quel percorso è solo dalla parte dell’operatore. l’intelligenza, definita come proprietà globale, come somma di funzioni specifiche, che a volte non permette di cogliere come essa si modula in quel soggetto, salvo scoprire casualmente altre possibilità di percorso, che si intreccino con la sua presenza, che costruiscano intelligenza come capacità di cogliere le trame dell’esistenza. Che non può essere quantificata, ma può essere sostenuta dalla presenza e dall’attenzione.
Le misurazioni, i test, le prove hanno senso se convergono a cercare le possibilità di incontro, a valorizzare quel che nell’incontro si svela e rivela, non se servono a pietrificare un soggetto per conoscerlo in sua assenza, inscrivendolo in un campo del sapere che lo cancella, che lo riduce a corpo con funzioni e dimensioni misurabili, conoscibili in modo esaustivo. Ma l’illusione di questo percorso è sostenuta dalla riduzione ad oggetto dell’altro.
Schema corporeo ed immagine conscia del corpo
Questo ci porta ad un’altra coppia di opposti: quella tra schema corporeo ed immagine inconscia del corpo. Lo schema non è l’immagine, ma l’immagine è data dai gesti dell’altro, che nel prendersi cura segna una nuova geografia del corpo, un tracciato degli affetti che percorrono il corpo, lo strappano alla dimensione biologica introducendolo nello scambio con l’altro. Dimensione, questa, a volte persa nel soggetto handicappato, ma alla quale non si può supplire con la confusione tra immagine e schema, pena il perpetuare confusioni che rendono identico ciò che è differente, che scambiano l’uguaglianza con la costruzione dell’identità.
La costruzione ci rimanda al tempo, alle differenze che nel tempo il soggetto percepisce rispetto ad altri come scarto, come perdita, come accentuazione della differenza. Ma questo tempo della vita si interseca con il tempo familiare, con uno scorrere che lascia solo il soggetto.
Se il centro è solo la famiglia l’intersezione rischia di svelare in parte la sua incosistenza e le implosioni violente a volte divengono incontrollabili. Il riferimento ad un tempo della cura può fungere da regolatore, scandendo ritmi propri del soggetto, intersecando un tempo lineare con il tempo ciclico della cura, fatto di riprese, di ricorsi che accompagnano il tempo della famiglia e quello del soggetto.
Tempo, corpo, differenza, cura: parole che cercano di tenere in campo le difficoltà, fissando il loro riferimento nella clinica, nella ricerca clinica degli orientamenti, sfuggendo scorciatoie che il riferimento giuridico o quello sociale rischiano di occultare. Uno sforzo per cercare di dare senso alle esperienze, di fondarle e trovare in questa relazione il nesso con la teoria. Ci rendiamo conto di aver solo indicato problemi, ma già individuarli, cercare di circoscriverli senza ridurli è un passo necessario, dove forse possiamo trovare le parole e la possibilità di ascoltare, di imparare nell’ascolto, anche quando il silenzio rischia di ottenebrare le strade per giungere all’altro.
Non facili scorciatoie, ma sentieri accidentati in cui le cadute sono messe in conto e dove il tradurre non si trasformi in tradire.