Sono cambiate molte cose. Donne e uomini reinventano il presente educativo

 

Il 12 e 13 aprile 2014 si è svolto a Verona un incontro nazionale dal titolo “Sono cambiate molte cose. Donne e uomini reinventano il presente educativo”  promosso da diverse personalità del mondo della pedagogia della differenza sessuale tra cui Anna Maria Piussi, Antonia De Vita (Università di Verona), Alessio Miceli (Maschile Plurale), Vita Cosentino (rivista Via Dogana), Sara Gandini (Libreria delle donne di Milano), Salvatore Guida (Stripes cooperativa sociale Onlus) e Maria Piacente (Rivista Pedagogika).

Le due giornate si sono sviluppate attraverso interventi, riportati di seguito nella loro interezza, che hanno riflettuto sul disorientamento provocato dai cambiamenti che in questi anni sono avvenuti nelle nostre vite, nella scuola, nelle famiglie, negli ambienti formativi, in università, nei servizi, nelle relazioni tra donne e uomini, tra grandi e piccole/i.

L’esigenza era, ed è tuttora, quella di comprendere che cosa è in gioco oggi, rifare il punto delle esperienze e dei risultati maturati da donne e uomini nelle scuole, nelle università, nei servizi, nei territori e nelle “altre scuole” (libere università, redazioni, libere aggregazioni, sperimentazioni economiche, artistiche e sociali).

I promotori e le promotrici dell’incontro hanno voluto interrogare e rigenerare il presente educativo, riallargare l’orizzonte e le visioni, confrontarsi su possibilità e costruire inedite alleanze. Perché a uscirne vincente fosse la realtà dei legami, di uno sguardo amorevole sul mondo e di un senso rinnovato e potenziato della convivenza umana.

 

Prima traiettoria: Un mondo trasformato dalla libertà femminile

di Anna Maria Piussi

Questo incontro è stato promosso da un gruppo di donne e uomini che, pur in modi diversi,  sono da anni in relazione tra loro e in un movimento di trasformazione. La scelta di farlo in questo momento storico ha trovato conferma nella vivace partecipazione al laboratorio sulla pedagogia della differenza nell’Incontro femminista di Paestum dell’ottobre 2013. Lo dico a titolo personale, ma spero che questo auspicio sia condivisibile, esso rappresenta una tappa di un percorso che vorremmo continuasse, perché c’è molto bisogno di confronto onesto e appassionato tra persone che a vario titolo sono interessate a scuola, università, educazione, e in senso più ampio sentono la necessità di ripensare alla radice le forme del vivere in comune, desiderano esserci in una sfera pubblica da rivitalizzare insieme con altri sottraendola alla chiusure securitarie, individualistiche, alla mercificazione e all’interesse di pochi. E quando dico confronto onesto intendo il più possibile privo di orpelli ideologici che creano barriere tra diversità, e lontano da discorsi specialistici e burocratici che rischiano di cadere nell’astrattezza, perché eludono difficoltà e contraddizioni, ma anche ignorano possibilità già esistenti e imprevisti fecondi, insomma dimenticano quello che è il cuore pulsante della vita.

L’incontro intende rilanciare un percorso più lungo, di quasi trent’anni, di cui sono state protagoniste donne con la pedagogia della differenza sessuale, e successivamente insieme con uomini, nel movimento di autoriforma dell’università e della scuola. Un sapere dell’esperienza viva a partire dalle scuole, non sostituibile da nessun sapere esperto, si è venuto a creare nelle molte iniziative e negli incontri nazionali e locali in questi anni,
documentato in molte pubblicazioni e creazioni come il docufilm delle/sulle maestre “L’amore che non scordo”.

Il titolo di questo Incontro nazionale rimanda a tre nuclei interconnessi di riflessione. Il primo: i cambiamenti degli ultimi decenni nel cui vortice siamo tutte e tutti presi, con le frammentazioni e il disorientamento che conosciamo; il secondo: la politica delle donne e il femminismo della differenza, che punta sulla forza trasformativa della differenza di essere donne e uomini assunta consapevolmente e liberamente; e, terzo, l’educazione e la formazione come ambiti ed energie che concorrono a reinventare il presente, perché il presente sia un tempo vivo e abbondante di beni che contano davvero per una convivenza più umana e felice.

Pur non ignorando costrizioni e ostacoli al nostro fare scuola, fare università, essendo anzi consapevoli che stiamo cercando ogni giorno di fare scuola e università al nostro meglio nonostante i lacci e laccioli posti dai responsabili e decisori che dovrebbero invece facilitare e sostenere il nostro compito, riteniamo poco interessante unirci al coro di lamentele sulla crisi delle istituzioni educative. Preferiamo invece far leva su pratiche, linguaggi e visioni già guadagnate o da inventare, con le quali procedere con fiducia e con un certo orientamento nei contesti in cui siamo, e avendo anche la capacità di guardare a un orizzonte più grande.  Uno degli obiettivi di questo incontro è proprio condividere sapienze già maturate, confrontarci su intuizioni e aspirazioni alle quali altre e altri possano aiutarci a dare consistenza e realtà.

E abbiamo allargato lo sguardo a quanto si muove nella società più in generale, a come ci muoviamo noi stesse/i, in un tempo di disinvestimento della politica istituzionale ma anche di risveglio di energie e desideri di singoli e gruppi. Abbiamo assunto perciò sotto il nome di “altre scuole”, creazioni sociali esterne a scuole e università propriamente dette, ma che con queste interagiscono fecondandole di nuovi saperi e di pratiche politiche vicine ai desideri e all’esperienza soggettiva delle persone sensibili alla necessità di una nuova qualità del vivere comune. Mi riferisco a esperienze di gruppi e libere aggregazioni, presenti nei territori (anche il nostro territorio veronese), che inventano economie diverse da quelle capitalistiche (des, gas, agricoltura sociale ecc.), modi diversi e conviviali di abitare e vivere le città (rete delle Città vicine), di utilizzare creativamente e con la forza delle relazioni di fiducia spazi cittadini dismessi o privatizzati rivitalizzandoli come beni pubblici (come Teatro Valle a Roma, Macao a Milano), luoghi in cui si produce e si fa circolare cultura sessuata come librerie, redazioni di riviste, cooperative. Sono contesti in movimento, laboratori in cui si impara e ci si forma nello scambio, ci si trasforma trasformando la realtà, e si punta all’essenziale di ciò che serve per una convivenza desiderabile. Le loro elaborazioni teorico-pratiche derivanti da un pensiero che definirei cooperativo e sperimentale, politicamente implicato, sono preziose, perché aprono a nuove visioni, decostruiscono il mito del potere neutrale della tecnica e dell’oggettività scientifica, mettono sottosopra le gerarchie codificate dei saperi, spiazzano il modello consumistico e utilitaristico dell’apprendimento/insegnamento basato sulle competenze e conoscenze richieste dal mercato o da un presunto progresso che ci porterebbe tutti a competere meglio e più in fretta, essendo questo l’ideale della Knowledge Society.

Una novità, certo non assoluta, è la presenza di uomini anche in forma associata, con l’adesione di MaschilePlurale a questo Incontro. Uomini che stanno ripensando il loro essere educatori o insegnanti a partire dalla loro parzialità e soggettività sessuata assunta consapevolmente: parteciperanno in particolare Alessio Miceli, Marco Deriu, Giacomo Mambriani. Sono da molti anni coinvolti in percorsi comuni di riflessione e di ricerca per ridefinirsi liberamente rispetto ai paradigmi storici e circolanti di virilità, e sono interessati a comunicare anche ai più piccoli, ai più giovani modi più liberi di essere maschi, e nuove e più libere relazioni tra i sessi, ciascuno nella sua singolarità in un cammino di ricerca comune. E’ questo un procedere educativo e politico, un insegnamento da grande a piccolo fatto di testimonianza vivente e quotidiana, che a mio avviso è un antidoto molto più efficace di tanti programmi calati dall’alto al fenomeno di cui tanto si parla, la violenza maschile sulle donne.

Uomini in trasformazione: così vediamo padri che si coinvolgono sempre più nella vita scolastica e quotidiana dei figli e delle figlie. E alcuni lo fanno anche ascoltando la parola autorevole delle donne, i saperi femminili della cura e dell’educazione, sperimentando nuove modalità di esserci a partire da sé e mettendo al centro la relazione viva con i più piccoli, e ricavandone, dicono, piacere e senso. Rispetto a un passato recente, registriamo in generale una partecipazione spontanea più viva dei genitori alla vita della scuola, una nuova alleanza con le/i docenti, non priva di conflitti, nella quale non di rado sono i genitori a spingere per  soluzioni più avanzate e all’altezza dei cambiamenti sociali e simbolici avvenuti negli ultimi anni. Salutiamo con favore questa nuova presenza maschile, perché c’è bisogno del concorso di entrambi, donne e uomini, certo in un’ottica di libertà rispetto ai vecchi schemi e anche di riconoscimento del fatto che donne e uomini portano competenze e desideri diversi nello scambio con figli e figlie, bambini e bambine.

In questo Incontro penso perciò sia interessante destrutturare il costrutto vigente “genitori”, che non distingue tra madre e padre, un costrutto molto in uso nei servizi, tra gli addetti ai lavori, e nel discorso pubblico. Un discorso pubblico oggi sempre più incline all’indifferenziato, alla neutralizzazione della differenza uomo/donna e delle differenze. Pensiamo ad es. alla recente decisione di amministrazioni scolastiche e locali di usare la dicitura genitore 1 e 2 nei documenti ufficiali, nel tentativo di adeguarsi ai cambiamenti sociali e alle nuove tipologie familiari (famiglie omogenitoriali) senza incorrere nel pericolo di discriminazioni, in nome della correttezza politica. Quella che è stata definita da un osservatore “inutile parità dei genitori” non è un caso isolato, ma è emblematica della attuale tendenza a neutralizzare, a uniformare e perfino a standardizzare sotto numeri spersonalizzanti le differenze, perché di fatto non si sa come trattarle, e si preferisce evitare la fatica delle mediazioni. Ma sotto l’indifferenziato spariscono le storie singolari, i soggetti reali e le relazioni affettive che fanno tessuto familiare, qualunque esso sia. Le differenze reali e le relazioni sperimentate perdono senso e valore, non servono per comprendere più profondamente la realtà e per muoverla in una direzione diversa, verso una nuova civiltà di rapporti. Il linguaggio è un potente produttore ma anche modificatore della realtà, perciò cerchiamo di lavorare sul come nominare le cose e combinarle insieme in nuove nominazioni che corrispondano alle nuove configurazioni della realtà. Invito dunque a parlare di madri e padri, e di mamme e co-mamme quando è necessario, perché la parola ‘genitori’ cancella la differenza sessuale, oscura la differenza di essere madre e padre anche in modi diversi dalla tradizione eteronormativa,  e mortifica la ricchezza di una presenza differentemente sessuata accanto bambine e bambini, ragazzi e ragazze.

Bambine e bambini, che, stando alle testimonianze autorevoli delle maestre e madri, sono in qualche modo più avanti di molti adulti nel registrare i cambiamenti nel rapporto tra i sessi, e, in condizioni favorevoli, riconoscono la differenza tra maschi e femmine come differenza di soggettività, instaurano relazioni di amicizia, di collaborazione e di rispetto, senza prevaricazioni.

È interessante segnalare queste novità, in una società che si ostina a inseguire e a imporre la parità di genere con politiche ad hoc, progetti, corsi di formazione e di educazione al genere, interventi dall’alto e fuori contesto, per garantire, come ci chiedono i vari organismi europei e internazionali, il riconoscimento di uguali diritti e equità di trattamento a tutte le preferenze e identità sessuali. Di recente si è acceso un dibattito a seguito del blocco, da parte del sottosegretario Miur, al programma Unar contro le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e identità di genere “Educare alle diversità a scuola” voluto dall’ex ministra Carrozza, in analogia con una proposta di legge francese sull’obbligo di educare all’uguaglianza fin dalle scuole dell’infanzia.  Il programma del Miur fu subito avversato
da gerarchie e settori cattolici e ha suscitato parecchie polemiche. Proprio in questi giorni una parte del femminismo italiano, accusando l’Italia di ritardo rispetto ad altri paesi considerati più evoluti, difende il programma Unar e rilancia l’appropriatezza della categoria del gender, sotto il cui ombrello possono trovare pari legittimazione tutte le varietà di espressione e forme di identità sessuale. E’ possibile sottrarsi a tale garbuglio di posizioni e controposizioni incistato nella cultura dei diritti e della parità e fare ordine simbolico? Penso sia possibile, producendo tagli in questo groviglio con il fare spazio e orizzonte alla vera posta in gioco, quella della libertà.  E farlo prendendo sul serio la scuola come spazio di responsabilità educativa a tutto campo, che comprenda nelle attività ordinarie e quotidiane, in forme semplici e senza particolare enfasi o sforzi programmatori, l’educare a una libera significazione della differenza sessuale, da parte di donne e uomini che hanno a cuore la propria libertà e quella delle e  dei più giovani, per un di più di  senso e di felicità per tutti. E far valere al posto dei diritti il linguaggio delle relazioni, trovare mediazioni più sensate e più semplici (non semplicistiche!) che puntino sugli scambi in presenza, contestuali e relazionali, coinvolgendo anche le famiglie e l’intorno culturale delle bambine e dei bambini. Mettere la legge e i diritti al posto del desiderio, della consapevolezza e della spinta soggettiva significa privarci della forza vitale per il cambiamento cercato.  Applicare programmi fatti da altri, per quanto raffinati siano, ci esonera dall’impegno a immaginare e praticare le necessarie mediazioni in contesto. E’ quanto avvenuto con i ripetuti tentativi di modificare per legge i libri di testo nel senso del superamento della discriminazione femminile, della parità uomo-donna, con il progetto Polite; sta avvenendo all’Università di Bologna con la creazione di un corso sulla violenza di genere obbligatorio per chi vuol laurearsi, o con i ripetuti inviti al ministero di modificare i programmi di insegnamento con l’introduzione di figure e saperi femminili. Molte di noi qui presenti abbiamo imparato, grazie alla condivisione con altre e alla forza del desiderio, a prendere l’iniziativa a partire da noi, a trovare le mediazioni  per esserci come donne che insegnano e in quello che insegnano. Abbiamo trasformato in modo libero il nostro rapporto con i saperi e le discipline accademiche, producendo pensiero e saperi autonomi, attingendo secondo le nostre preferenze e passioni alle elaborazioni culturali femminili ormai ricche e numerose, e filtrando con la nostra libera soggettività le produzioni maschili del passato e del presente, senza bisogno di aderire a progetti istituzionali di parità, che anzi sarebbero stati di ostacolo, e non di rado questa libertà ha contagiato anche studentesse e studenti, con un guadagno di intelligenza e di agio per tutti.

Moltiplicare la mole delle conoscenze al posto della necessaria presa di coscienza, adottare prontuari pronti all’uso al posto della fatica e del piacere di costruire relazioni che aiutano a cambiare e a trovare parole e gesti appropriati, significa rinunciare a pensare, e ancor prima al sentire. Significa in definitiva rinunciare a quella sapienza che si radica nell’esperienza e da cui è possibile estrarre il senso giusto, perché contestuale e relazionale, di ciò che accade o può accadere nelle singole situazioni, con effetti di cambiamento che  aprono un orizzonte più grande. E significa stare in un mondo che ignora la nostra soggettività e delegare le proprie scelte e decisioni a quelli che Ivan Illich chiamava “esperti di troppo”, sopravvalutando le competenze costruire altrove e da altri, e rendendo superfluo il sapere dell’esperienza personale costruito relazionalmente. Il risultato è un deprimente senso di inutilità e di depersonalizzazione, sentimento piuttosto diffuso nelle istituzioni scolastiche e formative sia tra gli adulti sia tra i più giovani quando non si sa rispondere al bisogno tutto umano di esserci in prima persona con un senso che ci corrisponda e di partecipare in relazione libera con altre/altri al ricrearsi del mondo. Come stare nel vortice dei cambiamenti attuali con un orientamento sensato e senza abbandonare la ricerca di felicità? Come muoversi all’altezza delle trasformazioni portate dalla libertà femminile? Sono tra le questioni che desideriamo considerare in questo Incontro.  Penso che la sapienza delle maestre, di cui e con cui ci parlerà ora  Maria Cristina Mecenero, possa già indicarci pratiche significative e orientamenti utili.

Noi siamo qui

di Maria Cristina Mecenero

Parto dal titolo che abbiamo dato all’incontro nazionale di oggi: sono cambiate molte cose. Per me si tratta di una traiettoria per guardare dentro i nostri giorni. Sono molto in accordo con questa affermazione e con l’idea che per le donne questo sia un buon momento.

Nel mio discorso toccherò alcuni dei temi annunciati nell’invito: l’educazione di genere, gli stereotipi, il cuore pulsante del cambiamento: la nostra libertà, come si sta dispiegando. Fin da subito cercherò di portarvi dentro il cambiamento, per quello che intravvedo io. Per farlo ho bisogno di raccontare. I racconti del cambiamento, così li ho chiamati: perché è rilevante per noi qui e, più in generale, descrivere ciò che ci sta capitando e aprire nuove visioni del momento in cui siamo.

Ho scelto una stralcio di una conversazione del mese scorso, avvenuta in classe, una quarta elementare, per discutere di alcune parole – grassa, obesa, idiota – che circolavano da un po’ di tempo e facevano stare male soprattutto le bambine, ma non solo. Infatti c’era anche “lo scaccolatore”, che soffriva, e c’era quello non brillante a calcio, soffriva pure lui quando altri glielo facevano notare; erano in compagnia di una “nanetta” e di una “secchiona”. “E poi qui tra noi c’è un modo di prenderci in giro che a me proprio non va”, dice un altro commuovendosi, “prendono in giro i gay e gli handicappati. E il migliore amico di mia madre è gay”. Alza la mano un bambino dal fondo dell’aula, figlio di una collega: “Il mio padrino è omosessuale”. Poi interviene il bambino che si è aggiunto quest’anno, proveniente da un’altra scuola milanese: “Anche il mio”. Io aggiungo che ho amiche omosessuali. L’educatrice presente chiude: “Io convivo con due ragazzi omosessuali”. In classe ci sono due bambini adottati, tre giunti recentemente da altri paesi, figlie/i di separati che condividono l’affidamento, alcuni senza strappi. Noi siamo qui, in questo movimento di libere esistenze.

La mia è una scuola primaria della periferia di Milano. E’ una popolazione in movimento reale quella che la abita. In classe abbiamo una campana tibetana, abbiamo l’incenso, libri d’arte, giochi: tutto portato in regalo piano piano da bimbe/i. Dimensioni spirituali e creative aperte da loro, in tempi non sospetti rispetto al mio movimento di portare la meditazione in classe. Anzi: io l’ho portata per risonanza con loro e con il gruppo di maestre di cui faccio parte, Maestre in ricerca e in movimento. Io vedo maschi e femmine che creano tra loro intense vicinanze amicali e collaborative, che fanno ordine nella classe a vari livelli, anche nel senso che si dedicano insieme a tenere in ordine, a partecipare alla vita organizzativa. Chi si “prende cura” è maschio ed è femmina. Si sentono orgogliosi/e di dire: l’ho messo a posto io. Vedo i maschi stringere amicizie tra loro come non mi è mai capitato prima. Scrivendo dei loro padri in un testo, hanno dato la pagella, prendendo in esame molte attività paterne (mi aiuta nei compiti, inventa soprannomi, fa arrampicata con me…); compare anche la materia: cucina. Con voti alti.

Vedo che le forze femminili sono al lavoro differentemente ma con un preciso obiettivo: farsi sentire. Gli andamenti delle conversazioni sono rivelatori: in una delle classi in cui lavoro sono decisamente le bambine a governare i dialoghi e i maschi le ascoltano con attenzione e intervengono dopo. Nella classe in cui sono i maschi a condurre, se le cose prendono un andamento troppo piegato sui loro gusti, una o due bambine sono capaci di ripotare l’ago della bussola sulla loro differente prospettiva. Quando non lo fanno loro, chiedo io di esprimersi, per avere il polso e fare sentire la mia attenzione vigile e interessata. Il movimento all’esserci delle donne si sta giocando in grande, in continui rimandi: una madre mi ha proposto un laboratorio di fotografia sulla scia dei lavori realizzati da Cindy Sherman, fotografa statunitense, conosciuta per i suoi autoritratti. Ci aveva visto lavorare con i ritratti di
Frida Kahlo e Tamara de Lempicka. Nella mia esperienza vedo madri e i padri che sono in cambiamento. Talvolta molto più “avanti” di quanto ci si aspetti.

Un altro racconto per dirvi come i padri sono in movimento. Sono presenti ai colloqui, soli o con le loro compagne/mogli a raccontarci, ragionare con noi e ad ascoltare delle loro figlie, dei loro figli. Non tutti, ma certamente non si tratta più di colloqui tra maestre e madri e basta. Tengono laboratori in classe in cui si espongono, stanno in una dimensione di scambio con le bambine e i bambini che a me pare anche un apprendistato. Recentemente uno di loro è venuto a parlarci di comunicazione, lo fa di mestiere, e ci ha parlato del fatto che sempre comunichiamo, con tutto di noi. E che lui si emoziona spesso, a partire dal tramonto che ogni volta lo chiama a sé e lo fa commuovere. Un bambino delle nostre classi alla fine gli si è avvicinato e gli ha detto: io voglio diventare come te. Io chiamo i padri a portare ciò che sanno fare per vari motivi: ho la certezza che sia il momento, che la pagina l’abbiamo già voltata e ciò che va scritto verrà meglio a due mani. C’è bisogno di uomini che si prendano cura delle giovani generazioni, ci sono uomini che ne hanno il desiderio e pure molti bambini. Non si tratta solo di “fare” presenza. C’è altro: un desiderio nuovo. Compagnia, condivisione, sguardi diversi, possibilità: nella scuola che sto facendo questa dimensione è aperta, a disposizione.

Accanto io ci metto il mio agire per una consapevolezza più lucida, luminosa, di speranza. Con le parole, con le iniziative. Abbiamo organizzato un ciclo di incontri, in un oratorio del quartiere, con madri e padri, perché potessimo parlarci della nostra relazione con bambine e bambini, mettendo a tema il nostro essere donne e uomini che portano differenti sguardi nello scambio con l’infanzia. Ho invitato Alessio Miceli a esserci, specificando che, oltre a essere un insegnante di scuola superiore, fa parte dell’associazione Maschile Plurale. E che il suo essere uomo dava a modo ai padri di confrontarsi con un punto di vista maschile. La premessa era che nessuno di noi, nemmeno Alessio, era l’esperto. Eravamo lì per quel desiderio di parlarsi che le colleghe e io avevamo sentito nelle assemblee di classe, poche e sempre piene di troppe cose da dire. E ci riprendevamo in quel modo il ruolo di comunità non neutra che insieme pensa/sente/ragiona. Una comunità fatta di donne e uomini che hanno a cuore figlie e figli in crescita. Fuori da scuola ci eravamo per agio e visibilità, la nostra infatti è una scuola appartata in un parco. E comunque questi movimenti, di fare entrare padri e madri e di uscire noi per una riflessione condivisa, rispondono a un intento preciso: praticare e intensificare il legame tra di noi e tenere la scuola in una connessione con il territorio e continuare a farla essere territorio di incontri e scoperte, di esistenze e racconti. Con l’importanza che si dà a un mercato piuttosto che a una via laterale e chiusa. Io sono andata agli incontri con un profondo desiderio di ascoltare, cioè di sentire come madri e padri avrebbero significato le loro esperienze, parlando di sé, e non dei bambini e delle bambine. Con narrazioni vive e mature, Alessio ha portato la sua esperienza con ragazze e ragazzi e le sue riflessioni sulla libertà di uomini e donne. Abbiamo anche ragionato intorno alle regole, sono state due madri a condurci su questo terreno: che senso hanno o possono avere per noi che le stabiliamo, da genitori e da insegnanti, e in che rapporto le mettiamo con il desiderio che bambine e bambini diventino se stesse/se stessi e cioè possano potenziare le corde che suonano meglio in loro. Si è aperta così la riflessione sulla possibilità, sempre presente per ciascuno di noi, di sottrarsi al già detto, fatto, stabilito; sul senso buono della disubbidienza. Abbiamo esaminato e compreso perché i bagni della nostra scuola sono divenuti per le bambine e i bambini, più che in altri periodi, luoghi di sperimentazioni acrobatiche e giocose, non senza danni, passando attraverso i racconti delle nostre infanzie, più libere di sperimentarsi in vari luoghi della città o della campagna, e più libere dagli occhi degli adulti. C’è molto che si può intrecciare in modo nuovo con le donne e gli uomini che abbiamo a fianco nei contesti più comuni: donne e uomini presenti agli incontri hanno narrato di sé, ragionato, ascoltato ed è evidente che qualcosa sta lievitando.

Chiudo qui i miei racconti del cambiamento per mettermi in rapporto con qualcosa che sta capitando in Italia da alcuni anni. Molte iniziative all’insegna della differenza di genere nelle scuole sono state avviate con uno spirito diverso, cioè con l’intento di educare al genere. In quest’ottica le/gli insegnanti non conoscono (contenuti, che vuol dire scrittrici, artiste, scienziate ecc.), non sono (libere), hanno la mente piena di stereotipi. Ho in mente alcune iniziative nell’arco degli ultimi due anni: i convegni in Bicocca (Educare le bambine) e a Roma (Che genere di programmi). “Il progetto Alice”, portato avanti dall’università di Bologna, dà questa precisa indicazione: le insegnanti devono essere accompagnate da un esperto per la progettazione curricolare. Quest’idea si ritrova più sviluppata ancora nell’assunto secondo il quale “non sono le iniziative dal basso a poter cambiare le cose”, “perché la cultura di genere passi deve essere supportata e anzi introdotta dal Ministero”, tutte affermazioni circolate durante il convegno a Roma. L’anno scorso a Torino, Anna Maria Piussi e io abbiamo partecipato a un altro convegno, Educazione al senso libero della differenza maschile-femminile. Le insegnanti presenti erano trecentocinquanta. Mattinata in un teatro: le relatrici sul palco, le insegnanti in platea. E’ uno spettacolo. Effettivamente lo è. Io lo chiamo il dramma dell’azione passivizzante. Gli interventi del pubblico previsti per le 12, slittano a un’ora dopo e possono essere fatti solo sotto forma di domande o commenti scritti su bigliettini che poi vengono letti e, a seconda della relatrice a cui sono rivolti, riceveranno risposta. Perché parlo di dispositivi e scene? Per mettere a tema ciò che in quei dispositivi si rischia di schiacciare, si rischia di offuscare, continuando per esempio ad accorciare/azzerare il tempo dei dibattiti e degli scambi, a porre energie e attenzione alle immagini da decostruire, al non sapere delle insegnanti. Alla base del mondo trasformato c’è la libertà reale delle donne e il cambiamento degli uomini. Nelle forme che prende, nelle visioni che apre. Già in atto quindi è la trasformazione delle relazioni, ed è ora che riguardi anche quelle pubbliche e considerate “formative”.

In gioco è la nostra libertà, perché la stiamo praticando, tutte. La libertà dipende e indipende da noi. E’ uno stato, simbolico e materiale. Per me significa tornare spesso a chiedermi di che libertà sono capace io, nella mia vita e quindi anche a scuola. Sono tutti lavori in corso, dentro di noi e fuori di noi, sui quali abbiamo molta possibilità di azione, sapendo che per tutte si tratta di scommesse ed esperimenti che si giocano sul terreno dell’incontro con altre e altri. La libertà non si può manipolarla pensando “io ne ho di più e tu di meno”. E non è indifferente come si lavora per essa. Se per sostenere/amplificare la libertà femminile, se per scardinare paure e timori, che pure continuano a coesistere con il nuovo che avanza, scegliamo formule vecchie (convegni, lezioni frontali, esperti/inesperti) potrebbero essere raggiunti risultati ben differenti da quelli che speravamo. De-scolarizzare la società, scardinare l’istituzione che è dentro di noi: sono piste da tenere attive. Altrimenti si generano/generiamo dei paradossi: pensate a una donna, insegnante da tanti anni in un’aula, a cui viene comunicato che lei non è esperta di differenza. Eppure lei è la differenza. Pensate all’idea che la vera e risolutiva mossa sia che il Ministero con una legge imponga la presenza delle donne nei programmi di letteratura, storia, filosofia, arte. Per legge: qui significa per forza. Non per amore, per desiderio, per un cambiamento profondo dell’orizzonte in cui poniamo i saperi. Leggi e libertà stanno in rapporto, certamente, ma non necessariamente.

Sullo stato dei programmi scolastici e degli stereotipi io dico che nelle scuole primarie, legge o non legge, il problema dei programmi si pone, ma nei termini che dice Chiara Nerozzi, una delle Maestre in ricerca e in movimento: basta far frequentare la letteratura infantile direttamente e il mondo cambiato entra in classe immediatamente. Molti libri sono scritti da donne, illustrati da donne, ideati da donne in coppia o individualmente in serie che prevedono protagoniste bambine o ragazze. Quindi, caso mai, bisogna scegliere se lavorare puntando sugli stereotipi presenti nei libri di testo, oppure riparlare delle chance a disposizione, l’adozione alternativa
del testo per esempio, che può essere sempre praticata dalle scuole, e individuarne di nuove. Per il resto: tutto o quasi dipende da noi perché la libertà di insegnamento prima di tutto è nelle nostre mani, è sancita ancora dalla costituzione ed è effettivamente praticabile. Ma, obiettano alcune, percorsi didattici assistiti sono necessari. O, dico io, è necessario rilanciare il dibattito e il ripensamento, la narrazione e lo scambio su ciò che si fa, si può fare. E rimettersi a pensare ai modi in cui coltivare la nostra consapevolezza intrecciandola al meglio con quella di altre/i. Rilanciando l’idea della politicità della nostro ruolo.

Io sono convinta che la scelta dei contenuti e delle attività è secondaria alla libertà che si agisce, anche inconsapevolmente, attraverso il nostro modo di essere, di fare accadere le cose. Per questo pensare che la lotta agli stereotipi sia il fulcro è fuorviante: tutto si sta muovendo, anche a una certa velocità, noi stesse, bambine e bambini, le famiglie, gli uomini che si incontrano, si parlano e pensano a come fare per allargare il confronto con altri uomini, come sentiremo oggi pomeriggio. Bambine e bambini, ragazzi e ragazze stanno continuamente creando e ricreando immagini, e quindi anche visioni inedite della realtà, in quantità e qualità che mai ci eravamo immaginati possibili.

C’è quindi una questione aperta, che vorrei porre qui oggi a voi. E’ evidente che le molte iniziative diffuse nelle scuole sulla differenza di genere stanno rispondendo a un bisogno: alla chiamata a questi corsi di formazione le insegnanti rispondono a centinaia e la tendenza che va per la maggiore è a costruire percorsi didattici. Ma: il potenziamento della nostra capacità di agire in libertà per generare altra libertà, da dove passa meglio, come meglio prende forma? D’altronde penso anche che in uno scambio tra donne formatrici e donne insegnanti passi molto di più di ciò che viene ristretto nello schema classico di un’unità didattica e dal vecchio linguaggio/orizzonte di pensiero che porta con sé (obiettivi, metodologia, verifica). Eppure la questione è da porre. Dall’altro lato: noi che abbiamo idea di un altro andamento abbiamo intenzione di intraprendere iniziative che coinvolgano gruppi di insegnanti? Oppure: le cose sono in movimento, anche per via della stessa libertà delle donne – insegnanti, educatrici, madri, ricercatrici universitarie, appartenenti a varie associazioni – e più di tutto quindi vogliamo tenere aperto il confronto e il dibattito e inventare occasioni e forme di incontro/percorso?

Sul tema degli stereotipi, porto una mia riflessione, condivisa con Luisa Muraro. Recentemente ho scoperto di averne uno: avevo un’avversione pregiudizievole verso le riflessioni condotte in ambito formativo incentrate sugli stereotipi. Durante uno degli incontri di Maestre in ricerca e in movimento abbiamo calorosamente dibattuto, a partire da una esperienza di Paola Massaro e Rita Croci, supervisore al tirocinio all’università di Urbino. Avevano lavorato con le studentesse sull’idea di maschio e di femmina. Io avevo criticato la loro impostazione dell’attività, le altre non erano d’accordo con me. Parlando con Luisa, per provare a uscire dalla contrapposizione, ne ho ricavato molto. Quella degli stereotipi è una questione cruciale e delicata perché si tratta di una modalità umana di interpretare le cose. D’altronde gli stereotipi possono inchiodare le bambine (e i bambini), certamente; ma sono le stesse bambine anche a crearli: la preferenza per il colore rosa non tramonta. La differenza difende se stessa con gli stereotipi. Il vero problema da tenere a mente è la tentazione alla neutralizzazione della differenza, l’essenziale essendo il significarla. Una sorta di doppio legame ci lega quindi a essi: la lotta contro i pregiudizi è l’asse del pensiero critico ma noi non possiamo ragionare senza avere i pregiudizi. Utile è vedere se e quali sono gli stereotipi malefici. Guardo alle attività centrate sugli stereotipi in altro modo ora, ma di mio continuo a preferire con le bambine i bambini, e anche con le adulte e gli adulti, la costruzione alla decostruzione.

Una chiave per stare nel cambiamento l’ho trovata nelle parole di Etty Hillesum: “Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e con la millanteria che maschera la paura”. Sento un po’ di disagio a citarle, dato che le ha usate in un momento storico in cui la libertà è stata ostacolata con gli esiti drammatici che conosciamo. Eppure lo faccio, perché penso che la libertà sia sempre in bilico, cioè sia sempre un limite e un senso che ci interroga; la presenza nostra di donne che sono anche lavoratrici negli ambiti formativi ha bisogno di essere guardata e riguardata attraverso questo sguardo. Le nostre forze migliori: su questo piano c’è molto da rilanciare io credo. Io ho accesso alle mie forze migliori grazie alle Maestre in ricerca e in movimento, grazie al percorso che ci ha condotto qui oggi, a relazioni con uomini in cambiamento, e soprattutto alle donne che ho incontrato in questi anni che mi hanno sostenuta e valorizzata. E queste – la valorizzazione, il sostenere, il rilanciare – sono chiavi potenti da usare noi ora con generosità.

Maestre in ricerca e in movimento è per me un luogo concreto e simbolico di forza liberante, autorizzante, sostenente. “Io sto qui radicata all’essenziale con altre maestre. Ci diamo forza noi”, detto in poche parole, è ciò che vivo con le altre da quattro anni. Siamo dodici maestre, veniamo da varie parti di Italia. Ci spinge e ci guida il desiderio di felicità: meno di così non si fa niente in questo mondo e nemmeno a scuola. Nella nostra impresa cerchiamo di investire ciò che c’è di speranza, sogno, desiderio. Manteniamo un senso grande di ciò che facciamo pur nella crisi; prendiamo slancio, ci chiariamo idee e torniamo nei nostri contesti dove le iniziative si stanno moltiplicando (a Bologna, a Verona, a Urbino, a Milano). Scegliamo la narrazione come modus operandi, perché sappiamo che il discernimento si esercita con le narrazioni invece che con schemi teorici, perché l’esistenza umana è piena di ombre e ambiguità. Ci siamo scelte, liberamente. E liberamente andiamo avanti. Nel tempo abbiamo sentito chi coltiva la spiritualità come un nostro alleato. E alcune di noi hanno scelto di praticare la meditazione con le bambine e i bambini. La ricerca più profonda è a vivere bene, sempre, quindi anche a scuola, tenendo aperta la dimensione della verticalità, per come la intendiamo noi, donne per lo più laiche. Ricordando ciò che non si dice quasi più nelle politiche formative: “ciò che è bene spiritualmente è bene da tutti i punti di vista, sotto tutti gli aspetti, in ogni tempo, ogni luogo, in ogni circostanza” come scrive Simone Weil. Mettendo in gioco il corpo, l’immaginazione, le nostre più vitali energie, in un’ottica di interdipendenza con la Terra e con tutti gli esseri viventi.

Torno alle scelte che possiamo fare: Anna Maria Piussi nell’89 lanciava l’idea di prendere sul serio le bambine. Oggi, per come la scuola si sta declinando, traduco questo invito con due interrogativi. Li intendo come lenti di ingrandimento della nostra postura nella quotidianità. E li intendo dentro una prospettiva che ha un preciso taglio: farsi trasportare dal meglio che c’è in noi e intorno a noi.

Riusciamo a sentire che bambine e bambini, ragazze e ragazzi ci chiamano alla libertà e vediamo cosa ci portano di nuovo? Io sto aprendo sempre più gli occhi sul potere dell’infanzia e su quello dell’istituzione scuola, con un’organizzazione sempre più stringente, obbligante. Scelgo di affidarmi più all’infanzia, allo spirito che porta.

Per me significa, per esempio: giocare con le parole, con gli errori, con gli accadimenti; ridere e sorridere molto; fare con le mani usando molti materiali e moltiplicare le ore di arte; essere mobili nello spazio e nel tempo (cambiare spesso aula, andare lenti, non farsi guidare da ansie e preoccupazioni); agire con il corpo: teatro, meditazione, libertà di andare a scrivere in corridoio o in altri piani della scuola, di sedersi per la lettura libera ovunque sia comodo e dia la possibilità di concentrarsi; divertirsi con ciò che capita, a partire dalle stranezze individuali e dalle capacità individuali di vedere altro in quel che c’è; fare insieme: a coppie, in gruppo; fare esperimenti di tutti i tipi, ovvero pensando a tutto come a un esperimento che se va bene siamo felici, se va male, ci riproviamo e intanto abbiamo scoperto qualcosa;
seguendo le passioni e i filoni che temporaneamente si accendono e trasportano, come un gran vento celeste direbbe Anna Maria Ortese. Scegliendo di dire: “andiamo a giocare”, invece che “andiamo a lavorare”, prima di iniziare un’attività di italiano: per stare nella energia infantile e divina. Curando il linguaggio quindi, con assertività – penso al doppio plurale oramai molto in uso sia nelle classi sia nei documenti – e in modo che sia potenziante il meglio e il bene che c’è.

E noi adulte ci prendiamo sul serio (ma non troppo!) e ci facciamo mediazione di ciò che viene dal genio femminile? A scuola io, sempre più liberamente, mi faccio accompagnare dalla Szymborska, faccio studiare a memoria le sue poesie, faccio indagare il cielo, i sogni e la pietra attraverso le parole della poetessa polacca, lei, Emily Dickinson, la Pozzi, la Merini, creo libricini di aforismi come faceva Ada. E comunque uso tutto, ma tengo sempre accesa la sensibilità mia, e anche la loro, su ciò che fanno e hanno fatto le donne, mettendone a disposizione le creazioni. Non prescindo ormai da tempo dalle mie frequentazioni con le artiste: il mio punto di partenza è ciò che amo delle loro produzioni. Sono anni che seguo Frida Kahlo, Artemisia Gentileschi, Berthe Morisot, Tamara De Lempicka, Carla Maggi. Sono azioni alla mia portata, con cui tengo il filo delle mie passioni e del desiderio di condividere la ricchezza umana prodotta, come oramai sappiamo, non solo da uomini. Oggi è facile: ad aiutarci ci sono tanti materiali (testi, mostre, iniziative) e c’è la rete, quella reale delle relazioni che abbiamo e continuiamo a creare, e quella virtuale, che ci tiene fluttuanti su immensi tesori.

Seconda traiettoria: Nuove geografie relazionali di donne e uomini in educazione

di Sara Gandini

Nonostante io sia una ricercatrice, appassionata del mio lavoro, responsabile di progetti internazionali che mi portano spesso all’estero, ho scelto di fare anche la mamma. Come riuscire ad essere una professionista ed un madre, e farlo con soddisfazione, lo devo al sapere che ho acquisito alla Libreria delle donne di Milano. Un luogo di autorità femminile che mi dà forza ovunque vado, incluso il mio posto di lavoro, inevitabilmente segnato da dinamiche di potere maschile. Di fatto la pratica dell’autocoscienza mi ha permesso di guadagnare maggiore consapevolezza rispetto al mio desiderio, al mio modo di stare nel lavoro e con mia figlia.

Con la nascita di mia figlia è infatti iniziato un profondo lavoro su di me. Mi faceva scoprire edizioni impreviste di me stessa e aspetti curiosi della realtà, che vista con i suoi occhi si trasformava. Fin da piccola andavamo insieme a teatro, ai musei, giocavamo, ballavamo. Mi divertivo, anche perché nell’infanzia mostrava una libertà stupefacente nell’illuminare il mondo. Fin da bambina per lei il mondo femminile aveva un valore grande. Era sempre incinta di 3-4 bimbe, ed era convinta che sarebbero stati i maschi a partorire i maschi. “Un giorno guardando il cielo mi chiese: «Mamma nel cielo non ci sono altre ‘lunine’ perché sono tutte nella pancia della mamma luna, vero?». Un’altra volta guardando le anatre in un lago rifletteva fra sé: «Mamma anatra non c’è perché sarà al computer…». E in ascensore commentava: «come siamo fortunate mamma, che le ascensori sono femmine!»” (da “La luna e le lunine”, L’ombra della madre, di Diotima, Liguori 2007).

La trasformazione che è avvenuta grazie al femminismo (grazie alla libertà che le donne si stanno prendendo) è così grande che, se da una parte una bambina di cinque anni ha già consapevolezza del valore della propria differenza, dall’altra un insegnante a Paestum, il convegno nazionale femminista del 2013, sottolineava che “oggi sono i ragazzi ad aver più bisogno della differenza maschile, sono loro ad aver bisogno di sapere chi sono”.

Sempre a Paestum Laura Colombo invitava a “non essere schematici perfino nella lotta agli stereotipi, perché i bambini e le bambine attraversano tante fasi di crescita e di ricerca per capire chi vogliono essere, anche rispetto al fatto di essere maschi e femmine, e questo loro percorso va seguito con cautela e attenzione senza preconcetti su principesse e cavalieri”. Non si tratta quindi di ridurre la critica agli stereotipi, in quanto riduttivi, ma di affrontare i nodi della crescita in modo meno semplicistico, interrogandosi sul filo che corre tra lo stereotipo e la ricerca che bambine e bambini hanno la necessità di fare, in quanto esseri sessuati che si muovono in un mondo profondamente mutato dalla libertà femminile.

Ora mia figlia ha 12 anni e la pre-adolescenza la porta a ricercare una sua individualità lontana da me, con sfide nuove che mi attendono, anche rispetto alla sua ricerca sul suo essere femmina, come me. Ma la relazione con lei è stata e continua ad essere una grande scuola, che mi ha imposto interrogativi profondi sul senso del mio muovermi nel mondo, dal lavoro alle relazioni, e che mi ha permesso di vedere e mettere alla prova lati di me nascosti: il senso di un vincolo per la vita, il senso di onnipotenza che si scontra con i segnali del corpo, invenzioni sempre nuove per affrontare conflitti creativi che non si limitino alla punizione, giocarsi l’autorità senza paura di ferire. Tanto che spesso dico che mia figlia mi ha messo al mondo.

Se ci diamo questa occasione, lo possiamo verificare tutti: la relazione con i bambini sa stupire, permette di imparare molto su di sé e sulle potenzialità e sugli scacchi delle relazioni, al di là dei preconcetti su cui spesso ci basiamo nell’interpretare i comportamenti dei bambini.

Luisa Muraro in «Il lavoro della creatura piccola» (ed. Mimesi 2013) sostiene che la bravura delle maestre dipende dal fatto che i bambini sono ancora capaci di fare quello che facevano da piccoli, quando hanno trasformato una donna nella loro madre. Le maestre in sostanza beneficiano della genialità infantile nel chiedere e nell’aspettarsi il meglio da parte della persona adulta di cui hanno bisogno.

Io penso però che la marcia in più delle maestre, rispetto ad esempio ai professori, dipenda anche dallo scambio più vicino con le mamme, oltre che con i bambini. Più si va avanti con i livelli scolastici e più i rapporti tra la scuola e i genitori si allentano, i professori sollecitano meno uno scambio personale con madri e padri, se non nei casi gravi. Alle medie da mia figlia alcuni professori hanno chiesto esplicitamente ai genitori di rimanere distanti dal percorso educativo scolastico del proprio figlio. Da una parte questa richiesta nasce dall’esigenza sacrosanta di ragazze/i di rendersi sempre più indipendenti. Dall’altra ci parla anche di una difficoltà dei professori a relazionarsi con i genitori. Eppure la scuola ha bisogno della collaborazione dei genitori. A parte l’aiuto scolastico di cui di fatto i ragazzi hanno necessità, i genitori a scuola vogliono esserci e sono molto vivaci. Vogliono portare idee e progetti, sapendo dare credito all’idea che la scuola è intimamente legata alla società e alla politica.

Inoltre le scuole hanno bisogno dell’aiuto economico dei genitori, che per gli istituti superiori rappresentano la fonte principale di finanziamento. I genitori, con le varie iniziative che promuovono a scuola, riescono a comprare le lavagne multimediali, le stampanti, i computer, a pagare le lezioni di sostegno per chi ha bisogno…

Mia figlia frequenta la scuola media Rinascita di Milano, una scuola sperimentale che dagli anni ’70 punta sull’idea di Scuola-Comunità e sull’importanza della collaborazione di insegnati, genitori e ragazzi. Ho scelto questa scuola anche per la passione che madri e padri portano, promuovendo diverse commissioni da quella dell’Editoria, all’Orto didattico e alla Commissione Alimentazione. D’altra parte molti genitori lamentano una scarsa collaborazione con le e gli insegnanti che vorrebbero partecipassero di più agli eventi da loro promossi e mostrassero un maggiore desiderio di scambio. E in parte hanno ragione. Un po’ per mancanza di tempo e per burocrazie che irrigidiscono, gli insegnanti faticano a trovare spazio per le sollecitazioni di madri e padri, che in effetti spesso portano richieste alte.

Tuttavia sono capitate occasioni che hanno riattivato il mio desiderio e permesso di rimettere in circolo energie, convincendomi che la scuola sia un grande laboratorio di politica. Penso ad esempio ad un evento successo quest’inverno, che mi ha spinto a scrivere lettere pubbliche a professori e genitori, per mettere in parole un disagio, che poi ho scoperto era diffuso
tra madri e padri con cui in seguito ho parlato. La preoccupazione era nata dal fatto che la preside ha chiamato i carabinieri durante l’orario scolastico, per trovare in flagrante dei ragazzini che scambiavano droga. E’ stato un momento di grande confusione e ansia , che è stato trattato in modo ipocrita e debole da parte della dirigenza, con lettere separate per i ragazzi e i genitori. In quelle dei genitori si parlava di ‘droga’ in quella per i ragazzi la parola droga era scomparsa e si parlava solo di regole. Nulla si è detto degli eventi precisi che erano capitati e dei passaggi che hanno portato a questa scelta. Fortunatamente noi del gruppo Scuola-Comunità siamo riusciti a promuovere una serie di iniziative nelle classi permettendo ai ragazzi e alle ragazze di mettere in parole il disagio e le paure, lavorando sull’assertività, il senso di responsabilità… E una mamma criminologa, in collaborazione con i professori, ha invitato un adolescente carcerato di Bollate a raccontare ai ragazzi delle terze la sua esperienza. Per i ragazzi è stato un momento importante, perché la narrazione in prima persona, specialmente da parte di chi è poco più grandi di loro è spesso molto coinvolgente. Si è trattato di un esempio di buona mediazione, promosso prima di tutto dalle insegnanti e da alcune madri, che ha contenuto e modificato di segno decisioni di corto respiro, prese dall’alto, con un progetto di lungo periodo. In questa situazione le insegnanti, in particolare, hanno mostrato apertura e intelligenza e la loro azione è servita a far rientrare un’azione di autoritarismo, promuovendo una nuova soluzione alla traiettoria aperta dalla dirigente.

E qui arriviamo all’ultimo punto su cui mi piacerebbe discutere con voi. Prima di tutto mi piacerebbe cominciare a ragionare sul ruolo dell’autorità delle maestre e dei maestri, delle madri e dei padri, e di quanto questa diventa potere.

Maria Zambrano nel suo saggio Per l’amore e per la libertà, scritti sulla filosofia e sull’educazione (ed. Marietti 2008), parlando dell’arrivo del maestro/a in classe, scrive che «tutto dipende da ciò che accade in quell’istante che apre la classe ogni giorno; tutto dipende dal fatto che, nel confronto tra maestro/a e alunni, il maestro non rinunci trascinato dalla vertigine. Quella vertigine che assale quando si sta soli, su di un piano più alto del silenzio dell’aula». «E non si difenda neppure dalla vertigine, aggrappandosi all’autorità stabilita», e quindi al Potere.

Mi piace questo racconto perché pone al centro la questione del sapere come elemento fondamentale ma rischioso, perché l’autorità può irrigidirsi facilmente in «autorità stabilita», e perdere le potenzialità di crescita che dà l’autorità relazionale.

Questo si traduce di fatto in imposizioni drastiche e soluzioni veloci per risolvere i conflitti, e di fatto sottrarsi dalla fatica della relazione, con posizioni che vanno dal genitori amico-complice, a quello che si affida a minacce e ricatti, e professori che per fare ordine si limitano a dare note, verifiche a sorpresa e voti irrecuperabili.

Mi piace ricordare che invece nell’autoriforma della scuola hanno coniato un’espressione evocativa: minimo di potere e massimo di autorità. Si tratta di invitare a pensare a relazioni che non si basano su imposizioni dall’alto, gerarchie e regole astratte.

La scuola è in effetti un interessantissimo laboratorio, che ci regala grandi occasioni di riflessione, diventando uno dei luoghi politici per eccellenza.

Così Zambrano scrive che la vocazione del maestro, come ogni vocazione, è per essenza mediatrice, soprattutto in senso sociale, tra individuo e società.

Ma anche gli studenti stessi possono funzionare da mediatori. Luisa Muraro racconta che per lei funzionavano da mediatori rispetto all’università in cui insegnava, permettendole di andare oltre la sua immagine dell’istituzione dell’universitaria impregnata di Potere, segnata da gerarchie, maschilismo, regole assurde che immobilizzano tutti gli entusiasmi.

Secondo Zambrano ogni essere umano che crea e che fa qualcosa è mediatore iniziando dal fatto più comune e diffuso di avere figli e allevarli. Padre e madre sono i mediatori per eccellenza, dice Zambrano, perché portatori di una vocazione che lega l’individuo alla società. Una mediazione essenzialmente politica direi io.

Ma non sempre è semplice. Nella mia esperienza di madre la relazione con mia figlia ha assunto un’intensità tale che ho sentito di correre il rischio di chiudermi in una relazione senza mondo. Una delle reti di salvataggio è stata proprio la mia curiosità e la passione politica, che mi ha portato lontano da lei. La Libreria delle donne, la politica e il lavoro sono stati fondamentali. Certo è stato molto impegnativo riuscire a tenere assieme la scelta della maternità con il desiderio di fare politica e un lavoro di soddisfazione. Nella mia esperienza ha fatto la differenza anche la presenza costante del padre di mia figlia, che ama fare il padre, e questo aspetto è stato fondamentale per non farmi mettere in trappola dai sensi colpa e trovare il modo per gestire tutto. Tra l’altro vedo che anche a scuola di mia figlia sempre più uomini scoprono interessante fare i padri e non vogliono più rinunciare a questa dimensione relazionale per la carriera.

Rispetto al coinvolgimento, per forza o per amore, dato dalla vicinanza giorno dopo giorno a tante esistenze in evoluzione, una maestra mi raccontava che anche per loro non è facile «parare il colpo dell’intensità in cui ci si trova immersi per via dell’incontro quotidiano con ragazze e ragazzi». Così mi chiedo se non sia il momento di rimettere al centro la questione che nell’insegnamento, come in tutti progetti politici e d’amore, stare in relazione è fondamentale. E che le relazioni esigono molte energie.

Saper vedere la propria libertà.

di Alessio Miceli

Parlo come uomo in educazione, con altri e con altre, su due linee della mia vita.

Uno è il percorso di Maschile Plurale, un’associazione di uomini con cui lavoriamo sulla maschilità a partire da se stessi, sul senso di essere uomini e sulle relazioni con le donne, attraverso tutti i cambiamenti che ci sono stati. Questa riflessione maschile ha una ricaduta importante anche sul versante educativo.

L’altro versante è l’insegnamento di materie sociali, diritto ed economia, nella scuola superiore. Vengo da Sociologia a Scienze politiche, che ho scelto per passione ed entusiasmo verso le persone, la socialità, motivazioni che mi hanno poi portato negli anni ’90 all’insegnamento.

Oggi vorrei toccare alcune questioni che mi stanno a cuore nella relazione educativa, anche in dialogo con l’intervento di Sara Gandini.

La prima è che in questi ultimi anni il lavoro della differenza mi sembra sempre più importante nel maschile. La libertà delle donne e il loro avanzamento nella società, che si manifesta in tante forme e contesti, si vede in opera anche nella scuola: per esempio nel successo scolastico di tante ragazze, a fronte delle maggiori difficoltà dei ragazzi. Ovviamente ci sono anche ragazzi brillanti ma è chiaro, guardando ai grandi numeri, che c’è stato un cambio di segno. E poi c’è una sorta di “obbligo alla trasgressione”, come lo chiama Stefano Ciccone, quasi una difficoltà a stare nel contesto che però non diventa una forza, una capacità di cambiamento. Mi sembra più un elemento di disorientamento che ha a che fare con quello dei padri.

Quindi il lavoro che riguarda la differenza di noi maschi mi interpella da uomo a uomo e da adulto a ragazzo. E’ un importante lavoro di relazione, che credo debba riportare il senso profondo delle relazioni di differenza, dell’essere uomini oggi a fronte della nuova libertà delle donne. Quanto ciascuno di noi maschi considera questa libertà dell’altra come una minaccia alla propria, o invece un’opportunità di vita più ricca anche per sé?

Più in generale, vivo la relazione educativa rispetto a quella fascia d’età come una salvezza. La radicalità della relazione educativa mi tiene vivo. Quanto più si rilancia e si scommette su quella, tanto più per me prende forma il pensiero, il sentimento, quella stessa relazione. Quindi non mi comporta un rischio di burnout,
di richiamo eccessivo. Anzi, più ce n’è e più si va lontano, si vola.

Ritengo poi che il lavoro educativo sia di per sé fortemente politico, nel mettere in gioco (o negare) per le nuove generazioni delle relazioni significative, di crescita umana e culturale e di ripensamento della nostra società. Tuttavia bisogna vedere quanto noi insegnanti, con i nostri diversi percorsi di uomini e donne, cooperiamo per questo, quanto leggiamo e costruiamo il senso politico della scuola.

Dunque mi muovo attorno a questi punti: la differenza maschile, l’essere uomini in educazione e quanto l’educazione stessa alla sua radice, consapevolmente o meno, sia una forma di politica in cui possono accadere delle trasformazioni culturali profonde.

Provo a raccontare delle brevi storie, pratiche educative che ho vissuto come interno o esterno all’istituzione: quindi come insegnante, oppure come uomo che entra nelle scuole con un progetto. C’è un confine, neanche tanto sottile, tra il lavoro educativo interno o esterno rispetto all’istituzione della scuola pubblica statale oggi.

Vorrei poi individuare delle parole chiave che dicano qual è la posta in gioco, cosa mi sembra vivo, attuale e cosa posso fare in questo contesto delle relazioni educative oggi.

E d’altra parte mi interessa capire cosa abbandonare, cosa lasciarmi alle spalle. Perché mi sembra che la libertà di donne e uomini consenta anche di riconoscere il negativo. Anzi, quanto più c’è libertà, tanto più possiamo ammettere e riconoscere senza eccessiva paura che ci sono relazioni negative da esplorare e di cui, eventualmente, liberarci. Per esempio, ricordo che la comunità filosofica di Diotima ha fatto un gran lavoro su questo tema, con il suo testo La magica forza del negativo.

Storie.

Mi è capitato di essere chiamato da alcune scuole, come uomo appartenente a Maschile Plurale, per lavorare sulla relazione tra i sessi e soprattutto sulla violenza maschile contro le donne.

Come facciamo da anni nella nostra associazione, ho cercato di scavare sotto la superficie e quindi di non parlare dell’atto violento in sé ma delle relazioni quotidiane che possono degenerare in violenza, secondo l’antica cultura maschile del dominio (fortunatamente non l’unica). Ma senza rimuovere il negativo, è vitale parlare anche della positività che pure esiste nelle relazioni, quindi sollecitare il racconto, le storie che già esistono appunto di libertà delle ragazze e di una cultura maschile diversa dal dominio nei ragazzi, capace di rispetto e di convivenza con l’alterità. Insomma, non è solo questione di contrastare gli stereotipi (che pure si incontrano a non finire, queste rigide rappresentazioni maschiliste del “come dev’essere un uomo” e “come dev’essere una donna”) ma anche sganciarsi da quelli e mostrare la ricchezza, la forza, la libertà delle relazioni che sono già in atto.

Così sono arrivato a intitolare questo progetto: “Altre relazioni sono possibili. Contro la violenza maschile sulle donne”. E per mostrare una relazione positiva di differenza, oltre che parlarne, siamo un uomo e una donna a tenere questi tre incontri con ragazzi e ragazze di scuola superiore o ultimamente di scuola media, in cui si gioca, si raccontano storie, si discute. Dalle loro rappresentazioni emergono poi una serie di cose, di oggetti simbolici.

Forse per prima, pensando in particolare alla fascia della scuola media, emerge la differenza tra maschi e femmine, spesso naturalizzata. Un ragazzo ad esempio dice: “Gli uomini hanno un carattere più forte delle donne” e alcune ragazze gli rispondono: “Chi te l’ha detto? Ci sono state anche donne ribelli nella storia, però non si potevano ribellare”.

Oppure viene fuori l’importanza dei gruppi come luoghi di grandi amicizie dove trovare sostegno, vicinanza, ma anche di grande conformazione, compattezza del gruppo contro il diverso. E si parla della difficoltà, per i maschi, di rompere questa alleanza del gruppo contro il diverso ma anche della possibilità di farlo assieme ad altri, di iniziare a parlare con altri per modificare una situazione.

Il diverso può essere chiunque non abbia gli oggetti che fanno status, oppure la ragazza che ricorda di essere stata attorniata da un gruppo di dieci ragazzi che l’accerchiano, la spintonano e lei si sente “morire, come trafitta da coltelli che sono quelle voci irruente e quegli occhi e quelle mani addosso”. E questa cosa la racconta anni dopo che le è successa, quando era alle scuole elementari.

Quando poi si apre il varco della fiducia, che consente anche di confliggere, “di dirsele” civilmente, ragazzi e ragazze parlano anche di sessualità. Per esempio, i ragazzi parlano del valore che per loro ha ancora la verginità delle ragazze e del disvalore che attribuiscono alla propria verginità. E tra le righe dei loro racconti si intravede quella partita tra maschi, sia per l’affermazione di sé (attraverso la prestazione sessuale) sia per il possesso dell’oggetto del desiderio (la ragazza vergine cioè non appartenente ad altri), quella competizione tutta maschile che bisogna superare per accorgersi che in gioco c’è anche l’altra, la ragazza, come soggetto di un altro desiderio. Pure con delle nuove aperture, per tanti ragazzi è ancora una lunga strada quella della libertà sessuale intesa come relazione di due soggetti, due sguardi, due desideri.

Infine, noto che sia i maschi che le femmine parlano molto di relazioni con gli adulti, della nostra presenza o assenza e della diversa relazione con madri e padri. Parlano di quanto le regole del mondo adulto su di loro hanno o non hanno un senso. Parlano comunque della nostra importanza nelle loro vite.

E ad ascoltarli davvero con tutto me stesso, mi rimane il senso della loro profondità e sete di conoscenza delle cose che sentono vicine alla propria vita, un gran desiderio di parlare che è già una pratica di molte ragazze ma circola come bisogno anche tra i ragazzi. Molte e molti alla fine del percorso ringraziano per questa possibilità di parola che hanno avuto e anche in questo si coglie il loro desiderio di orientamento, di scambio con adulti significativi sia del proprio sesso che dell’altro (dove si attivano processi diversi). In tutto questo, io vedo la loro disponibilità a riconoscere un’autorità ben al di là dei soliti sermoni sulle regole, lì dove si giocano dei contenuti che sembrano loro vitali.

Dove siamo più in generale noi uomini rispetto a queste domande di ascolto e di parola soggettiva, sulle questioni importanti del vivere? E dov’è in particolare l’istituzione educativa?

Personalmente, nel mondo della scuola e dell’educazione ho incontrato sia donne che uomini che, con i loro diversi percorsi, per me sono state figure di orientamento a cui ho liberamente riconosciuto autorità; anche se questo è avvenuto in una più generale cornice di ritiro, di latitanza maschile rispetto al mondo dell’educazione, a fronte dell’entrata di molte donne.

Invece la mia impressione della scuola pubblica come istituzione, pensando a come conosco la scuola superiore da insegnante, è quella di una sua parola molto distante da quella soggettiva e dai saperi vicini alla vita individuale. Come se la scuola dovesse fare altro: gestire le materie, i programmi, le valutazioni come meccanismi di conoscenza oggettiva che girano su se stessi e a cui le persone debbano adattarsi.

Al contrario di questa finta oggettività del sapere, di questi meccanismi di riduzione delle coscienze, per esempio nell’insegnamento del diritto io mi sono dato il vincolo di non partire dal testo di legge ma piuttosto di aprire la discussione su uno spaccato di società che richiede una legge oppure non la vuole e perché. Per poi arrivare a ciò che la legge ha risposto: una delle tante risposte possibili, magari neanche la migliore. Questa libertà che mi prendo è tuttavia in lotta con il linguaggio ordinario della scuola e la sua idea della conoscenza.

E’ lo stesso linguaggio a cui vengo richiamato da quel liceo classico in provincia di Milano dove, invitato a tenere un incontro sulla violenza sessuale, ho facilitato la discussione e sono intervenuti anche molti ragazzi, maschi, riguardo il proprio immaginario sessuale. Non è facile esporsi su questo tema, il loro linguaggio diventa schietto e a volte anche crudo, in presa diretta con l’esperienza (la coppia, la discoteca, la pornografia, la prostituzione) e vedo una comunità di
adolescenti fare un passo oltre nel discorso pubblico, lì dove non osano andare i loro adulti di riferimento. Infatti la coordinatrice di quest’attività, che avremmo dovuto portare in diverse scuole, mi scrive successivamente che aveva molto apprezzato la conduzione dell’incontro e l’alto livello di partecipazione, ma che mi doveva richiedere dei cambiamenti. Perché il liceo in questione “avrebbe gradito un’esposizione disciplinare più rigorosa del tema, cioè una lezione con elementi di storia e di diritto, possibilmente con i profili psicologici delle vittime e degli autori di violenza, nonché un linguaggio formale adeguato ad una istituzione scolastica di alto livello”. L’istituzione, appunto, che contrappone la pietra tombale delle sue materie consolidate al linguaggio vivo dell’esperienza e soprattutto, mi pare, a una ricerca di verità (anziché mettere al servizio di questa i propri linguaggi disciplinari). Non si sa mai, che poi scopriamo qualcosa di perturbante o di trasformativo.

A proposito, poi, del rapporto dell’istituzione scuola con i genitori e con la comunità circostante, racconto altre due storie.

La prima riguarda la madre di un mio alunno che, avendo saputo delle mie attività riguardanti le relazioni tra uomini e donne, mi chiede di pensare a degli incontri nella scuola e come si potrebbe fare con i finanziamenti. Io le dico che non servono soldi ma, dal momento che lei è in consiglio d’istituto, basterebbe farsi assegnare uno spazio, far sì che la scuola si apra nel pomeriggio senza costi aggiuntivi, nelle ore in cui c’è già il personale non docente. Meravigliata e soddisfatta di questa possibilità, lei mi dice: “Ma è così facile? E come mai nessuno ci ha mai pensato o non l’ha fatto?” ed io le rispondo: “Perché non è facile. Vedrà, quanti ostacoli: la sicurezza, le responsabilità, i moduli, la vigilanza…”. Infatti la combinazione non riesce. Le necessità del territorio, sbandierate dalla scuola dell’autonomia, possono attendere.

La seconda storia è che nella mia scuola è morto un ragazzo, Dario, di 16 anni, per aver fatto quattro tiri da uno spinello tagliato male. La reazione mediatica è stata la peggiore possibile. I giornalisti volevano sapere quanti ragazzi “drogati” avevamo, dove stava la droga, se l’ambulanza fosse arrivata in tempo, eccetera. Anche di fronte a questo trattamento, la dirigenza della scuola si era completamente chiusa all’esterno, quando in cinque colleghi e colleghe abbiamo proposto che la scuola si aprisse, che facesse un’assemblea aperta al territorio. Ci hanno detto che eravamo matti, che ci avrebbero massacrato. In assemblea ci sono state circa 600 persone a discutere della morte di Dario e di noi che restavamo senza di lui, della circolazione in quel posto – come in tanti altri – delle droghe, di cosa passava o non passava nello scambio tra le generazioni. Sono venuti anche i genitori del ragazzo. Abbiamo aperto noi insegnanti “matti”, anche con un grande sostegno esterno (Vita Cosentino, don Gino Rigoldi e altre/i), poi sono intervenuti i compagni di classe, le amiche e gli amici, le bidelle anche in qualità di madri. Alla fine, ricordo la stretta di mano di un padre che se n’è andato dicendo: “E’ stato un bagno di umanità”. Ecco, non bisognerebbe aspettare una morte perché un luogo come quello venga attraversato da tutte le sensibilità, i pensieri e le vite che vi ruotano intorno.

Parole.

Adesso, cosa è in gioco in queste storie, in particolare dal punto di vista maschile? Provo ad estrarne delle parole chiave.

C’è una questione legata all’autorità maschile, cioè: quale autorità maschile riconosciamo, differente da quella che sta nell’ordine del dominio? Ricordo che Chiara Zamboni diceva, in un incontro a Verona di qualche anno fa, che l’autorità è quell’elemento che può orientare le persone in un incontro, cioè rimettere altre forze in circolo verso una direzione che prima non era stata pensata. Per quanto riguarda noi uomini in educazione, mi tornano in mente dei riconoscimenti di questo tipo. Per esempio Mario Lodi, il maestro che tanti anni fa si era già messo ad altezza di bambino, e altri uomini che hanno segnato una strada diversa da quella del dominio, mi indicano una nuova forma di autorità maschile in questo campo e una genealogia per me importante del mio essere uomo, quanto dall’altra parte lo sono le relazioni di differenza con le donne che mi orientano.

E’ una forma di autorità non fissa ma circolante, capace di ascolto e di accompagnamento della soggettività. E’ questo esserci ed essere riconosciuto liberamente senza doversi imporre nei percorsi educativi.

Poi c’è la questione dei saperi: quali sono quelli essenziali per la vita? Rispetto a questo ambito, molto coltivato dal pensiero delle donne, è appunto vitale che nella produzione dei saperi si generi un discorso sempre più situato anziché astratto, che metta le radici nell’esperienza. E che sia un discorso cooperativo, costruito in relazione con altri e altre perché questo è valore aggiunto alla propria vita, anziché un discorso competitivo, gerarchico, selettivo che svilisce la vita individuale, inseguendo un progetto di società mortificante.

Anche in questo campo trovo importanti le relazioni di differenza e poi ritrovo dei percorsi di uomini nella mia stessa linea maschile, per esempio il movimento cooperativo e altri modi di saper stare al mondo con altri e altre, che parlano il linguaggio della con-vivenza.

C’è anche una questione relativa al controllo dei corpi, i tempi schiacciati, le misure, gli standard, le certificazioni date dall’esterno. Come se la scuola non fosse nemmeno più in grado di fare la misura di sé, di sapere cosa contiene, di conoscere il suo valore.

Si tratta comunque di quella valutazione che è funzionale ad un ordine in cui ci sarà il primo della classe e l’ultimo, socialmente destinati a dei percorsi molto diversi, sostanzialmente come con il doppio canale degli anni ’50. Peraltro, sotto il nome di merito, questa stessa idea di valutazione risale oggi anche verso noi insegnanti e verso le scuole per differenziarci, ma sempre sulla base delle stesse risorse stracciate.

Per ultima, ma forse per prima come leva di trasformazione personale e politica, rimane la questione dell’eros nella scuola, nella convivenza. L’eros come elemento di desiderio, di gioco, di piacere, legato al fatto di essere lì insieme. E’ quella forma di desiderio che mi fa sentire appartenente a qualcosa, a qualcuno in un legame, la situazione dell’essere con altri. Da questo punto di vista la scuola è un luogo che rispecchia un tempo difficile ma è già un luogo di tessitura sociale, di legami, un luogo di libertà… a condizione di saperla vedere. E’ importante riconoscere che in certi suoi momenti, in alcune sue storie e saperi, la relazione educativa è già questo. Quindi io credo che alla fine sia in gioco il proprio sguardo, di donne e di uomini. E’ in gioco la nostra capacità di non nascondere il negativo, non rimuoverlo ma rimetterlo in gioco per una trasformazione.

Terza traiettoria: Contesti e pratiche che generano saperi e nuove visioni

All’università

di Antonia De Vita

Insegno all’università a persone giovani e adulte che il sistema universitario tenta di trasformare o ha trasformato in “bambini e bambine grandi”. In questi anni sono stati precipitati processi  avviati da tempo; tra i vari esiti riscontriamo una infantilizzazione e passivizzazione dei nostri studenti e l’ esperienza di un’università che troppo poco ancora attiva processi di apprendimento nei quali viene abbattuta una disparità sterile tra chi sa e chi non sa, tra posture di corpi e relazioni che richiamano troppo spesso il vecchio ma non ancora superato schema superiore/inferiore, di corpi inchiodati a banchi, menti ammutolite da posizioni poco creative, occhi spenti da una scena prevedibile che non chiama e non interpella, che non coinvolge perché non ha bisogno di loro.

Ci si lamenta della passività degli studenti e delle studentesse ma da come sono fatte le aule, al modo di proporre la didattica, si scoraggia la partecipazione e la possibilità di coinvolgere effettivamente le persone giovani. Chi come me fa una didattica attiva e partecipativa passa come
una sperimentatrice! Viviamo in un sistema pedagogico lasciato senza l’autorità della vecchia pedagogia con il nuovo del mercato, viviamo pienamente in una “pedagogia del capitale”.

Ieri si è parlato di stare nelle istituzioni educative con più libertà. Io vorrei, per introdurre le altre scuole, fare una piccola premessa. Le istituzioni educative per molto tempo sono state autoreferenziali, si sono bastate. Ora questo non è più possibile e quindi ci si è aperti all’esterno: i genitori, le associazioni e altre realtà. Questi mondi chiusi si sono aperti, con esiti che alle volte sono ambivalenti e si possono discutere, ma certamente si è creato un movimento. Sempre di più la crisi delle istituzioni come la scuola e l’università, così come i partiti e i sindacati – che erano altre scuole capaci di contribuire alla formazione delle persone- sono scuole dismesse nella loro funzione di generare senso politico e di cittadinanza. Si sono create delle scuolette, delle altre scuole, per fare esistere una collettività che non c’è più ma che forse ha qualcosa “in comune”. Dove c’è il vuoto si creano altri paesaggi che riabitano il vuoto e il pieno in maniera differente, si verificano delle ricomposizioni che nascono da una risposta ai bisogni. Don Milani ci ricordava che rispondere assieme ad un bisogno è già politica.

Assistiamo dunque ad un parziale cambiamento della vocazione delle agenzie educative e di come loro interpretano il loro ruolo. Finite le scuole rappresentate dai partiti e dai sindacati, fuori dalle grandi narrazioni collettive, si sono autoistituite altre scuole che hanno aperto ad altri modi di apprendere e che stanno rispondendo a nuove esigenze. Situazioni e gruppi, “contesti” che diventano formativi, autoformativi, educativi ed autoeducativi, che sprigionano la potenza del contesto in un rapporto meno bellicoso con la realtà, un’altra epistemologia del cambiamento che ha a che fare con la riconoscenza, con la gratitudine, con la capacitazione, con l’accettazione del limite, con una dimensione partecipativa dell’essere con altri.

Rimane aperta una domanda: essere autrici e autori di questi testi e contesti sociali sta creando una visione in comune (non la stessa visione) o una ulteriore esplosione di visioni individuali in libera concorrenza? Stiamo facendo creazione sociale o educazione in libero mercato?

Alla ricerca di ciò che fugge.

Eppure amo il mio tempo perché è il tempo in cui tutto vien meno ed è forse, proprio per questo, il vero tempo della fiaba. E’ certo non intendo con questo l’era dei tappeti volanti e degli specchi magici, che l’uomo ha distrutto per sempre nell’atto di fabbricarli, ma l’era della bellezza i fuga, della grazia e del mistero sul punto di scomparire (…) tutto quello cui certi uomini non rinunziano mai, che tanto più li appassiona quanto più sembra perduto e dimenticato. Tutto ciò che si parte per ritrovare, sia pure a rischio della vita, come la rosa di Belinda in pieno inverno.

Cristina Campo, Gli imperdonabili

 

Forse sta capitando questo, nella complessità del nostro tempo. Che, come suggerisce Cristina Campo, chi questo tempo lo ama, nonostante tutto o proprio in forza della difficoltà che ci pone, cerca e trova quel che viene a mancare e lo fa con l’energia creativa proporzionale alla mancanza e all’assenza, vale a dire in proporzione al proprio bisogno.

Tra le cose che ci vengono a mancare, nelle forme che ha preso l’alienazione contemporanea, ci sono elementi che ci conducono alla matrice stessa del vivente. Forse quello che “fugge per farsi trovare” è un toccare la terra, sentire radici spesse su cui poggiare, contatti più intensi con le dimensioni elementari del vivere e del relazionarci, del lavorare, dell’abitare.

Leggo in questa lente, come la ricerca di nuove sintonie con una matrice vivente, la diffusione di pratiche di varia natura che hanno in comune l’essere “pratiche di in-comune” se non comunitarie. Penso a tanti movimenti che mi piace chiamare “movimenti urbani” che attorno ad oggetti differenti cercano di ricollegarsi ad un sistema vivente. Parlo di pratiche di agricoltura urbana (orti collettivi e sociali) che riscattano un bisogno di materialità, alle pratiche di rioccupazione di spazi urbani nel senso dei beni comuni, alle pratiche di meditazione o ad altre pratiche legate alla consapevolezza che recuperano la relazione tra mente e corpo. Ci stiamo riappropriando delle cose che ci vengono a mancare: il respiro, la materialità, la città, il vivere, l’abitare, il lavorare.

Scuole e altre scuole: tattiche del quotidiano e creatività diffusa.

La città funge da punto di riferimento totalizzante e quasi mitico per le strategie socio-economiche e politiche […] la vita urbana lascia sempre più riaffiorare ciò che il piano urbanistico escludeva”, ovvero quelle pratiche che si insinuano tra le maglie della sorveglianza, secondo tattiche di creatività diffusa.

M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano

Introducendo questa traiettoria vorremmo registrare e dare parola alle molte esperienze, sperimentazioni sociali, politiche, economiche, con forte implicazioni educative, che trovano fuori dalle agenzie educative istituzionali, come scuola e università, il loro spazio di espressione e creatività.

Negli ultimi due decenni sono nate “altre scuole” in contesti insoliti e inattesi dove sono stati prodotti saperi che sono già in libera circolazione.  Ad esempio nei contesti urbani, e in particolare nei quartieri, sono capitate molte cose.

Sono nati gruppi e libere aggregazioni attorno a gesti di consumo e produzione critica (Bilanci di giustizia, G.a.s, Des, etc.), alla modifica degli stili di vita, alla ricerca di nuovi equilibri soggettivi e con l’ambiente; sono nate delle realtà attorno alle occupazioni e all’ autogoverno di spazi simbolici delle città: come il Teatro Valle a Roma; abbiamo assistito ad esperienze di autogoverno partecipato dai lavoratori e dalle lavoratrici dello spettacolo come il  Macao di Milano  (Centro per le arti e la cultura di Milano) che nasce dall’occupazione, da parte di un collettivo culturale artistico, dell’edificio Torre Guelfa. Anche in questo caso sono lavoratrici e lavoratori dell’arte, assieme a semplici cittadini, che si attivano per sperimentare forme condivise di arte e di spettacolo da rendere disponibili a tutta la città.  Sono stati attivati e promossi processi di riqualificazione e di rigenerazione sociale di quartieri con problematicità; si sono creati nuovi legami sociali di prossimità e di convivenza nel proprio territorio (Città vicine, associazioni, comitati, gruppi di genitori che riqualificano e gestiscono aree verdi etc.). Abbiamo infine assistito, in contesti informali, associativi e sociali, alla diffusione di saperi e sapienze che rimettono al centro l’intelligenza del corpo nella sua connessione con la mente. Pratiche molto antiche, come quella della presenza mentale, o più recenti che segnalano il bisogno di scommettere su saperi per la vita e per l’educazione ispirati a epistemologie dell’integrazione tra dimensioni razionali e affettive ed emozionali.

Abbiamo presente spazi come le riviste Animazione sociale e Una città che attraverso proposta culturali diventano laboratori di crescita umana e professionale, punti di riferimento per gruppi e persone.

Questi luoghi di pratiche e di saperi, ci sembrano significativi non solo per ridisegnare i nuovi spazi dell’educazione e della formazione, ma anche per mostrare le nuove visioni che le ispirano. La natura di questi saperi e le epistemologie di riferimento che ad esse sono sottese.

Cooperare, educare

di Maria Piacente

Sono cambiate molte cose, ci siamo detti.

Abbiamo sostenuto, con molte buone ragioni, che non c’è nulla di più instabile e mutevole di un mondo pedagogico che non ci sta a farsi ingabbiare in schemi e modelli troppo conosciuti.

Abbiamo parlato, supportati da donne e uomini che ne fanno quotidiana esperienza, di un presente educativo che viene continuamente re-inventato.

Abbiamo preso consapevolezza del fatto che, intorno a noi, esistono contesti e vengono agite
pratiche che ci pongono davanti a nuovi saperi e che ci propongono nuove visioni.

Saper leggere gli uni ed interpretare le altre non è sempre agevole e a volte ci si imbatte in più interrogativi di quante possano essere le risposte che, faticosamente, cerchiamo di dare.

Per parte nostra, a partire da quella che è la nostra storia, cercheremo di dar conto di quello che è successo, in proposito, all’interno ed attorno alla Cooperativa Sociale Stripes ed  alla Rivista di educazione, formazione e cultura, Pedagogika.it.

In questo incontro vorremmo mettere a tema alcune questioni che, nella nostra  esperienza di cooperazione che dura ormai da venticinque anni, ci sembra  possano esser oggetto di confronto. Portiamo la nostra esperienza nella quale, a nostro avviso, sono  avvenuti dei cambiamenti, quelli di cui parliamo nell’introduzione di questo convengo. Vogliamo interrogarli, e farci i conti. Si tratta di mutamenti  che  si sono prodotti  nonostante “il disorientamento, le rovine di alcune buone tradizioni”. Nonostante le politiche dell’imperante e disperante ventennio appena trascorso.

Il nostro desiderio sarebbe stato, ed ancora è, quello di attivare un dialogo, un  confronto in presenza di una relazione viva, interrogarci e capire, insieme, cosa ha funzionato e  cosa no. Se, e come, abbiamo partecipato a quell’azione di reinvenzione del presente educativo che oggi, più che in passato, ci interroga fortemente. O se, invece, siamo stati fagocitati dal sistema? Stiamo soddisfacendo, non senza sforzo, il mercato del lavoro con la nostra presenza: dobbiamo essere contenti si o no? Con quale prezzo? Fino a quando? Attraverso quali strumenti?

Ci occupiamo di saperi educativi da 25 anni. Tutto è cominciato quando è nata la nostra Cooperativa sociale Stripes il cui acronimo significa Studio Ricerca Intervento Pedagogie Extrascolastiche: donne e uomini, insoddisfatti dalla burocrazia e dalle strettoie tipiche dei contesti istituzionali nei quali lavoravano, sul finire degli anni ’80, credendo profondamente nell’idea della cooperazione e nella reciproca e conseguente contaminazione relazionale, hanno creato  una Cooperativa Sociale che, ad oggi, da lavoro a 500 persone (donne per oltre il 90 %), socie lavoratrici e soci lavoratori  con rapporto a tempo indeterminato: pedagogisti, educatori professionali, operatori sociali, mediatori linguistici e culturali. La Stripes gestisce servizi educativi, Asili nido, Scuole d’infanzia, Centri di aggregazione giovanile, centri di ascolto di mediazione familiare.

Pensiamo che possa essere utile capire quali sono stati i fili che si sono intrecciati e che hanno permesso  che succedesse quello che, sotto gli occhi di tutte e di tutti è successo e che noi riconduciamo, e vogliamo continuare a ricondurre, ad una pratica e all’humus politico che abbiamo vissuto negli ultimi decenni: partire da sè, rispettare le soggettività, condividere la passione, l’amore verso il mondo, l’amore verso l’altra/o.

Vorremmo farvi conoscere come e cosa è stato reinventato, come  i saperi  educativi  nuovi vengano esperiti, come sia possibile che il corpo sociale della cooperativa, ricco di esperienza e di competenza professionale, sia abitato da gente giovane (età media poco oltre i 30 anni) in formazione permanente e in attivismo incessante.

La cooperativa ha trovato, nel corso degli anni, il modo di crescere nei numeri (soci e fatturato) senza sacrificare la spinta iniziale, senza rinunciare alla qualità, senza perdere l’entusiasmo.

Anche per noi certe volte è difficile capire gli ingredienti e le alchimie che si sono generate. Non  si tratta, o perlomeno non prioritariamente, di buona gestione nè di dirci come siamo bravi o fortunati: noi siamo convinti che la maggior parte del merito vada al modo come le socie, e i soci della coop. accolgono i nuovi colleghi, come se ne fanno carico, come riescono a mettere in comune esperienza ed entusiasmo, differenze ed ugaglianze.

Noi partiamo, e non ne facciamo mistero, da una condizione essenziale, ovvero la coondivisione di idee, progetti, programmi, in modo che ciascuno sappia quanto sia importante l’apporto di ciascuno e di ciascuna  dei componenti di quella che amiamo definire la “cooperativa relazionale”.

“La Democrazia comincia a due” titolo di un saggio di  Luce Irigaray, comincia dal riconoscimento reciproco delle differenze; riconoscerle è altrettanto importante quanto saper capire cosa accomuna, cosa unisce.

La relazione, quindi, come strumento principale, come azione che alla fine produce un cambiamento e  una trasformazione.

Una trasformazione magari “piccola” ma assolutamente importante perchè avvenuta all’interno di una relazione in presenza e all’interno di un clima di reciproco riconoscimento, anche delle differenze. “Ci vediamo nell’altro, e solo quando qualcuno raccoglie la nostra storia, la storia delle nostre pene, della nostra contentezza e del nostro fallimento, solo allora ci conosciamo. Come conoscerci se non ci conosce nessuno? “. Sono le parole di Maria Zambrano.

Non saremmo mai riuscite, altrimenti, ad affrontare tutti i cambiamenti che ci hanno messo a dura prova: il continuo cambiare della normativa di riferimento, il susseguirsi delle richieste dei comuni in termini di servizi da erogare, a richiesta del cittadino e, talora, delle angosce di funzionari ed amministratori, preoccupati dal rispetto dei parametri e degli standard di servizio non meno che dalla insorgenza di nuove tipologie di bisogni.

L’azione pedagogica andava continuamente rivista e ricalibrata per affrontare nuove cittadinanze e nuovi modelli familiari, nuove declinazioni del disagio sociale e nuove patologie relazionali, vecchi pregiudizi e nuove esigenze tassonomiche, per soddisfare le angosce di chi ha bisogno di classificare tutto pensando di controllare meglio ogni accadimento educativo o, quantomeno, di sapere a chi addebitare la responsabilità di ogni piccolo o grande fallimento educativo.

Un percorso accidentato quello che aspetta chi vuole occuparsi con serietà e competenza di educazione senza essere “solo” un operatore qualsiasi, ingaggiato a fare un lavoro scomodo, con remunerazioni non sempre adeguate.

A noi ha fatto premio, oltre alla condivisione relazionale di cui abbiamo già parlato, il fatto di avere individuato, nella rivista che pubblichiamo da ormai 18 anni, uno strumento comune di riflessione e di crescita.

La rivista, nata con i crismi di un giornalismo di settore, quello socioeducativo, nella fattispecie, e quindi sottomesso a modelli comunicativi, certo collaudati, ma un pò vecchiotti e talora sessisti, si è, via via, andata trasformando percorrendo nuovi itinerari.

È cambiato il linguaggio e la struttura della rivista, attivando nuove risorse e competenze, utilizzando le nuove tecnologie e, soprattutto, assumendo un nuovo punto di vista, coltivando i territori della sessualità e della differenza di genere.

E in questo, determinante è stato l’apporto di tutte quelle donne che si sono riconosciute nell’uso della scrittura come modalità di riflessione condivisa e partecipata, riscoprendo il piacere del parlare di sè per parlare del mondo, del partire dal particolare per arricchire il mondo di nuove visioni.

Il mondo è di chi lo sa nominare, di chi lo sa far parlare.

Muore la parola

appena è pronunciata:

così qualcuno dice.

Io invece dico

che cominica a vivere

proprio in quel momento

                                                                                                                                     Emily Dickinson