Educare al pensiero scientifico

Intervista ad Antonio Erbetta*

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Guida, Piacente: Vogliamo dedicare il prossimo numero alla educazione, o alla educabilità, al pensiero scientifico. Ci siamo detti, in redazione, della separazione – tutta nostra e, peraltro, da dimostrare – tra cultura umanistica, che ha prodotto generazioni di frustrati tecnologici e scientifici, e cultura scientifica, spesso virata al tecnologico, che bellamente ignora aperture e sensibilità di tipo umanistico, per non parlare di pedagogia e didattica, fosse pure delle materie scientifiche.

Si dice che siamo figli di un sistema formativo che risente del taglio idealistico . Ci siamo posti il problema di come nella scuola di oggi si stia cercando di sopperire a queste separatezze e, anche laddove si cerca di farlo, in realtà si tratta di esperienze a macchia di leopardo e difficilmente sussumibili in un discorso di tendenza. Vogliamo esplorare un pò, con te, le ragioni storico-filosofiche di questa separatezza, vedere se si tratti di una irremissibile condanna o se ci sono riflessioni, suggerimenti, letture critiche atte a creare opportunità di trasversalità, a creare zone di frontiera nella ricerca anche accademica.

Ci siamo chiesti se tutto quello che si dice di ?male? di questa tendenza sia imputabile alla riforma gentiliana o se non ci sia qualcosa di più radicato e forse meno nobile, per certi aspetti, per cui viene abbastanza facile fuggire dalle proprie responsabilità ed imputare tutto a Gentile e all’idealismo. Vorremmo un tuo parere .

Erbetta: Questa riflessione mette insieme, secondo me, tre questioni. La prima questione è relativa in generale alla questione teorica della separazione tra formazione umanistica e formazione scientifica, che dietro le quinte ha l’esistenza o meno di una cultura scientifica o di una cultura umanistica. La seconda questione non è tanto relativa alla cultura di senso alto, ma più socialmente diffuso di una presenza di disarticolazione delle attitudini di ciò che poi Gardner ha cercato di ricomporre con la forma mentis e quali sono le ragioni più o meno segrete che possono aiutarci a capire questo tipo di disarticolazioni. E la terza questione è, dal punto di vista storico, se poi è vero che questa disarticolazione così come quella divisione di cui parlavamo prima hanno una paternità specifica nella tradizione idealistica o neoidealistica italiana con la sua evidente ricaduta eventuale sulla società italiana tramite la presenza pervasiva della riforma Gentile, che è vero è una riforma di 80 anni fa ed è vero che è una riforma, come si dice oggi, riformata ma che comunque ha coperto tutto il 900 italiano e che secondo me continua largamente ad essere presente si è disarticolata a sua volta e si è resa inerme nei suoi punti di forza. Prenderei quindi tre aspetti e li prendo anche in forma provocatoria.

Per quanto riguarda il primo aspetto, cioè il discorso di una formazione scientifica e di una formazione umanistica che però invia subito al problema dell’esistenza di una cultura scientifica e di una cultura umanistica, va detto che se lo cogliamo sotto il gusto un po’ ironico di guardare le cose, bisogna dire con una certa tranquillità che quando noi parliamo di cultura umanistica e di cultura scientifica in Italia, ne parliamo in termini prevalentemente retorici . L’Italia è un paese retorico.

G./P.: Siamo pronipoti di Gorgia (Empedocle)…

E.: La retorica
di oggi è ancora più sporca e inquietante di quella che maneggiava Gorgia. Gorgia tuttavia i suoi giorni li finisce con grande drammaticità esistenziale, buttandosi giù dal vulcano, paga con la vita. La nostra retorica è melodrammatica. ? una retorica scaltra, furbesca, un po’ lazzarona, ma non indulgiamo su questo. Perché dico che c’è un sentore retorico in questo discorso. Perché quando si parla di distinzione tra cultura scientifica e cultura umanistica viene in mente un momento oggi datato nel dibattito culturale italiano, nel senso che fu negli anni 50 che in Italia ebbe uno straordinario successo, di uno scrittore inglese anche scienziato Charles Snow che scrisse un libretto che si chiamava proprio Le due culture. Ha pubblicati in Inghilterra, relativo alla cultura inglese, immediatamente esportato in Italia, pubblicato da Feltrinelli negli anni 50. In questo libro, con la prefazione di Gemonà, poneva la questione delle due culture diceva quello che noi comunemente diciamo, cioè il discorso, secondo cui, se un uomo è di cultura è tenuto a sapere non solo chi era Shakespeare, ma che abbia anche frequentato il teatro shakespeariano non solo da cultore, ma anche come uomo di mondo. Un uomo che non conosca Shakespeare non è un uomo colto, e lì Snow diceva, diremmo la stessa cosa di un uomo che non conosce il II principio della termodinamica? Che tuttavia è patrimonio decisivo della cultura moderna senza del quale non si capisce nulla. Questa posizione di Snow che negli anni 50 enfatizzava questa distinzione appartenga sostanzialmente ad un momento veramente datato della cultura europea e anche italiana. Questo può essere non particolarmente visibile, ma l’idea oggi che esista una cultura umanistica in cui la riflessione si possa davvero affidare alla retorica della comunicazione senza che in essa per esempio ci sia in maniera radicale, costante, riflessiva, la concretezza, l’abito della ricerca. Direi che è lo stesso luogo comune che faceva dire a mia nonna contadina che da grande farai l’avvocato perché hai la parlantina. Ora questo direi che è una banalità .

Prendere in mano oggi un libro di filosofia che non si misura costitutivamente con la cultura scientifica è follia pura. Non ne conosco. Se ci sono dei poveri malati con un eruditismo di altri tempi chiuso. Neppure la storiografia, che si interroga sulla ricostruzione di uomini e luoghi in una dimensione ermeneutica, è una storriografia che passava attraverso gli annali di Rodel e di Lefer, cioè la stessa consistenza concreta delle situazioni sociali. Nessun storico fa una storia di un certo tipo.

G./P.: Dall’inibizione storica alla storiografia (?)

E.: Questo per la storia. Questo per la ricerca in generale. Questo per dire che la dimensione umanistica e la dimensione scientifica oggi si sono, in qualche modo, potentemente intrecciate comunque molto più di quanto si sia reso possibile mostrare che non nel passato. Il fatto poi che sul piano del curricolo formativo la dimensione scientifica e la dimensione umanistica vivano, per così dire, una sostanziale separatezza, questo, a sua volta tiene, a quell’elemento di caduta dell’attenzione culturale e critica della scuola, la quale sta intercettando il suo compito nei termini di una avanguardia civile che sia capace di interpretare davvero il problema reale del mondo che la circonda, ma sembra sempre di più disarticolata, frantumata in una sorta di sua incapacità morale e culturale di corrispondere al compito storico che le si attribuisce.

G./P.: una rimasticazione autofondante (?)

E: non dobbiamo dimenticarci, sotto questo profilo che negli anni 70, la scuola italiana, magari attraverso anche velleità e turbamenti e quantaltro, in una scuola in cui il tipo stesso di comunicazione culturale avveniva progressivamente nell’impasto di nuove sperimentazione che erano insieme scientifiche, didattiche, tecniche.

G./P.:DeBartolomeis di Torino

E: Ma io non volevo che fosse citato e non lo volevo citare. Però certamente ciò che si dice oggi del tempo pieno mi sembra abbastanza esemplare. Caduta un momento straordinario della scuola italiana che pensiamo a quanti nel momento in cui entrò in gioco il discorso della matematica, l’insiemistica e come questa si sposasse alle possibilità di sperimentazione artistica e letteraria, insomma un vero…..

G./P.: c’era fermento

E: ma l’elemento costitutivo di quel fermento che riusciva e tenere insieme questa costellazione di forme cognitive e sentimentali nasceva da qualcosa che oltrepassava gli specialismi disciplinaristici. Nasceva da una precisa assunzione di responsabilità civile e culturale.

Per riprendere il discorso e per chiuderlo, pensavamo a come sia curioso che il fatto che partire dalla distinzione tra cultura scientifica e cultura umanstica bisogna fare i conti con una scuola che non riesce a tenere insieme una costellazione delle molteplici forme cognitive in nuovi percorsi, per una crisi politica della sua struttura e della sua capacità di incidenza a livello sociale. C’è però tuttavia, per ritornare al nostro discorso di origine, direi, e Snow negli anni 50 aveva, qualche buon diritto, per altro lui il diritto lo esprimeva veramente in termini rigorosi, che valeva per un astrale (?) ma con un’attenzione specifica per i processi educativi. Lui se la prendeva con la scuola inglese che paradossalmente gli sembrava tutta curvata sul piano umanistico e non sul piano scientifico. E anche vera una seconda considerazione che quando noi spesso parliamo di cultura umanistica e cultura scientifica in realtà…..Eppure in Italia ha avuto dei grandi elementi di dibattito forte chi si dimentica di ciò che per esempio per tutti gli anni 50 e 60, ha caratterizzato il dibattito politico culturale sull’insegnamento del latino in Italia, che era una vero capitolo di questo dibattito tra la cultura scientifica e la cultura umanistica. Mi ricordo, il mio amatissimo Antonio Banfi, senatore del PCI che polemizzava con Concetto Marchesi, in famosi interventi in favore del latino dove Banfi, rivendicando il primato dell’uomo copernicano, rivendicava la via politecnica dell’educazione e lui che era un classicheggiante per eccellenza però educava all’esigenza dell’educazione tecnica, ma dove per esempio Marchesi rimaneva legato. Bisogna guardarsi dai luoghi comuni, se per un verso può suonare esitante o patetico il vecchio discorso per esempio dei latinisti che evocavano il latino come disciplina che serviva ad affinare, come fa qualunque lingua. Voglio dire che in realtà, quando noi parliamo di cultura scientifica e cultura umanistica, nella loro separazione, in realtà spesso, noi parliamo di cultura scientifica, si, ma in realtà intendiamo tecnologia. Il discorso non è così assolutamente strano però certamente definisce, curva il discorso.

Entra in ballo un problema complicato e per essere chiaro mi rimetto ad un film. Mi viene in mente? Non ci resta che piangere? di Roberto Benigni e Massimo Troisi, dove il problema della modernità che si intrattiene con la tecnica è esemplarmente messa in gioco con intelligenza strepitosa; messa in gioco da Benigni e Troisi. Se vi ricordate Benigni e Troisi con una sorta di gioco magico, senza neppure la macchina del tempo, in una notte tempestosa, si ritrovano nel 1492. poi con un risvolto comicamente ideologico per il tentativo di non far nascere gli Stati Uniti d’America, che fallisce ovviamente come ben sappiamo. Forse qualcuno potrebbe dire purtroppo sappiamo!!! Benigni e Troisi trovano un fantomatico posto che si chiama Frittole, e si trovano, come nel gioco tipico della macchina del tempo, in un mito, in un sogno ricorrente dell’uomo, si ritrovano indietro, di 5 secoli. Nel gioco all’indietro di 5 secoli, essi vivono l’impatto che dapprima li spaventa, li terrorizza perché si rendono conto di essere finiti in un mondo dalle passioni violente, non governato dalle forme, dai modi, dalla civiltà. Ma per un istante scatta loro la suggestione, l’idea di potere essere i portatori di un sapere che applicato in un mondo attraversato dall’ignoranza e dall’arretratezza potessero far valere le loro armi e cominciano disperatamente a porsi il problema di costruire un gabinetto e si accorgono che non sono assolutamente in grado di costruire un gabinetto e quando incontrano Leonardo da Vinci, spiegano a Leonardo che cosa è un treno e li c’è un gioco tragicomico. Questo film è la percezione intelligente che più noi esperiamo una mentalità tecnologica, più viviamo immersi nella tecnologia più siamo arcaici perché ci allontaniamo e meno sappiamo. Questo fenomeno…

G./P.:.. lo abbiamo visto la notte del black – out

 E: E questo fenomeno smentisce abbastanza un luogo comune. Noi viviamo nella tecnologia ma viviamo immersi un una tecnologia, in una struttura tecnologica, da questo però arriverò a quale la ragione che sta segretamente sotto a questa difficoltà di unire dimensione umanistica e dimensione scientifica per una formazione insieme umanistica e scientifica. Questo esempio
che facciamo rispetto alla tecnologia nella quale siamo immersi, ma tanto più siamo immersi nella tecnologia tanto più siamo arcaici, nel senso che siamo disarmati sempre più nella nostra nuda soggettività.

G./P.: siamo fruitori incompetenti della tecnologia

E: e non potrebbe essere diverso perchè la tecnologia rispetto alla scienza ha questa caratteristica di non potere che essere infinitamente sempre più specificatamente specialistica. Allora perchè la tecnologia ha bisogno di inserimenti specialistici, non può esattamente il contrario dell’uomo copernicano, del mito leonardesco. Se questo è vero , questo è anche vero dal punto di vista del linguaggio umanistico. Oggi noi possiamo dire che chiunque di noi rappresentante di un ceto medio, oggi nei termini tradizionalmente umanistici del linguaggio che ha a disposizione è tragicamente più povero dal punto di vista della propria rappresentazione simbolica di quanto non lo fosse un artigiano alla fine dell’800. Perchè l’artigiano della fine dell’800 aveva a sua disposizione il suo linguaggio quotidiano, magari povero ed essenziale, più le 10 lingue specialistiche nei suoi termini elementari delle 10 cose che sapeva fare. L’artigiano, o comunque colui che se ne stava a fare il proprio lavoro sapeva fare l’idraulico, sapeva zappare la terra, sapeva fare e possedeva i linguaggi specialistici che gli davano la possibilità di una rappresentazione simbolica infinitamente più complessa di quella che ho io. Non ho nessuna possibilità. Perchè quello che era l’inganno umanistico del latinorum di manzoniana memoria è il tecnicorum moderno.

Certo resta poi il centro del nostro discorso il problema della scuola, ma una discorso che allora se è vero che prima noi evocavamo il problema etico ? politico di una scuola che perde il senso della rigidità morale e che li in quella perdita vive la scissione e l’incapacità di governare le costellazioni dei saperi. Qui noi siamo in presenza di un problema analogo; siamo in presenza di una frammetarietà che si dice dovere essere integrata e risolta in una forma di competenza nuova, ma che invece viene accelerata dai processi disgregazione e divisione del lavoro. Noi oggi viviamo una nuova divisione del lavoro. La divisione del lavoro a cui noi eravamo abituati, così come si è presentato all’inizio del 900, il lavoro e quindi anche l’educazione al lavoro, sono acqua fresca rispetto alla rottura epistemologica che oggi investe il mondo del lavoro e che settorializza volendo intenzionalmente chiuderlo nella logica del semi lavorato, il lavoro manuale, intellettuale, scientifico e tecnico. Non è vero che il mondo della produzione vuole una scuola che prepari all’unità di un uomo ………

La scuola come istituzione politica è la cassa di risonanza che registra in chiave descrittiva ciò che di fondo il tono della società che la esprime le chiede di essere. Il problema è sapere se la scuola ha le risorse per reagire, capire se o processi di riforma vanno verso una direzione piuttosto che in un altra. E qui entra in gioco il terzo problema. Questa situazione di scollatura per la quale quando noi interrogandoci sui processi di riforma attribuiamo delle responsabilità. La prima cosa che viene in mente in genere è di attribuire questa responsabilità alla riforma gentile. Quindi se penso Gentile in termini della responsabilità e del giudizio storico, io dico personalmente che con Gentile i conti morali e politici li ho chiusi, a prescindere dalla tragedia esistenziale di Giovanni Gentile. Se i conti sono quelli della sua intellettualità e della sua riforma sono conti aperti. Perchè in effetti da antifascista militante, quale sono, che reagisce ai cosiddetti revisionismi storiografici prima con irritazione, poi con rabbia, poi con pacata riflessione. Viene da dire che la riforma Gentile sulle sue spalle non porta la responsabilità di questa divisone, che ai nostri occhi sembra quasi l’espressione cattiva di una cattiva metafisica. Sulle sue spalle porta la responsabilità di un discorso organico che raccoglieva il primato della filosofia secondo un processo congruo al suo modo di pensare.

G./P.: e non isolato

E: ma che se noi non riconduciamo al problema dei rapporti sociali che stanno alla base dei processi di riforma degli anni 20. noi non possiamo dimenticare che in quegli anni, il problema che il fascismo nascente aveva era il problema di avere una classe dirigente che fosse in grado di esprimere il tono burocratico dello stato. Il vero compito del fascismo era di compire ciò che il risorgimento aveva fatto, cioè la costruzione di una burocrazia statale che non fosse ancora figlia dei Borboni a sud o dei Savoia a nord.

La scuola di Gentile è una scuola autoritaria ma una scuola autoritaria di Gentile è di un autoritarismo del 1923, non del fascismo.

G./P.: a prescindere dal fascismo.

E: l’autoritarismo fascista che vuole gestire la scuola lo fa tra il 33 e il 39, ma bisogna arrivare alla Carta della scuola del 39 per trovare una scuola che non corrisponde più assolutamente all’idea di Gentile. D’altra parte noi sappiamo anche che il grande elemento storiografico, secondo me, è dato dal fatto che l’incrocio tra il progetto riformatore di Gentile, condiviso sostanzialmente da Croce e da Salvemini, quindi non scherziamo.

G./P.: E Gramsci non ne è rimasto indenne.

E: Gramsci è gentiliano sotto certi profili. Ed è condiviso strettamente da Mussolini, perchè il rapporto è stringente tra Gentile e Mussolini. Una partita a tu per tu tra due grandi personalità, piaccia o non piaccia. Dove tutto sommato, il problema eccessivo di Gentile fu forse quel certo narcisismo filosofico che lo faceva pensare come l’erede di Platone e quindi colui che, come fece Platone, a Siracusa voleva cambiare lo stato, approfittando del fatto che quello era uno stato dove le leggi non dovevano passare attraverso il dibattito parlamentare. Alla stessa maniera; Mussolini aveva bisogno di una riforma della scuola che non passasse attraverso. Quello che accadde! Ma al di là di questo, Gentile era inviso a tutto il partito nazional ? fascista e all’Ufficio scuola del partito nazional ? fascista. Questo non toglie nulla alle responsabilità storiche di Gentile. Non è che io voglio difendere Gentile. Voglio dire che noi sappiamo che la riforma Gentile, che è una riforma elitaria perchè elitaria era la società che esprimeva quel mondo, ma come erano anche negli altri paesi del mondo.

Ma perchè che crede che la scuola italiana degli anni 40 e 50 fosse la più fascista d’Europa, guardiamo i film di Truffaut ?I 400 colpi? e parliamo della Francia, non ne parliamo che cosa significa essere in una scuola autoritaria, in una scuola mussoliniana. Eravamo tutti sulla stessa barca, anzi non ne detto che le cose peggiori erano solo da noi. Non è questo il problema. Il problema del primato umanistico che Gentile voleva perchè ci credeva filosoficamente era reso sostanzialmente possibile in virtù di una richiesta sociale che andava verso l’esigenza di una burocrazia di stato e non di tecnici e di ingegneri, i quali erano stati prodotti in sovrappiù, nei primi 15 anni di storia italiana, producendo, come scrivono tutti gli storici, dove il grande problema era una disoccupazione intellettuale di natura tecnico ? scientifica che non trovava corrispondenza perchè non trovava il tessuto industriale capace di dare risposta a quel tipo di tecnica. Il fascismo che aveva orrore di una opposizione intellettuale sociale doveva stringere le maglie della formazione. Epoi aveva il grosso problema, e la storia si ripete sempre, di dare un contentino alla Chiesa cattolica, per avere il consenso. La riforma Gentile con il Concordato inserisce l’insegnamento della religione cattolica alle scuole elementari , che a Gentile stava bene perchè da laico diceva che la religione è la filosofia dei bambini, da grandi studieranno Platone e della religione ne avranno uno sbiadito ricordo, ma la Chiesa, che è lungimirante sapeva benissimo che quello che importa è l’imprinting.

Quando veniamo alla distinzione tra la l’educazione umanistica e l’educazione scientifica relativamente alla riforma Gentile noi certo cogliamo nel segno un elemento storico che non può essere sottaciuto, ma quando la carichiamo di significato, le diamo un eccesso di responsabilità, con questo eccesso di responsabilità assolviamo la tragedia neo liberista di un mercato del lavoro selvaggio che oggi non chiede affatto alla scuola la produzione di un uomo leonardesco, ma chiede sostanzialmente alla scuola la produzione di un uomo sostanzialmente ottuso, affettato e disponibile a quella flessibilità che non lo metta nella condizione di essere portatore di questo tipo di unità.

Resta il problema ma l’idea umanistico di una uomo che dipenda dalle proprie mani la consapevolezza scientifica ed umanistica di un progetto esistenziale di costruzione dell’uomo e che
attraverso questa ricostruzione dell’unità dell’uomo lo faccia vivere nell’ordine di un progettualità storica, civile, sociale, etica, politica, economica rispetto alla quale la scuola come istituzione possa dare delle risposte progressive, questo resta un punto programmatico decisivo della coscienza formativa e della coscienza intellettuale. Questo resta. Resta sapendo che oggi siamo di fronte ad una cosa clamorosa. Oggi continuare a parlare di scissione tra cultura umanistica e cultura scientifica può diventaare un atto involontario di cattiva coscienza dietro la quale mascherare un ulteriore lacerante scissione, che la cultura professionalizzante, da una parte, e la cultura a tutto tondo, dall’altra. La cultura professionalizzante, da una parte, che prescinde in realtà da questa nostra nobilissima distinzione che ci pone il nobilissimo problema di costruire l’uomo, perchè la cultura cosiddetta professionalizzante non vuole essere nè umanistica, nè scientifica.

G./P.: Ma preparare al lavoro?

E: Vuole essere lavorativa nel senso subalterno del termine.

G./P.: La scuola superiore della Moratti, per esempio.

E: Mai come oggi torna il discorso della professionalità, ma attenzione perchè la parola professionale, professionalità è una parola ambigua.

Vuol dire, con una frase non più di moda, lavoro come merce. Forza lavoro di ispirazione marxiana dove questa merce o forza lavoro non è più rappresentata dalle falangi di operai che all’alba calcavano i marciapiedi davanti a Mirafiori dove per altro per altro, al Lingotto che è diventata la casa della cultura dei torinesi non c’è una lapide che ricordi i corpi degli operai, che mi sembra una cosa un po’ inculturale. Più che di educazione umanistica e di educazione scientifica o di educazione tecnica bisogna parlare di formazione della personalità che oggi vive il dramma lacerante di una svolta antropologica di cui forse cominciamo a comprendere i meccanismi ma che tuttavia ci è largamente oscura, per ciò che sarà capace di restituirci nel corso dell’ultimo secolo.

Se io oggi mi interrogo dal punto di vista scientifico su che cosa è la psicologia. Gli psicologi avvertiti, che scrivono trattati sulla natura della psicologia, fanno una operazione seria, legittima ma disanimante dove dicono che la psicologia è una professione. Per cui in cosa consiste la formazione epistemologica dello psicologo? Nella deontologia professionale, non nella clinica. Questo è il dramma. Questo è accaduto per la pedagogia in realtà. Il problema della distinzione tra cultura scientifica e cultura umanistica, che pure esiste in termini storici che andrebbe affrontato con il rigore delle analisi e anche in chiave formativa rischia di essere obsoleto rispetto alla drammaticità di una condizione storico ? culturale che oggi in realtà ha spostato il problema tanto che noi parliamo dell’Italia come paese scientificamente arretrato dal punto di vista formativo però poi diciamo che la quantità di scienziati italiani che vanno all’estero sono tanti. Ciò vuol dire che l’Italia produce scienziati. Se qui li abbiamo prodotti significa che li ha prodotti la nostra scuola. Ho avuto l’avventura, come vice direttore dell’Università di Genova del Centro internazionale di studi italiani, per 13 anni di conoscere migliaia di studenti, laureandi, laureati di tutto il mondo e devo dire che era straziante misurare la complessità culturale di alto livello che io potevo verificare, pensando alla qualità straordinaria dei nostri studenti liceali e universitari rispetto alla media sconsacrata dal punto di vista culturale di tutti coloro che venivano dal resto dell’Europa e del mondo. Non parlo degli americani perchè a quelli è come se dovessimo mettere il grembiulino e mandarli alla primina. Era assurda l’assenza di consapevolezza storica nei processi culturali che era imparagonabile alla formazione integrale umanistica e scientifica degli italiani che uscivano dai licei.

In Italia è vero che il liceo classico della riforma Gentile era quello che doveva preparare la classe dirigente, mentre i figli degli operai in ascesa andavano a ragioneria o istituto tecnico perchè quelle erano le scuole importanti, perchè formava dei tecnici già acculturati e antagonisti della dialettica servi/padroni e diventavano una elite operaia. Il liceo scientifico è diventata la scuola delle veline e di mister muscolo dove si è vissuto l’inganno della incultura come avrebbe detto Enrico Brizzi in Jack Frusciante degli italiani ignoranti ma con le tasche piene che ai figli li hanno mandati alla scuola moderna perchè scientifica e tecnica. In realtà in una scuola che è diventata uno scasso micidiale. Il problema della cultura tecnica e della cultura scientifica, per concludere, esiste da punto di vista della scissione che la modernità, a partire dal 600, ha prodotto indiscutibilmente, che nel trauma della cultura che si è ripensata dopo il positivismo nel 900 ha assunto la posizione di un ripensamento radicale, rispetto al quale oggi non si può parlare di aver arginato questo tipo di conflitto, si può parlare dell’esigenza di articolare meglio. Di qui la sua ricaduta su un piano di formazione che ci possa restituire, per quanto è possibile, l’idea di un uomo leonardesco senza più il fascino eroico, ma questa impossibilità prima che essere figli di processi di possibili riforme scolastiche è inscritta nei modi di produzione economica del nostro mondo.

G./P.:(Questa parte non si sente bene)Il protocollo positivista, il modello che ha attraversato la ricerca italiana per parecchio tempo come pragmatica sia dell’approccio scientifico che dell’approccio umanistico, a un certo punto l’abbiamo sposata negli anni 80 questo recupero del protocollo positivista.

E: li c’è stato un filtro però. Perchè il filtro di recupero tramite il quale noi abbiamo in qualche modo recuperato è stata la necessità strutturalista. (Qui non si capisce bene). Lo strutturalismo francese ha agito con dei tagli di direzione, ma lo strutturalismo francese non aveva dalla sua questo elemento così spiccatamente positivista, che si poteva leggere in termini di costruttivismo, perchè lo strutturalismo francese è l’esito primario di quella ventata è in realtà un esito de costruttivo di ricostruzione del soggetto, di ripensamento di scissione costante per andare in ricerca come diceva Foucault delle stratificazioni geologiche della cultura. C’è stata una lettura forzata e ingenua, tanto è vero che il post strutturalismo, e siamo ai nostri giorni, è un pensiero senza fondamento, l’incoerenza con il soggetto debole, che invece potrebbe esser un elemento del percorso ricostruttivo senza l’enfasi di ripartenze fenomenologiche.

G./P.: una sorta di recupero vergine, primigenio fenomenologico della realtà che si rappresenta, una sorta di re-inizio.

E: è un inizio verginale che si intrattiene con la profezia nietzschiana, bisogna tornare a Nietzsche. C’è a proposito di cultura umanistica e cultura scientifica, un testo base, sulla Conferenza di Basilea che Nietzsche fece nel 1872, c’è la distinzione, per cui noi dobbiamo decidere se una scuola deve fabbricare uomini veri o frammenti di uomini. E in questa prospettiva la valutazione che il filosofo fa nel 1872 è profetica e anticipa. Il problema è che dobbiamo scontare tutto il nichilismo perchè ci possa essere la possibilità di rinascita. Vattimo dice che si è concluso e siamo in una società post nichilista. Questo mondo ci lascia l’incapacità di riunificazione formativa. ? nella feccia ultima di questo bicchiere amaro che noi possiamo ricostruire.

Oggi una formazione che sia onesta intransigente ancorché inquietante è la formazione moralmente ineccepibile di una decostruzione radicale degli inganni ideologici, culturali, sociali che il mondo ci propone. Di un disgelamento radicale.

Umanesimo e scienza non possono consentire a se stessi una radicale scissione, altrimenti torniamo al problema sollevato da Jasper di fronte al problema della bomba atomica che non è scoppiata a Hiroshima, ma è scoppiata 30 anni prima quando in un laboratorio qualcuno ha scoperto la fissione dell’atomo. Ma se lì è scoppiata vuol dire che là c’era il rapporto tra scienza e umanesimo, ma questo pone problemi giganteschi, bioetica.

E in questo impasto di questioni cosa restituiamo oggi ai nostri ragazzi a scuola di tutta questa passione critica? Dovremmo restituirgli la consapevolezza del problema, quello che a me preoccupa oggi non è la conoscenza specifica degli elementi propri della cultura umanistica o della cultura scientifica ma è il prerequisito teorico e pratico, morale, culturale, quindi sociale e politico il problema. E noi siamo di fronte ad una scuola che sta eludendo il problema
di una coscienza soggettiva alle prese con la sua libertà di decidere? Una scuola che smette di educare e si limita a impartire lezioni quando va bene.

*Professore straordinario di Storia dell’Educazione Europea  

Università di TorinoLuglio 2003