D.P.R. 448/88: il decreto dei garantiti?

Il D.P.R. 448/88 e il successivo decreto legislativo 272/89 sono gli strumenti del codice di procedura penale per i minori: ci può spiegare qual è, o quale dovrebbe essere, lo spirito della normativa che si rivolge ad una fascia della popolazione così particolare?

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Giuseppe Centomani: Il criterio ispiratore di questa legge è l utilizzo del carcere come ultima soluzione possibile, come ultimo intervento da prevedere nei confronti dei ragazzi che commettono reati. Il problema di questa legge è che, come spesso accade in Italia, la legge è buona, ma nella realtà l organizzazione dei servizi connessi, la loro stessa tipologia e distribuzione e, fondamentalmente, la mentalità che li governa, non ne rendono possibile una piena applicazione. Come effetto pratico di questa normativa, all inizio si è abbattuto il numero dei minori in carcere. Basti pensare che nell’ ’87 all istituto Beccaria c’ erano mediamente 70 ragazzi, mentre alla fine dell 88 e all’ inizio dell 89 -quando è entrata in vigore la legge- i ragazzi erano tra i 7 e i 10. Questo è l effetto pratico della prima attuazione della legge. Poi cosa è successo? In modo più che proporzionale all andamento dell’ immigrazione, si sono verificati fenomeni di aumento del numero dei ragazzi stranieri che incorrevano in reati. Ma il problema non è tanto questo, quanto il modo in cui gli stessi vengono perseguiti. Di fatto si è attrezzato un sistema di reazione sociale, ufficiale e formale, per cui i ragazzi stranieri a parità di reati con i ragazzi italiani, hanno l’80 per cento di probabilità in più di venire in galera e di rimanerci. Questo perché, essendo l opinione pubblica più attenta al problema, di conseguenza è aumentata anche l attenzione della forze dell ordine nei confronti del fenomeno. Il 448 è, in qualche modo, il D.P.R. dei garantiti: di questi tempi su 60 maschi detenuti, 45 sono stranieri, la maggior parte nomadi; e su 20 femmine, solo due sono italiane. Come pensare alle diverse forme di recupero che si fondino sulla esistenza di una casa, di una famiglia, e dei relativi investimenti affettivi nel caso di ragazzi che, per loro specifica cultura o per gli eventi della vita e dell’immigrazione, a queste coordinate non possono fare riferimento? La presenza di ragazzi italiani negli istituti penali minorili è diminuita ad oggi, dell’80 per cento; accade però che già dopo 1 o 2 anni si trovano in carcere tutti quei ragazzi che, al momento dell’ arresto, hanno usufruito di misure cautelari alternative alla detenzione: la prescrizione, la permanenza in casa, la permananza in comunità e, infine, la custodia cautelare in carcere. Queste sono dette misure a scalare, nel senso che hanno un grado successivo di restrittività e, quindi, ogni volta che il ragazzo trasgredisce un livello di misura cautelare si passa a quello successivo fino ad arrivare in ultima analisi all’ inserimento in carcere . Nel D.P.R. 448/88 si parla di uno strumento rieducativo chiamato messa alla prova. Ci può dire per quale tipo di soggetti ed in quali circostanze si utilizza? G. C.: La messa alla prova è una misura che di fatto viene concessa al momento dell’udienza penale. Il criterio della messa alla prova si rifà alla probation inglese. C è solo una grossa differenza, perché la probation è un tipo di misura che il magistrato applica una volta concluso il processo e riconosciuta anche l eventuale colpevolezza del ragazzo. Si utilizza al posto della condanna penale di carattere restrittivo. La messa alla prova invece, avviene nel momento stesso in cui si sta realizzando il processo: non si arriva, quindi, alla sentenza. Si propone al ragazzo una sorta di negoziazione, in cui lui diventa responsabile della sua stessa azione rieducativa: gli si affida la possibilità di riscattarsi e di tirarsi fuori dai guai! Questa misura alternativa attualmente non coinvolge gli operatori alle dirette dipendenze dell’istituto, ma in primo luogo gli assistenti sociali del ministero di Grazia e Giustizia ed eventualmente i servizi sociali territoriali . Quali sono le figure professionali previste dal D.P.R. che risultano più significative per ragazzi interessati al contratto di messa alla prova? G. C.: Sono appunto gli assistenti sociali dell USSM, dell Ufficio Servizi Sociali Minorenni; ma non sono i soli perché quando il ragazzo giunge al processo ha comunque subìto un periodo di misura cautelare che può essere stata una delle misure di cui parlavo prima, ma può essere stata anche il carcere. Ci sono comunque altre persone che si occupano dei ragazzi, quali ad esempio gli educatori dell’istituto Penale Minorile, oppure gli educatori del CPA se il ragazzo è uscito direttamente dal CPA con una misura cautelare alternativa al carcere. C è quindi un équipe che se ne occupa, ma in sostanza chi prende in carico il minore messo alla prova è l’assistente sociale del ministero di Grazia e Giustizia . Ma si può quindi parlare di un periodo in cui il ragazzo segue una sorta di terapia per cui gli viene concessa la possibilità di una guarigione per poter poi aiutarlo durante la messa alla prova ? G. C.: Io penso che non ci sia una tipologia di intervento standard; ci sono dei minimi formali che vengono concretizzati dall assistente sociale al di sotto dei quali non si può andare. Si parla di una formale presa in carico che poi può determinare il fatto che con quel ragazzo si facciano differenti cose oppure si coinvolgano diverse figure professionali. Molti ragazzi possono avere problemi significativi sul piano personale e allora tendenzialmente ci si avvale di un consulente psicologo, che magari può essere quello del territorio. Mentre altri ragazzi possono avere dei problemi di carattere familiare, relazionale, affettivo ed allora a quel punto l’assistente sociale propone rimedi quali le consulenze familiari. Di fatto quindi l’assistente sociale è una sorta di promotore degli interventi . Si può quindi dire che ci sono dei casi in cui anche la famiglia deve, in qualche modo, essere presa in carico? G. C.: Dipende molto dalla situazione, quella di Milano è molto particolare, nel senso che abbiamo un servizio sociale quantitativamente quasi inesistente, ma nello stesso tempo quello milanese è il distretto dove passa il maggior numero di ragazzi in istituto ed anche al CPA. Inoltre contiamo il numero di denunce di minorenni, anche a piede libero, più alto d Italia. Viviamo quindi una situazione paradossale, perché abbiamo un sistema di servizi territoriali abbastanza consistente e pensato anche in funzione di un supporto al servizio istituzionale: l’USSM, ma non godiamo di un servizio sociale istituzionale che di fatto possa svolgere quel lavoro di promozione e coordinamento di cui parlavamo, o perlomeno lo fa in un numero limitatissimo di casi. Quindi, sostanzialmente, diciamo che la situazione milanese non rappresenta la media delle situazioni italiane a causa del carico lavorativo e per la scarsezza degli assistenti sociali . Ma in altri luoghi gli assistenti sociali sono presenti in maniera più cospicua? G. C.: Normalmente sono in numero congruo, soprattutto nel sud i servizi sono tendenzialmente ad organico pieno. I concorsi sono fatti soprattutto da persone meridionali che tendono però a tornare nelle loro sedi originarie e quindi gli uffici del sud sono più pieni, però ci sono meno servizi nel territorio e di conseguenza c’è una presa in carico più autarchica da parte dei colleghi che hanno meno risorse da coordinare . Quali sono le difficoltà maggiori e gli intoppi che incontra più spesso nel suo lavoro? G. C.: Sono i problemi di tutti i servizi sociali. Il più grosso in questo istituto è che non c è una cultura o un ideologia comune; non c è una piena condivisione della lettura del fenomeno né rispetto ai ragazzi né in relazione ai metodi di intervento. Quindi la soluzione sarebbe di creare una sorta di omogeneità e un operatività riconoscibile e riconducibile ad un progetto complessivo. Infatti uno dei nostri maggiori sforzi è di costruire annualmente un progetto educativo che governi il nostro operare . E quindi delle linee guida che siano conosciute da tutti gli operatori che in qualche modo hanno una traccia sulla quale basarsi. Accanto
ad una adeguata preparazione professionale degli operatori è necessaria, secondo lei, una certa propensione personale per lavorare in un Istituto Minorile? G. C.: Certamente, come in tutte le professioni di carattere sociale! Bisogna però precisare che la propensione personale a volte aiuta, ma altre volte crea problemi quando non è governata da un sapere scientifico. Questo accade se non si riesce a innescare quel famoso processo: sapere, saper essere e saper fare e allora la propensione personale diventa soltanto un primo anello che comunque non forma la catena. Il problema all interno di questo Ministero è che, purtroppo, è uno dei pochi, anzi l unico contesto istituzionale nel quale non vengono richiesti titoli specifici per fare gli educatori. Non essendo richiesto il titolo di educatore professionale le persone verranno formate solo dopo l assunzione . C è una formazione specifica che magari si svolge all interno di questa struttura? G. C.: Si, al Beccaria si è sempre rivolta particolare attenzione sia alla formazione iniziale che alla formazione permanente. Negli ultimi anni si sta tentando di portare avanti anche il discorso della supervisione per quanto riguarda gli educatori. Queste iniziative si scontrano, però, troppo spesso con il quotidiano perché è come insegnare ad un macellaio a tagliare la carne mentre ha già il coltello in mano . A proposito di progetti educativi, e in relazione alla sua affermazione relativa alla presenza di molti ragazzi stranieri, che difficoltà ci sono state nel tener conto di questi utenti stranieri che hanno cultura e riferimenti diversi? G. C.: Il nuovo codice di procedura penale minorile è fatto per i garantiti: non ha tenuto conto dei ragazzi stranieri. Stefania Ciavattini: Noi abbiamo cercato di attrezzarci, usufruendo dell aiuto di mediatori culturali che, conoscendo la lingua hanno risolto alcuni dei problemi con i ragazzi nord-africani e albanesi. Gli stessi mediatori diventano successivamente educatori a tutti gli effetti integrandosi con quelli italiani. Non abbiamo però ancora risolto il problema per i nomadi. Andrebbe studiata una formazione specifica sia per i nomadi che per i ragazzi stranieri; di fatto gli educatori hanno dovuto imparare da soli, attraverso l esperienza quotidiana. Esiste quindi un coordinamento non sporadico, organizzato, nel quale ogni operatore mette sul tavolo il proprio sapere e le proprie perplessità, dove si costruisce insieme… S.C.: Certo, all inizio il progetto viene costruito, per 15 giorni, da tutti noi insieme; poi ci sono le verifiche: quelle semestrali del Ministero e quelle nostre a cadenza settimanale . Secondo lei, per un ragazzo inserito in un Istituto Penale Minorile, che rapporto c’è tra la variabile tempo, la presa di coscienza e, quindi, l’eventuale cambiamento? S.C.: Nel nostro progetto quest anno è previsto un tentativo di valorizzazione della risorsa tempo , non solo per quanto riguarda i ragazzi, ma anche per gli operatori. Pensiamo, ad esempio, ad un tempo utile per un progetto di formazione. La prima cosa con cui ci si scontra nell Istituto è il tempo paralizzato e paralizzante, congelato; quindi la frase che si scolpisce nella mente dei ragazzi tutto passa , è purtroppo ciò che l’istituzione tende a riproporre con la sua monotonia. Noi abbiamo invece cercato di attuare progetti che rompessero la monotonia e restituissero il senso di ciò che si fa mentre si sta qui . G. C.: I progetti sono sempre legati alle caratteristiche del luogo dove si attuano. Al Beccaria ci sono dei momenti in cui si vive un clima di collaborazione, di fiducia, di efficacia, e ci sono invece dei momenti di ansia in cui si spreca gran parte dell energia riducendo le possibilità operative dal punto di vista qualitativo. Bisogna quindi sempre tener presente che quello che si riesce a costruire è sempre il frutto dell interazione di tante variabili contingenti. Gli automatismi e comunque gli effetti si creano attraverso le relazioni, attraverso le caratteristiche del momento . Quindi, attraverso quello che è il posto che noi come operatori stiamo occupando per quel ragazzo in quel momento; perché, a volte, l’operatore se ne dimentica. Nel senso che i ruoli sembrano quasi incatenare le persone ad una certa fissità o per impedire di riflettere su come il ragazzo sta vivendo in quel momento il posto che io sto assumendo per lui. G. C.: Noi, per definire le potenzialità, l’efficacia del rapporto con il ragazzo, parliamo di spazio pedagogico possibile e riteniamo che comunque esista anche all interno di questa istituzione. Certo, risulta molto difficile in un casermone come questo e per la gran parte dei ragazzi del Beccaria. Noi riteniamo sia possibile, nell ambito di un progetto visto come quadro organizzativo generale e attraverso il piano relazionale ed individuale dei ragazzi, aprire uno spazio pedagogico anche all interno di questo contesto che non ha sempre la stessa ampiezza e profondità e non ha sempre le stesse potenzialità. Questo significa partire dal presupposto che l educatore si rende conto di non essere né onnipotente né totalmente impotente, ma di avere, a seconda del tipo di relazione in cui è inserito, delle potenzialità che si muovono su questa scala . Quindi è importante il desiderio di volersi sperimentare quasi quotidianamente: bisogna porsi nel ruolo di ricercatore e sperimentatore. G. C.: Questo è un progetto che noi stiamo tentando di affrontare ormai da diversi anni. L’idea è di tener conto di concetti importanti, quali il sistema in cui ci si inserisce. Concetto legato anche agli approcci psico-sociali, per cui ogni uomo è una sorta di scienziato, di ricercatore che agisce per prove ed errori , utilizzando gli attrezzi del mestiere e, a volte, uscendo anche fuori dal quadro degli strumenti deontologici. Spesso capita di fare cose che vanno al di là del nostro ruolo specifico perché ci si rende conto che altrimenti non si riesce ad instaurare un rapporto un po più intimo, più personale con il ragazzo. Il nostro obiettivo è di intervenire per meravigliare il ragazzo, per scuoterlo, per tentare di non dargli mai risposte scontate che rispondono a modelli educativi già conosciuti . In quale parte, secondo lei si potrebbe ripensare o correggere il DPR 448/ 88? G. C.: Non è questione di ripensare la legge: si tratta di cambiare, piuttosto, mentalità, attraverso la promozione delle politiche giovanili. E necessario rafforzare la rete dei servizi sociali ed educativi, il ruolo degli insegnanti che, talvolta, insegnano senza educare. C’è una ideologia tecnicistica dell insegnamento che poco spazio lascia alla peculiarità personale e relazionale del ragazzo. Si tratta di creare centri anche alternativi a quelli tradizionali, centri di aggregazione giovanile, ma anche centri di promozione della cultura, della prevenzione. Bisogna trasformare, come è avvenuto nel napoletano, gli istituti penali in centri che, davvero, promuovano il cambiamento. In Italia esiste unicamente un Centro Diurno Polifunzionale, contro i 400 che esistono, ad esempio, in Francia.