Donne e cambiamenti

Le tematiche relative alle differenze sessuali e di genere e al loro sviluppo in ambito educativo hanno avuto nel tempo alterne vicende e conosciuto diverse elaborazioni e pratiche. Credo utile delinearne una brevissima storia per arrivare a identificare i temi più significativi all’interno della prospettiva più generale e collocarvi quindi anche il senso di questa nostra raccolta di contributi. Procederò per brevi accenni, che possono illuminare taluni passaggi in un tempo che copre alcuni decenni. Il femminismo degli anni Settanta non ha avuto la scuola o l’educazione tra i temi di interesse prevalente: altre sembravano le urgenze, le aree di riflessione, di sviluppo di esperienza per le donne che iniziavano un lavoro su di sé, per mutare innanzitutto le loro vite e le loro presenze nel mondo. ….

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Donne e cambiamenti

Le tematiche relative alle differenze sessuali e di genere e al loro sviluppo in ambito educativo hanno avuto nel tempo alterne vicende e conosciuto diverse elaborazioni e pratiche. Credo utile delinearne una brevissima storia per arrivare a identificare i temi più significativi all’interno della prospettiva più generale e collocarvi quindi anche il senso di questa nostra raccolta di contributi. Procederò per brevi accenni, che possono illuminare taluni passaggi in un tempo che copre alcuni decenni. Il femminismo degli anni Settanta non ha avuto la scuola o l’educazione tra i temi di interesse prevalente: altre sembravano le urgenze, le aree di riflessione, di sviluppo di esperienza per le donne che iniziavano un lavoro su di sé, per mutare innanzitutto le loro vite e le loro presenze nel mondo. Eppure molte di noi erano – e posso usare un plurale che mi comprende – se pure a diverso titolo, all’interno di realtà educative: numerose insegnanti, ma anche studentesse di università. Il nostro impegno, però, nella scuola o nelle accademie, dove spesso eravamo attive nei movimenti studenteschi o antiautoritari, almeno inizialmente, non si saldò con quella che doveva ben presto divenire la nostra passione, l’interesse centrale rispetto a ogni altro, il lavoro con le donne: i due ambiti – ed era un’esperienza individuale e al tempo stesso collettiva – restarono a lungo separati. Ma vi fu poi, per alcune, l’apertura a un’esperienza, quella dell’educazione degli adulti nelle 150 ore, che consentì una possibile riunificazione dei percorsi1. E nelle 150 ore, nei corsi per il conseguimento del diploma di terza media e in quelli monografici, si sviluppò intorno alla fine degli anni Settanta, primi anni Ottanta, una complessa e intensa ricerca, uno scambio tra donne molto differenti per condizioni sociali e possesso di strumenti culturali. Crebbe una domanda reciproca di relazione e di relazione con i saperi e il loro potere, resa particolare da una situazione pedagogica assolutamente nuova, dove la vicinanza tra donne diverse costringeva a una riflessione e a una verifica su un terreno, quello della deprivazione sociale, mai affrontato nei gruppi di autocoscienza. D’altronde la questione delle differenze tra donne si poneva allora in modo ancora molto teorico e astratto e il contatto con “altre” donne metteva le insegnanti, femministe, di fronte alla necessità (e possibilità) di verificare le “scoperte” legate alla propria condizione simbolica e sessuale con coloro che, per storia, per età, e per possibilità sociali e culturali avevano seguito il “normale destino femminile”2. Il patrimonio che si sviluppò in quell’ambito educativo tra donne adulte, fu senz’altro il contributo principale del primo femminismo alle tematiche dell’educare e meriterebbe di essere recuperato e valorizzato, mentre al momento giace spesso negli archivi personali di alcune insegnanti. Successivamente, nella seconda metà degli anni Ottanta, all’interno del pensiero della differenza sessuale, si svilupparono una riflessione e una pratica pedagogica, che a questo stesso pensiero facevano riferimento, a partire da una critica, che rilevava, appunto, il problema dell’assenza, cancellazione teorica della differenza sessuale nel discorso della pedagogia e delle scienze dell’educazione, per cui, ancor oggi, nella vita e nella scuola – in una scuola che dice di aver smesso di discriminare e da un po’ di tempo predica il valore dell’uguaglianza nelle diversità – le bambine e le ragazze scontano questa povertà di segni femminili con la difficoltà a definire aspirazioni e desideri di esistenza sociale e professionale futura, con un impasse dell’immaginario, o con un immaginario smisurato3. Si trattò di un importante contributo teorico e di pratiche educative all’interno di ogni ordine scolastico, che si tradusse nel lavoro e nell’impegno di molte insegnanti, se pure con una diffusione irregolare sul territorio nazionale. Ma nel frattempo qualcosa si muoveva anche sul terreno istituzionale: le politiche delle pari opportunità, che si erano sviluppate maggiormente in altri ambiti, iniziavano a occuparsi anche di scuola ed educazione. Alla fine degli anni Ottanta, su pressione delle donne del sindacato in occasione di un rinnovo contrattuale della scuola, si costituì presso il Ministero pubblica istruzione il Comitato pari opportunità e, progressivamente, nei vari Provveditorati venivano nominate referenti e nascevano gruppi di lavoro su questa tematica. Nel tempo furono elaborati due Piani nazionali per le pari opportunità nell’istruzione, che toccavano e sollecitavano le iniziative delle scuole su temi centrali, fondanti le culture di genere in educazione: la necessità di un aggiornamento specifico per i/le docenti, le nuove relazioni pedagogiche, l’orientamento per le ragazze, l’educazione sessuale, l’educazione alla cittadinanza. A questo sforzo non corrisposero i risultati di diffusione che ci si poteva aspettare: le istituzioni centrali e locali si mostravano opache, non ostili ma poco ricettive rispetto a una tematica non compresa e, quindi, considerata secondaria. Non vi fu, inoltre, uno scambio sufficientemente significativo tra le insegnanti che praticavano una didattica all’interno della pedagogia della differenza sessuale e le proposte che venivano dal Comitato o dai gruppi presso i Provveditorati, anzi vi era soprattutto separatezza, se non ostilità, tra due percorsi che non si legittimavano vicendevolmente. L’attenzione, quindi, le teorie, le pratiche legate alla prospettiva pedagogica delle differenze sessuali e di genere – e già l’uso dell’uno o dell’altro termine indicava una scelta di campo – non ebbero mai nel nostro Paese e nelle nostre scuole uno sviluppo diffuso, ma piuttosto localizzato in alcune realtà, territoriali o addirittura di singoli istituti, in cui peraltro il livello di elaborazione teorica e anche delle pratiche pedagogiche ha toccato spesso punte di eccellenza e prodotto interventi educativi e didattici esemplari. Le tematiche, quindi, del “genere in educazione” sono rimaste negli anni, al tempo stesso risorsa elitaria e relativamente marginale, e tali appaiono ancora ora: suscitano grande interesse e profondo coinvolgimento in chi le condivide e pratica, ma una certa estraneità nelle e negli altri docenti e, di conseguenza, un interesse limitato tra gli studenti e le studentesse. I motivi sono complessi, ma credo si possano identificare nella radicalità che l’assunzione di un’ottica di genere propone a chi la teorizza e la pratica: essa infatti pone a critica tutto il complesso dei principi pedagogici e degli strumenti didattici tradizionali, l’organizzazione stessa, i tempi, le relazioni che si muovono e si stabiliscono nei luoghi dell’educare. La pedagogia delle differenze di genere propone innanzitutto ai docenti e alle docenti una riflessione sulla propria identità personale e professionale, la necessità di percepirsi, viversi e agire educativamente come donne e come uomini; non riconoscersi da parte loro nella propria appartenenza di genere rende infatti invisibili allo sguardo i contorni delle identità sessuali di studenti e studentesse o meglio, poiché tale identità non viene discussa e messa a tema, se ne legittimano stereotipi e ruoli tradizionali. Propone una critica alla concezione stessa del sapere trasmesso ancora vincolata alla sua universalità, che non riesce ad aprirsi, o si apre con difficoltà, alla possibilità di relativizzarlo, renderlo parziale, nel momento in cui si accetti la sua origine legata a un solo genere, quello maschile, e la possibilità, quindi, che esistano altri percorsi di cultura ed esperienza, elaborati e vissuti dalle donne. Propone una differente concezione dei valori del fare scuola, del fare educazione, in cui l’assunzione di posizioni e prospettive di neutrale parità non appaiono adeguate a offrire significato e visibilità alle parzialità e alle differenze, che studenti e studentesse vivono e rappresentano nel loro essere, nelle scelte e nei progetti, a partire dalla differenza originaria di appartenenza sessuale. Tutto questo rende pervasive le culture pedagogiche delle differenze sessuali e di genere a ogni momento di riflessione e pratica educativa e, allo stesso tempo, le rende difficili da accettare e praticare, poiché discutono e pongono a critica ogni esperienza, ogni approccio al sapere, ogni rapporto tra docenti e con i/le discenti. Appaiono però assolutamente necessarie, e senz’altro a noi che da tempo ne abbiamo fatto impegno centrale di riflessione, perché i propositi e gli obiettivi dell’educare sappiano rispondere, con competenza, alle domande che i mutamenti di identità e di relazione tra i sessi propongono con urgenza. Perché la scuola e gli altri luoghi educativi non divengano specchi opachi di quanto avviene nel contemporaneo, ma sappiano piuttosto accogliere le ricerche e i bisogni delle “vite vere” di giovani donne e uomini, attraverso saperi e relazioni pedagogiche che mettano a tema il mutamento, sappiano offrire a studenti e studentesse terreni di approfondimento, sviluppo di riflessività e progettualità.
I diversi contributi che seguono queste mie note introduttive toccano alcuni dei temi più urgenti e significativi all’interno della complessa problematica dell’educazione di genere e più in generale – ma mi sembra che i due ambiti in larga misura coincidano poiché l’educare occorre abbia continuo scambio, osmosi con i cambiamenti sociali e individuali – discutono del divenire di nuove soggettività sessuate, del loro differente porsi nei rapporti, a scuola, nelle famiglie, nelle relazioni affettive, tra i due sessi, tra diverse generazioni. I cambiamenti che dal femminismo degli anni Settanta le donne hanno saputo avviare per sé hanno creato la necessità anche del mutamento maschile e le nuove generazioni, nuove donne e nuovi uomini, vivono ora un senso di sè e di sé nel mondo e nelle relazioni, profondamente cambiato anche rispetto a chi quel mutamento ha iniziato. Vivono, più o meno consapevolmente, desideri legittimi di progettarsi percorsi di vita in forme nuove rispetto al passato. Eppure questi desideri legittimi hanno bisogno di riferimenti, anche in storie già narrate, per dare alimento al racconto di sé che ciascuno e ciascuna sta costruendo, nel personale dialogo di intimità, nelle relazioni con gli altri e le altre, con la realtà. Chi educa può aiutare a delineare, attraverso relazioni pedagogiche significative e in un innovato rapporto critico con i saperi – presentati nel loro valore e, al tempo stesso, parzialità di esperienze vissute di donne e uomini del passato che hanno costruito, pur con differente visibilità, le storie del mondo – lo sfondo in cui le giovani e i giovani possono collocare le proprie storie personali, in cui possono ritrovarsi coi propri vissuti, negli orizzonti del desiderio, nel sentimento e progetto di sé per il presente e verso il futuro.

* Docente di Pedagogia delle Differenze di genere presso l’Università di Milano Bicocca