Dal mito della socializzazione all’inclusione scolastica del disabile

A seconda delle varie tipologie di disabilità, la scuola dovrebbe realizzare un progetto educativo che non prescinda da alcuni obiettivi fondamentali, semplici a delinearsi, ma sicuramente più ardui a tradursi in pratica: la socializzazione prima di tutto, a cui conseguono capacità di assunzione di un ruolo, dinamiche all’interno di un gruppo formale o spontaneo e via dicendo.

Il compito educativo

Sul rapporto tra situazione di disabilità e universo scolastico sembrerebbe tutto già detto e scritto.

Nonostante probabilmente in parte sia così, crediamo esistano situazioni particolari che richiedono di essere argomentate in prospettiva specifica.

La scuola possiede un mandato educativo che esplica in varie maniere (volendo includere anche quella che fa perno sulla didattica stessa). Quando ci si riferisce a persone in stato di disabilità crediamo che tale mandato sia suscettibile di osservazioni più precise e particolareggiate, soprattutto pensiamo che il mandato della scuola debba andare ben oltre la scuola stessa, arrivando a coinvolgere l’intero gruppo sociale.

A seconda delle varie tipologie di disabilità, la scuola dovrebbe realizzare un progetto educativo che non prescinda da alcuni obiettivi fondamentali, semplici a delinearsi, ma sicuramente più ardui a tradursi in pratica: la socializzazione prima di tutto, a cui conseguono capacità di assunzione di un ruolo, dinamiche all’interno di un gruppo formale o spontaneo e via dicendo.

Possiamo osservare come tutto sommato, questi importanti obiettivi siano correlati in modo relativamente modesto con la capacità di apprendimento tout court, si potrebbe addirittura raggiungerli al di fuori di un contesto prettamente scolastico, nonostante occorra altresì rilevare come la scuola si presti molto bene per la conduzione di un lavoro educativo entro un contesto favorevole, rappresentato, tra le altre componenti, dalla compresenza di pari d’età.

Il grosso problema scaturisce dal fatto che spesso la scuola, non recepisce il proprio peculiare mandato – quello di essere precipuamente “agenzia di socializzazione” – come primario in fatto di importanza, tendendo a conferire invece priorità e situazione di privilegio alla dimensione meramente didattica, che se abbandonata a sé stessa diviene sterile.

Occorre notare come accanto alla deformazione professionale di alcune/i insegnanti, sussistano effettive difficoltà a creare all’interno della classe le necessarie condizioni operative verso il raggiungimento dei termini suddetti: i programmi troppo spesso si mostrano rigidi, la libertà di iniziativa viene fortemente limitata, le famiglie agiscono ostacolando determinate ‘buone pratiche’ che potrebbero portare a risultati eclatanti, tutto questo vale a dar vita ad una situazione al limite del paradosso, giacché la scuola inserisce il disabile, ma poi non lo sa gestire in modo proficuo.

Spesso si ritiene che il problema investa la situazione dei soggetti gravati da deficit più pronunciato, in realtà la difficoltà investe a pieno titolo anche quelli che presentano un tipo di compromissione decisamente più lieve sul piano psicofisico.

La conseguenza che alla fine si rileva è sempre la medesima: l’allievo con disabilità non è messo nelle condizioni adatte per riuscire a trarre dall’esperienza scolastica i vantaggi educativi di cui avrebbe pieno diritto e che sarebbero stati possibili se il lavoro scolastico fosse stato impostato e condotto in modo differente: magari apprende qualcosa, ma perde drammaticamente del tutto o quasi la possibilità di essere formato e di crescere come persona.

Crediamo che già fin d’ora si possano delineare alcuni punti che potrebbero essere considerati preliminari “indicazioni di base”:

– La scuola dovrebbe essere edotta circa il progetto educativo portato avanti con l’allievo disabile fino a quel momento.

Quando gli insegnanti accolgono in classe un allievo in situazione di disabilità dovrebbero essere perfettamente al corrente circa la struttura di carattere e di personalità di colui che dovranno prendere in carico, sotto il profilo dell’apprendimento ma anche e soprattutto sotto quello del comportamento inteso lato sensu.

Nella fase iniziale del rapporto educativo, è di fondamentale importanza che gli insegnanti siano al corrente circa particolari atteggiamenti, tipi di reazione e tutto ciò che possa essere utile nella descrizione di un certo tipo di personalità.

Vorremmo mettere in rilievo come una frattura tra ciò che il soggetto è ed il modo di capirlo e gestirlo, ancor più se all’interno di una situazione nuova, possa costituire pesante elemento d’ostacolo in una prospettiva di positiva inclusione;

– La scuola è chiamata a svolgere funzione di intermediazione tra cultura – antropologicamente intesa – del soggetto in condizione di disabilità e cultura della rimanenza dei suoi coetanei.

Occorrerebbe ricordare sempre come la scuola sia in primis un laboratorio sociale, non solo strumento attraverso cui erogare istruzione intesa in senso meramente meccanicistico.

La presenza in classe di un soggetto “diverso” allora, deve essere accolta e conseguentemente gestita come preziosa occasione di arricchimento per i presenti tutti.

Qualora questo presupposto si realizzi sarà possibile parlare di agevolazione del processo di socializzazione.

Qua – come altrove – si gioca anche la collaborazione tra insegnante di sostegno e insegnante titolare: il primo media la cultura dell’alunno disabile, il secondo bada ad integrare con il resto della classe verso il raggiungimento di una reale situazione di osmosi in mutualità.

– Occorre “insegnare” alla scuola come intervenire fruttuosamente, per questo è di fondamentale importanza arrivare a conferirle la necessaria “libertà di movimento”.

C’è grande necessità di creare spazi entro cui coltivare dinamiche relazionali il più possibile aperte, tramite discussione, giochi, oltre che confronto inteso in senso generale.

Capita spesso che l’alunno disabile si ritrovi in una situazione di pressoché completo isolamento, tutto si muove attorno a lui ma nessuno bada veramente ad implicarlo, spesso anche a causa di una eccessiva protezione che lo avviluppa.

E’ questa una grave contraddizione in termini, giacché nessuno arriva a padroneggiare un comportamento o un contenuto, se non è lasciato libero di entrare nel merito e sperimentare il comportamento stesso, interagendo con gli altri;

– La scuola deve influire anche sulla vita che avviene all’esterno delle proprie mura.

Un insegnante
che rimane impermeabilizzato rispetto a ciò che gli avviene attorno non potrà svolgere appieno il proprio mandato educativo, occorre senta un bisogno incessante di confronto con tutti gli altri interlocutori importanti: genitori, educatori extrascolastici, clinici, terapeuti etc.

Si può realizzare questo confronto in modo molto vario: visite alla famiglia e conseguente approfondimento delle dinamiche che entro essa intercorrono, approfondimento di parte del trattamento terapeutico a cui il soggetto è sottoposto etc.

Se questi – ed altri – punti di forza rimangono puntualmente disattesi và da sé che i conseguenti atteggiamenti educativi si palesino in modo debole, contraddittorio, inefficace e che la socializzazione/inclusione della persona con disabilità, anziché attuarsi efficacemente, rimanga soltanto una vacua speranza, spesso invocata quanto rimandata sine die, senza che venga mai declinata nella pratica della vita quotidiana.

Pensiamo che nell’economia di questa situazione, un punto cruciale sia rappresentato dal tema dell’“uguaglianza” in grado di innescare due effetti opposti accomunati dall’essere entrambi deleteri.

C’è l’ottica di chi relega il disabile nella posizione di eterno “diverso”: spesso si parla di “diversità” del disabile in modo eufemistico, ma altrettanto spesso, specie tra le mura scolastiche, il disabile è vissuto davvero come “alieno” rispetto a tutto ciò che invece và a costituire la condizione di cosiddetta “normalità”.

Nessun uomo è “diverso” giacché tutti condividiamo le medesime istanze, gli stessi limiti, desideri ed organizzazione psichica di fondo. Ad alimentare questa visione altamente stigmatizzante c’è l’esigenza vissuta dalla maggior parte delle persone, di sentirsi protette nei confronti di realtà che interrogano profondamente e che richiedono il ricorso a precisi orizzonti di senso.

Se fino ad un dato livello questa esigenza da parte dell’“uomo comune” può essere compresa, è certamente imperdonabile giustificarla o permettere, anche solo per vie indirette, il suo dilagare tra le coscienze.

D’altro lato si sentono spesso dichiarazioni secondo cui “tutti siamo uguali”, ma anche questo nasconde presupposti di sicura ipocrisia ed è soprattutto, clamorosamente falso: individui che possiedono spiccate qualità di un certo tipo non possono dirsi “uguali” a chi invece non le possiede ne le può quindi sfruttare all’interno della società.

Certamente le dichiarazioni di “uguaglianza” in questo senso non servono a livellare le differenze interpersonali che non possono affatto ne devono essere negate.

Ciò che secondo noi deve essere proclamato è che tutti, in quanto viventi, possediamo gli stessi inalienabili diritti fondamentali.

Questo si declina nel cercare di vivere da persone autentiche (quindi educatori ed insegnanti autentici) e nel riconoscere la medesima autenticità anche a tutti coloro che abbiamo modo di incontrare, a maggior ragione quando si sia chiamati ad intessere una relazione di stampo educativo: anche e diremmo – specialmente – in questo caso, si presenta la necessità da parte dell’adulto educatore o insegnante, di essere presenza, discreta ma concreta, disponibile, generosa, paziente.

Chi senta di non possedere in modo spiccato queste doti, è forse meglio non si cimenti nel compito formativo, quale che sia la ‘composizione’ dell’“utenza” sulla quale sia chiamato ad agire.

Professionalità insegnante significa certamente possedere conoscenze in ordine ai contenuti della disciplina che si intende trasmettere, oltre che strategie didattiche adeguate, ma significa soprattutto essere costantemente consapevoli di quanto si è e si fa’ e delle motivazioni che ci sospingono ad agire in un certo modo anziché in un altro.

Analizzare questi assunti di base potrà sembrare quasi trascurabile, poiché ciascun uomo porta dentro questi Valori e li avverte almeno emotivamente come capitali, ma nell’agire concreto è necessario ed importante arrivare a chiedersi come possano essere estrinsecati e tradotti in condotte di atteggiamento professionale pratico.

Si tratta molto spesso di riuscire dar voce a particolari atteggiamenti che purtroppo non sempre vengono supportati adeguatamente dalla società in cui viviamo.

Anche coloro che hanno ricevuto un’educazione adeguata, devono continuamente re-interrogarsi circa questi costrutti per esercitare e ri-esercitare la propria disponibilità operativa imparando a mantenere sempre le “giuste misure” senza mai eccedere in un senso come nell’altro, soprattutto senza mai scordarsi di stabilire prima di tutto un contatto empatico, con l’alunno disabile come con quello “normodotato”.

Dentro il contesto della disabilità purtroppo gli errori operativi sono all’ordine del giorno (non solo nella prassi scolastica ma anche a livello istituzionale extrascolastico) dal momento che familiari, insegnanti ed operatori tendono a mettere in secondo piano la crescita della persona al fine di privilegiare l’incremento delle competenze; l’educazione empatica viene più volte posposta a tutto vantaggio dell’elemento prestazionale, il fatto drammatico consiste nel non rendersi conto di come il gioco del rimandare e del temporeggiare conduca alle soglie di un’età che vede tanti giochi disgraziatamente già conclusi, con la configurazione stabile di una personalità malamente formata.

La maturazione armonica della persona è sempre e comunque il primo vantaggio da perseguire in ordine di importanza; determinate competenze possono sempre essere acquisite mentre un assetto psichico distorto può rapidamente configurarsi come irreversibile.

In sostanza, il “prendersi cura” viene sempre prima dell’istruire – che non si vuole comunque in alcun modo sminuire – e per riuscire a “prendersi cura” il ricorso ai Valori che costituiscono la “dimensione umana” è essenziale.

Esplicitando praticamente questi presupposti valoriali, potrà tornare utile tratteggiare sinteticamente i contorni di uno strumento di facile applicazione che può dare modo di compiere interessanti rilevazioni in ordine al livello di socializzazione raggiunto in classe.

* * *

Il processo di socializzazione/integrazione che avviene a scuola costituisce la prima vera esperienza di inclusione sociale per il bambino, adolescente in seguito.

Per questo, la società deve garantire a tutti gli alunni con o senza disabilità, la sicurezza dell’inserimento in un programma che possa dirsi idoneo, da realizzarsi in continuità (a scuola prima, altrove poi) ed eventualmente, a contatto con professionisti qualificati.

A questo proposito pare interessante ricordare e delineare brevemente una tecnica molto utilizzata in ambito scolastico per studiare la dinamica dei gruppi-classe, utile ad orientare l’azione dell’insegnante finalizzata a sviluppare un maggior equilibrio interno e per aiutare gli alunni (con o senza problematiche legate alla disabilità) a risolvere i loro problemi in ordine alla mancata socializzazione.

Attraverso i risultati ottenuti tramite l’applicazione di questo strumento è possibile, per esempio, arrivare a conoscere il grado di inserimento di un alunno disabile nel gruppo-classe e rilevare se lo stesso alunno viva una situazione conflittuale di emarginazione e fattiva esclusione al di là di ciò che possano presentare le apparenze.

Il test, conosciuto come “sociodramma di Moreno”[1], affonda le radici nello psicodramma ideato dallo stesso Autore, il quale dopo aver compreso il valore pedagogico di questa tecnica, volle scindere la parte prettamente clinico-terapeutica da quella utilizzabile in campo didattico, che denominò per l’utilizzo “role playing”[2].

Il sociogramma di Moreno si pone come una tra le tecniche più indicate per analizzare le dinamiche di gruppo all’interno di una classe scolastica.

Il metodo fa emergere le attrazioni e le repulsioni che esistono nel gruppo e permette di costruire sociogrammi speciali atti ad indagare situazioni particolari in ordine al raggiungimento di un determinato livello di socializzazione. I risultati del sociogramma porteranno a valutare apprezzabili cambiamenti (in positivo o in negativo) all’interno della classe, che potranno essere in seguito trattati tramite la messa in campo di interventi specifici e mirati.

La struttura del test è semplice: si chiede a ciascun componente la classe di esprimere una serie di preferenze relative a situazioni quotidiane che forniscano indicazioni preziose circa il livello di socializzazione degli alunni in classe e che evidenzino varie “intersezioni” di rapporto tra i diversi soggetti.

Generalmente si fornisce un questionario composto da un determinato numero di domande, alcune di “accettazione” altre di “rifiuto”.

Ciascuna domanda corrisponderà ad un livello d’indagine, indagherà cioè
una specifica dimensione o un aspetto relazionale rilevante.[3]

I dati che alla fine del procedimento verranno elaborati, potranno tornare utili come strumento diagnostico per la comprensione di vari problemi derivanti da un cattivo o scarso livello di socializzazione.

Anche l’utilizzo di tecniche come quella qui ricordata può dare luogo ad una concezione finalmente diversa in ordine all’agire dell’insegnante in classe; emerge la figura di un insegnante che non si limita alla trasmissione delle conoscenze disciplinari, ma la cui azione si ‘espande’ verso altre dimensioni fondamentali dell’esistenza degli allievi che si trova ad avere in carico.

Si tratterebbe di tematizzare non solo le dimensioni conoscitivo-intellettuali, ma anche, e non di meno, quelle affettive ed etiche in senso esteso, fino a farle diventare anch’esse pratica didattica, professionalità docente, comportamento operante.

Proprio le condizioni della nostra società rendono del resto indispensabile tale “rovesciamento” di prospettiva professionale: una scuola – quindi un’educazione – ridotte a deteriore “istruttivismo”, contribuirebbero a portare ad un livello irreversibilmente patologico le già preoccupanti inclinazioni che agitano e spesso minano la vita individuale e sociale contemporanea.

Gli sfondi legislativi

Pensiamo non si possa parlare di inclusione scolastica degli alunni disabili senza approfondire, seppur brevemente, lo sfondo costituito dai provvedimenti legislativi che hanno segnato la questione come vere e proprie svolte.

L’inserimento scolastico di “alunni portatori di handicap” è iniziato a partire dagli anni ’70, con il superamento dell’esperienza delle cosiddette “classi differenziali” e degli “istituti speciali”, superamento che venne considerato come un grande evento di civiltà e reale progresso e che ebbe in Italia vastissima approvazione in ambito culturale oltre che politico.

La Legge n° 517/77 salutata come qualcosa di profondamente innovativo, sanciva il diritto all’inserimento ed all’integrazione degli alunni con disabilità, aboliva contemporaneamente le classi differenziali e dichiarava il diritto all’inclusione del disabile in una classe ordinaria, purché fosse presente un insegnante di sostegno.

La legge 517 fu accompagnata da un corollario di circolari che meglio delineavano il “pacchetto” di riferimento per procedere all’integrazione,[4] e si configurò come vera e propria pietra miliare che, abolite le classi differenziali, stabiliva univocamente il diritto all’inserimento, spronava ad una programmazione educativa comprendente attività scolastiche integrative, introduceva la prestazione di professionisti specializzati, gli insegnanti di sostegno, nonché particolari forme di assistenza da parte degli Enti Locali, oltre a stabilire nuove forme di valutazione e verifica.

Il periodo che seguì alla Legge 517 non fu del tutto negativo, si può però sostenere senza tema di smentita che il provvedimento dell’inserimento venne affidato alla scuola senza preoccuparsi parallelamente che essa fosse in grado di assolvere questo compito in modo fattivo, non solo formale.

A dispetto di un normativa di Legge certamente molto progredita ed illuminata, fondata su solidissimi principi in ordine alla tutela dei diritti di tutti, mancavano per contro la preparazione adeguata del personale in fatto di competenze specialistiche, la dotazione di strutture e ausili didattici particolari, l’organizzazione specifica, ma soprattutto il desiderio a livello micro contestuale di lavorare davvero “per” i diritti dei disabili.

Non a caso, numerosissimi sono stati gli inserimenti carenti sul piano del raggiungimento di un buon livello di socializzazione effettiva in classe, i casi di vero e proprio rifiuto dell’“handicappato” vissuto come elemento alieno e “diverso” in senso deteriore, le forme di fastidio e paura, i molti pregiudizi che resistevano e si perpetuavano nonostante le sperticate dichiarazioni di aperta disponibilità.

Le stesse strutture scolastiche, obsolete e gravate da tante barriere architettoniche, si ponevano spesso come già intrinsecamente rifiutanti nonché impraticabili per gli alunni disabili, oltretutto la didattica “vecchio stampo” prevedeva ancora il così chiamato “rapporto frontale” che proprio non riusciva ad incontrare le esigenze di quanti avessero problemi di ordine fisico o intellettivo.

Gli anni immediatamente seguenti alla promulgazione della Legge 517 furono anche gli anni che registrarono forti difficoltà che provennero dalle famiglie degli stessi disabili, le quali non vedevano di buon occhio il riconoscimento ufficiale della condizione di “handicappato” per i loro figli e quindi stentavano a prestare opera di collaborazione nei confronti della scuola e delle altre strutture del territorio.

Tutto indicava come nella società mancasse una vera – ed efficace sul piano operativo – cultura della disabilità, a questa lacuna faceva riscontro la mancanza all’interno della scuola di una opportuna corrispondente didattica della disabilità.

Non si approfondivano ne si conoscevano le metodologie didattiche per costruire percorsi individualizzati, gli stessi docenti di sostegno previsti dalla Legge arrivavano spesso del tutto impreparati nell’ottemperare ai propri compiti, si mostravano impacciati, in profonda difficoltà nel riuscire a stabilire un rapporto costruttivo non solo con l’alunno che avevano in carico, ma anche con i colleghi curricolari.

Durante questo periodo non si poteva certo parlare di integrazione degli alunni disabili a scuola, ma nemmeno di riuscita socializzazione visto e considerato che gli alunni disabili erano molto più spesso rifiutati dalla collettività che realmente voluti ed inclusi.

Proprio la socializzazione si pose come primo passo verso l’integrazione, in questo clima di dominante sfiducia nei confronti delle possibilità di apprendimento degli “handicappati”, difficoltà dovute molto spesso alle lacune nella preparazione delle figure professionali che avrebbero dovuto provvedere a loro.

Così, – nonostante si verificassero ancora episodi di intolleranza e rifiuto a vari livelli – si iniziò a costruire e diffondere una reale politica di accettazione del disabile in classe, con la costruzione di forme di alleanza forti e di collaborazioni tra scuola, famiglia ed istituzioni, al fine di rimuovere gli ostacoli di ordine psicologico che gravavano sulla mentalità dei più.

Si cercò anche di abbattere qualche barriera architettonica, di preparare adeguatamente il personale docente, di costruire progetti personalizzati, di consolidare equipe psicopedagogiche etc., per cercare di comprendere e valorizzare la persona anziché e prima che “l’handicappato”.

Questo clima perdurò fino all’altro evento rivoluzionario che si ebbe con la sentenza della Corte Costituzionale n° 215 del 1987, con la quale si stabilì come la frequenza alle scuole superiori dovesse essere assicurata per tutti. Come si può comprendere questo costituì un grande salto di qualità, che andava a “turbare la quiete” della scuola secondaria di secondo grado così come accadde a suo tempo per la scuola media, e che rendeva davvero “pieno” il diritto all’integrazione scolastica anche a livello di scuola secondaria.

Con fatica si superò il problema degli obiettivi formativi, dato che la scuola superiore si poneva eminentemente come proiettata verso un susseguente discorso professionale e gradualmente si raggiunse un buon livello organizzativo didattico.

Naturalmente molti problemi sono tuttora aperti e quasi del tutto irrisolti specie per i disabili psichici per i quali ancora si fatica moltissimo ad individuare un opportuno progetto educativo individualizzato.

Arriviamo quindi alla Legge n° 104/92 grazie a cui si giunge ad una normativa quadro attesa da lungo tempo, frutto di una cultura finalmente non individualistica in ordine alla conquista di determinati inalienabili diritti per tutti.

La Legge n° 104/92 (“Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”) come recita il testo stesso all’art. 1, “garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società”[5], incontra per queste ragioni forte apprezzamento ovunque ma anche precise critiche specialmente per quanto riguarda tre aspetti: l’inserimento dei “gravissimi”, la debolezza del carattere imperativo e la scarsità dei finanziamenti.

Gli articoli della Legge 104 che ci paiono maggiormente interessanti per il tema oggetto di trattazione e che vorremmo quindi brevemente ricordare, sono i seguenti:

* art. 12 diritto all’educazione e all’istruzione;

* art. 13 integrazione scolastica;

* art. 14 modalità di attuazione dell’integrazione;

* art.
15 gruppi di lavoro per l’integrazione scolastica;

* art. 16 valutazione del rendimento e prove d’esame.

La grande importanza della Legge 104 sta nel rimarcare il pieno diritto delle persone con handicap all’integrazione sociale e scolastica, anche la cosiddetta “gravità” della situazione di disabilità non può affatto essere invocata per giustificare un rifiuto, casomai deve assurgere ad ulteriore sprone per adeguare strutture inadatte ed integrare le competenze laddove si mostri necessario.

Nonostante questa sua impostazione ad ampio respiro anche la Legge in questione ha provocato qualche delusione per certe difficoltà di realizzazione dei diritti che non sempre sono riusciti ad affermarsi pienamente.

Purtroppo, ancor oggi, le innovazioni più attese non sono state compiute pienamente, le figure dei docenti di sostegno paiono ancora poco definite, e i loro compiti specifici attendono ancora più oculata specificazione.

Occorre uscire dalla regressione costituita dal volersi rinchiudere entro la propria esperienza individuale per affermare la vera cultura del cambiamento sociale, sostanziata da valori di solidarietà e condivisione: solo questo potrà abbattere egoismi e barriere culturali.

Verso il superamento dei pregiudizi

Abbiamo già avuto modo di sottolineare come l’inclusione scolastica sia strettamente legata alla disponibilità degli insegnanti, dei pari d’età e delle famiglie, le quali non di rado manifestano riserve di vario tipo, specie legate al timore che i loro figli possano derivare dalla compresenza di un disabile in classe, una sorta di riduzione del livello di apprendimento.

A titolo puramente indicativo citiamo ciò che anni fa emerse da una ricerca effettuata nell’ambito della disabilità, con riferimenti all’introduzione di alunni portatori di handicap in classi ordinarie: il 78% dei genitori intervistati si disse favorevole circa questo tipo di inserimento, ma soltanto il 5% degli stessi consentirebbe ai propri figli di frequentare, fuori dall’orario scolastico, i ragazzi disabili[6].

Pensiamo che questo la dica davvero lunga circa i pregiudizi tuttora radicati nella mentalità comune: stante questa impostazione di pensiero com’è possibile che si possano raggiungere buoni livelli di effettiva socializzazione tra gli alunni presenti in una classe, disabili e non?

Il timore che la presenza di un soggetto portatore di handicap possa ledere in qualche maniera l’interesse dei propri figli, rende spesso molti genitori sospettosi, mentalmente chiusi, circa questioni che dovrebbero essere acquisite e metabolizzate ormai da tanto.

Va da sé quindi che in troppi contesti educativi il rapporto tra disabili e scuola divenga particolarmente difficile, forzato, teso, foriero di malcontenti ed equivoci.

Sembra cosa di estrema necessità che la scuola, agenzia educativa di grande rilevanza sociale, ricuperi un ruolo educante rivolto non solo ai minori che per tradizione si trova ad avere in carico, ma parallelamente degli adulti, che spesso sono il vero fattore ostativo.

Attraverso una capillare attività di sensibilizzazione al problema, contando su ampie forme di comunicazione delle modalità operative, contenuti, forme di attività adottate a scuola, la scuola stessa può rendere partecipi anche i genitori più riluttanti e diffidenti, facendo capire in profondità cosa si intenda per “azione integrativa”.

In particolare andrebbe messo in luce come entro una simile struttura operativa votata all’integrazione, si concretizzi una situazione di sicuro vantaggio per tutti gli allievi: i cosiddetti “normodotati” potranno seguire itinerari didattici ed obiettivi commisurati ai loro ritmi di crescita psicologica e cognitiva, i diversamente abili troveranno adeguato spazio per poter operare in un rapporto interattivo funzionale con l’intero contesto operativo, secondo capacità specifiche ed abilità acquisite, continuamente suscettibili di ampliamenti ulteriori, al fine di crescere in una scuola che si ponga nei confronti di tutti i suoi utenti come momento fondamentale di socializzazione e partecipazione alla più vasta comunità sociale.

Una simile apertura al dialogo, al confronto, potrebbe anche far acquisire alla scuola una rinnovata credibilità: di fronte ai buoni risultati delle programmazioni didattiche di una scuola che operi in un’ottica di “comunità educante”, tanti genitori potrebbero ritornare su atteggiamenti e posizioni sbagliate dovuti a scarsa conoscenza del problema dell’integrazione e dell’esigenza del ricupero educativo di tutti.

Il superamento dei pregiudizi da parte dei genitori e delle famiglie gioverebbe anche alla rimozione di tutti i “timori” che gli stessi allievi “normodotati” possano nutrire nei confronti dei coetanei con disabilità: tali atteggiamenti di sospetto e rifiuto infatti, possono solo essere appresi giacché non appartengono alle strutture di pensiero del bambino che di per sé non sa edificare barriere dettate dalla paura della diversità.

Si può facilmente osservare come la compresenza di alunni diversamente abili in classe, se iniziata alla scuola materna, non costituisca particolari difficoltà per quanto concerne il rapporto tra gli allievi: anche problematiche notevoli quanto evidenti non divengono cagione di ostracismo da parte dei compagni, questo perché a quell’età non esiste ancora quel concetto distorto di “norma”, di “modello unico” a cui riferire e conformare per forza valori ed atteggiamenti.

Per il bambino non ancora condizionato, il “diverso” fa semplicemente parte del mondo variegato che lo circonda, e la sua disponibilità all’avvicinamento di questa “diversità” è davvero infinita.

Lentamente il bambino cresce ed inizia a fare propri i valori (purtroppo molto spesso anche i disvalori) che connotano il mondo degli adulti, impara osservando chi lo circonda, che chi non è uguale alla maggioranza è “diverso” nel senso dispregiativo dell’espressione, per questo costituisce elemento di disturbo perché introduce nell’uniformità qualcosa di nuovo da conoscere e nei confronti di cui dover adeguare il proprio stesso comportamento.

Il “nuovo”, il “poco conosciuto” spaventano sempre, ingenerano disagio perché richiedono uno sforzo verso l’adattamento e soprattutto il ricupero di un atteggiamento di disponibilità all’accettazione degli altri, non per ciò che in qualche modo possono rappresentare o sono in grado di dare, ma per il loro essere intrinsecamente “persone”, esseri dotati di senso.

Per queste ragioni la socializzazione tra “normali” e “disabili” in classe può divenire difficoltosa, e continuerà ad apparire ostica almeno fino a che queste due categorie non saranno spazzate via da atteggiamenti diversi, quando nell’immaginario collettivo gli allievi “normodotati” e quelli in situazione di “svantaggio” acquisiranno il medesimo livello di dignità. Solo allora si potrà parlare di vero rapporto paritario tra i componenti la classe, ergo di socializzazione interclasse.

Vorremmo sottolineare come il problema dell’accettazione dell’alunno “diverso” si ponga con particolare drammaticità anche nei confronti di molti insegnanti: semplice inserimento in classe difatti non significa neanche lontanamente vera accettazione.

Le difficoltà degli insegnanti non sono poche e non sono nemmeno elemento da sottovalutare, d’altro canto gli interrogativi che dagli insegnanti stessi provengono non sempre trovano valida risposta da parte di chi si pone come esperto.

Si passa dall’alunno che, richiedendo assistenze specifiche e continue distoglie tutti gli altri rispetto all’attività che si sta svolgendo, al caso di quello le cui “esplosioni” comportamentali suscitano nell’insegnante di turno smarrimento e scoraggiamento, stati emotivi che ovviamente non possono non essere compresi fino in fondo.

In questa sede possiamo solo sollevare questi problemi che richiederebbero ampia e specifica trattazione ulteriore: occorrerà tempo ed aggiornamento, davvero sentito ed assimilato da tutti perché queste numerose e complesse difficoltà vengano sviscerate e possibilmente superate, di modo che la presenza in classe degli alunni con disabilità possa divenire un fatto pienamente accettato da tutti e gestibile senza che provochi turbamenti nella continuità del lavoro didattico, turbamenti che crediamo derivino soprattutto da un cattivo livello di organizzazione e dal continuare a considerare la presenza del disabile un evento in qualche modo straordinario.

Orientamenti didattici e ‘buone pratiche’

Pensiamo che si possa delineare un “itinerario” che conduca alla realizzazione di un buon inserimento dell’alunno con disabilità nella classe scolastica.

Una fase iniziale potrebbe essere incentrata sull’adoperarsi affinché il soggetto
arrivi a sentirsi veramente a proprio agio; non stiamo parlando di “insegnamento a misura del disabile” ma di puntare verso l’individuazione ed il potenziamento delle strutture di personalità che gli diano modo di procedere il più possibile con le sue stesse forze, cosicché si realizzi in lui un vissuto di intima sicurezza.

A questa prima fase che potremmo definire “protettiva”, può seguirne una seconda che dovrà portare l’alunno a compiere il passaggio dall’“accettare di essere a scuola” al sentirsi entusiasta di poterci essere, provare quindi il desiderio di impegnarsi attivamente e positivamente nel lavoro scolastico.

Occorrerà che le figure professionali attorno a lui si impegnino verso un’azione “socializzante” graduale, evitando di mettere il soggetto di fronte ad ostacoli e difficoltà insormontabili rispetto alle sue forze ed alla sua ovvia confusione emotiva iniziale.[7]

Crediamo sia molto importante vincere già sul nascere ogni tipo di “complesso di inferiorità” che possa ingenerarsi nell’alunno con disabilità: anche messi di fronte ad un soggetto con un potenziale intellettivo molto basso, potremo adoperarci affinché impari a fare della propria intelligenza, il miglior uso possibile, ponendo sempre il soggetto dentro le attività della vita di classe.

Va anche ricordato come il bambino-adolescente disabile sia sempre bisognoso di ritrovarsi all’interno di un contesto connotato da vera affettività: non ci riferiamo al generico, quando non becero e pietistico “voler bene”, ma alla disponibilità da intendersi in senso pedagogico, sinonimo di servizio per la crescita del soggetto verso l’autonomia: l’itinerario da seguire è proprio quello che và dalla protezione all’autonomia, ogni passo compiuto verso l’autonomia costituisce un grande successo.

Appare quindi chiaro come gli alunni in situazione di handicap debbano più di ogni altra cosa partecipare alle attività fondamentali della classe, sentirsi parte della stessa, trovarvi punti fissi di riferimento così da realizzare infine un rapporto inclusivo fondato sulla cooperazione vera e propria.

La sincerità e la franchezza che l’insegnante dimostrerà all’alunno influiranno beneficamente sulle sue possibilità di socializzazione attiva e sul suo stesso sviluppo psichico[8].

Il momento educativo specifico dovrà essere affrontato dagli insegnanti in modo congruo con le possibilità oggettive di interazione tra il disabile e gli altri. Per questo si mostrerà necessario instaurare in classe un clima gratificante teso alla valorizzazione delle potenzialità di ogni singolo allievo, verso la realizzazione di una scuola su misura di ciascuno, una scuola che sia davvero ‘per tutti’ a prescindere dalle eventuali condizioni di differente abilità.

L’insegnante di sostegno collaborerà attivamente con il collega curricolare nella predisposizione di intelligenti piani didattici che contemplino interventi individualizzati così come opportuni lavori di gruppo, entro cui ogni allievo possa prendere coscienza circa le proprie capacità, al fine di farne uso.

Per precisa disposizione ministeriale, l’insegnante di sostegno deve a pieno titolo essere coinvolto nella programmazione, nel sistema di verifica delle attività e deve divenire parte attiva nel novero dei collegi docenti.

Questo per sottolineare come l’insegnante di sostegno non possa e non debba mai operare da solo, ma sempre in sintonia con il resto dei docenti di cui fa parte a pieno titolo.

Crediamo sia molto importante insistere anche su una programmazione che non abbia caratteristiche di rigidità, che non veda il soggetto disabile costretto a fare sempre e solo ciò che altri hanno deciso per lui, ma che al contrario, sia aperta alle iniziative e idee eventuali dell’alunno: questa può costituire una strategia molto importante tesa a rendere l’insegnamento interessante per tutti.

Considerazioni conclusive

Con tutto quello che abbiamo cercato di sottolineare fin qui, non si intende auspicare un’organizzazione scolastica perfetta nelle sue strutture, programmi e metodologie, la quale, anche qualora si riuscisse a realizzare, non basterebbe per risolvere tutti i problemi che si frappongono all’integrazione effettiva delle persone con disabilità nella società.

Pensiamo piuttosto che le difficoltà debbano costituire altrettante spinte a continuare nella giusta direzione un’opera necessaria ed ineludibile, fare si che a scuola, sul lavoro, in società, le persone con handicap possano riottenere in tutto e per tutto quel posto che spetta loro di diritto, così come spetta di diritto a tutti gli altri.

Se la famiglia, l’amministrazione scolastica, gli Enti locali e le associazioni private tutte, sapranno impegnarsi e soprattutto coordinare i compiti specifici che ad ognuna di esse competono, le persone con disabilità potranno finalmente vivere all’interno di un reale contesto di accoglienza ed inclusione: questo raggiungimento andrebbe a costituire un grosso arricchimento per l’intera collettività.

Per quanto riguarda lo specifico della scuola – specifico di cui ci siamo occupati in questo saggio – gli ideali che abbiamo cercato di delineare potranno vedere la luce nell’ambito di un nuovo modo di esistere della scuola stessa, che possa regolare certi equilibri oggi ancora precari nella direzione della valorizzazione delle potenzialità di ogni alunno, da intendersi come ricupero del diritto alla propria originalità ed individualità.

Una scuola – auspichiamo – che si ponga come obiettivo primario il raggiungimento da parte di ciascun alunno di imprescindibili traguardi di apprendimento, entro cui non figurino solo quelli relativi all’acquisizione di abilità culturali, ma la conquista dell’autonomia, lo sviluppo delle abilità espressive e comunicative, la conoscenza dei più importanti strumenti logici e linguistici ecc.

Vorremmo evidenziare come non si tratta affatto di negare la diversità, fingendo che gli alunni disabili non siano gravati da problemi di sorta, questo anzi condurrebbe a dequalificare l’inserimento e la derivante socializzazione producendo addirittura più gravi forme di emarginazione: montare una sorta di farsa che faccia apparire l’alunno con handicap come perfettamente scolarizzato ed integrato nel gruppo quando alla resa dei conti non è affatto così significherà solamente continuare ad occultare un problema dietro la parvenza costituita da un mero recepimento fisico.

Quello che auspichiamo, in sintesi, è una scuola che si voti veramente alla politica dell’integrazione, anziché conservarne soltanto l’etichetta formale, una scuola che non distingua più tra attività didattiche “normali” e attività didattiche “integrative”, presupponendo l’esistenza di uno iato tra le due dimensioni, ma che consideri tutto come alta occasione di formazione in rapporto agli effettivi bisogni di ogni singolo alunno.

Una scuola che come molto opportunamente riassume A. Flores “sia funzione di un gran numero di docenti altamente qualificati e di strutture tecnologiche e didattiche ben programmate”[9].

E’ desiderio di tutti che questa battaglia di civiltà, possa essere vinta su più fronti in un futuro non troppo lontano.

Più che una forte richiesta di soluzioni totalizzanti, la società contemporanea dovrebbe saper formulare richieste parziali e graduali, in ordine ad importanti obiettivi da raggiungere a breve, medio e lungo termine: ciò renderebbe via via visibili i successi ottenuti e servirebbe anche per gratificare e spronare tutti coloro che vi si impegnano seriamente.

Un atteggiamento globale come quello che abbiamo cercato di descrivere in queste pagine dovrebbe essere l’aspetto esteriore di una profonda sincerità di ideali e di interessi da parte di tutti i professionisti impegnati nel condurre questa battaglia, ben consapevoli del fatto che purtroppo ci si trovi in un contesto sociale spesso caratterizzato da confusione soprattutto in ordine a determinati orientamenti operativi che dovrebbe invece saper erogare costantemente. Ogni ricerca di senso per essere efficace deve “trapassare dal momento teoretico e problematico a quello metodologico, sempre sul filo conduttore e sull’onda portante del fondamento esistenziale come presenza costante nell’indagine del fenomeno sociale della scuola…”[10].

Quelli che abbiamo cercato di tratteggiare in questo saggio sono, a nostro avviso, alcuni tra i più importanti “traguardi” di una scuola che possa veramente iniziare a porsi, come del resto impone la Costituzione stessa, quale pubblico servizio, così che ogni alunno, “abile” o “disabile” che sia, abbia modo di sviluppare pienamente la propria personalità, abbia modo di esercitare i propri diritti e doveri, entro una scuola che non sia più votata soltanto alla “trasmissione della cultura” che spesso rimane sterile ed inefficace,
ma anche, e diremmo, soprattutto, laboratorio di esperienze e conoscenze, in ordine all’inclusione e conseguente socializzazione che ogni alunno deve poter sperimentare, libero dagli effetti di qualsiasi discriminazione.

Bibliografia

Patrizia Gasparri “Il labirinto dell’handicap” Giunti Lisciani Editore, Firenze, 1990

Nicola Cuomo “Pensami adulto” Utet Libreria, Torino, 1995

Dario Ianes, Mario Tortello, “Handicap e risorse per l’integrazione”, Erickson, Trento, 1999

Luciana Sbarbati “Handicap e integrazione scolastica” Armando editore, Roma, 1998

Andrea Canevaro, Cristina Balzaretti, Giancarlo Rigon “Pedagogia speciale dell’integrazione” La Nuova Italia, Scandicci (Fi), 1996

Francesco Iesu “Handicap e integrazione” Tecnodid, Napoli, 1984

Giorgio Moretti “Educare il bambino disabile” La Scuola editrice, Brescia, 1992

Giuseppe Bertagna “Cultura e pedagogia per la scuola di tutti” La Scuola editrice, Brescia, 1992

Luigi D’Alonzo “Integrazione del disabile, radici e prospettive educative” La Scuola editrice, Brescia, 2008

Luigi D’Alonzo “Disabilità e potenziale educativo” La Scuola editrice, Brescia, 2002

Lucia De Anna “Pedagogia speciale” Guerini Studio, Milano, 1998

Luigi D’Alonzo “Gestire le integrazioni a scuola” La Scuola editrice, Brescia, 2008

Pierangelo Barone, “Pedagogia della marginalità e della devianza” Guerini Studio, Milano, 2001

Piero Bertolini “Per una pedagogia del ragazzo difficile”, Malipiero, Bologna, 1965

Mario Gennari “Pedagogia degli ambienti educativi”, Armando, Roma, 1997

www.dienneti.it/handicap.htm

www.handylex.org

www.accaparlante.it

www.indire.it

www.risposteh.it

[1] Jacob Levi Moreno, psicologo, nato a Bucarest nel 1892, le tecniche da lui ideate hanno applicazione terapeutica.

Si veda per una trattazione esaustiva:

G. Boria “Lo psicodramma classico” ed. Franco Angeli, Milano (1997);

J.L. Moreno “Principi di sociometria, psicoterapia di gruppo e sociodramma” Ed. Etas

J.L. Moreno “Il teatro della spontaneità” Guaraldi editore, Rimini-Firenze (1973)

[2] Si veda: Alberto Agosti “Gruppo di lavoro e lavoro di gruppo. Aspetti pedagogici e didattici” ed. Franco Angeli

[3]A titolo esemplificativo si potrebbe ipotizzare la creazione di tre livelli corrispondenti a tre diverse dimensioni all’interno di cui si desidera indagare: amicizia, lavoro e gioco. Una domanda relativa alla prima dimensione potrebbe essere: “chi sceglieresti come compagno di banco?”. Per indagare entro la seconda dimensione: “con chi pensi ti troveresti bene per lo svolgimento di un lavoro di gruppo?”. Per la dimensione “gioco”: “chi vorresti invitare ad un pic-nic?” Tutte e tre le domande possono essere utilizzate sia per testare il livello “accettazione” così come quello di “rifiuto”.

[4] Per una trattazione completa della Legge 517/77 rimandiamo a: www.italgiure.giustizia.it/nir/lexs/1977/lexs_257089.html

Citiamo inoltre la C.M. n° 228/76 che fissava il numero di venti alunni per le classi con la presenza di un portatore di handicap, le CC.MM. n° 169 e n° 178 del 1978 e la n° 159 del 1979 che definivano i compiti dell’insegnante specializzato e aprivano alla collaborazione tra scuola e servizi assistenziali e sanitari degli enti locali. Ricordiamo anche la C.M. n° 199 del 1979 che definiva più specificatamente i compiti dell’insegnante di sostegno oltre a fornire le prime indicazioni sulle metodologie per la certificazione dell’handicap che comprendevano la “descrizione funzionale” e la C.M. n° 206 del 1979 che specificava la differenza tra attività di sostegno ed integrazione.

[5] Per una trattazione completa si rimanda a: www.giustizia.it/cassazione/leggi/104_92.html

[6] Maria Vittoria Nodari “L’handicappato, uno di noi” Atti del tredicesimo convegno sui problemi internazionali tenutosi a Recoaro Terme dall’11 al 14 Settembre 1980, edizioni Del Rezzara, 1981

[7] Ricordiamo il principio generale sottolineato da Jerome Bruner secondo cui “ogni idea, ogni problema o insieme di cognizioni, possono essere presentati in termini sufficientemente semplici da consentire ad ogni scolaro di comprenderli in una forma riconoscibile”.

Si veda: J. Bruner “Verso una teoria dell’istruzione” ed. Armando, Roma

[8] Si confronti: M. Klein “Scritti 1921-1958” Boringhieri, 1978

[9] A. Flores “Gli handicappati e la scuola integrata” in Rivista giuridica della scuola, fasc. 2, marzo-aprile 1983

[10] A.M. Musu “Educazione ed esistenza” R.A.D.A.R., Padova, 1967