Figli di nessuno…figli di tutti?

Riflessioni sull’opportunità per un figlio adottato di conoscere o avere informazioni sui suoi genitori naturali

immagine relativa articolo

Il nostro Parlamento, dopo grandi fatiche, tagli, ritagli e baruffe, ha finalmente licenziato la Legge di Ratifica della Convenzione dell’Aja, che non è una revisione della Legge 184/83 sull’Adozione e l’Affido Familiare, bensì rappresenta un adeguamento allo spirito della Convenzione.
Ci saranno altre opportunità per valutare la portata globale e/o specifica di questa iniziativa, che comunque al momento non appare malaccio, ma sembra invece opportuno fare una breve riflessione su cosa “non c’è”, anzi su cosa c’era e poi è stato cassato nella fase conclusiva.
Molti di noi, grazie all’età e a un po’ di esperienza, non hanno più quello spirito “puro” ma spesso velleitario dei giovani e dei neofiti; nel senso che ben sappiamo che la vita è fatta di mediazioni, ahinoi spesso anche di compromessi ed è per questo che non valutiamo con dolore l’accantonamento di un tema che molto fa discutere e pensare: il diritto del figlio adottivo di avere informazioni sulle proprie origini. Sia ben chiaro, non è che l’argomento vada sotterrato per sempre ma, come spesso accade alle nostre latitudini, anziché produrre attenzione e riflessione, ha provocato prevalentemente schiamazzi e scontri di parte, sia nel mondo della politica che in quello degli “addetti ai lavori”. Ben venga, quindi, un rimando a tempi migliori, intendendo con ciò una fase di maggiore pacatezza e di approfondimento culturale.
Nelle bozze iniziali della legge di Ratifica, era comparso l’articolo 37 che, in sintesi, prevedeva che la persona adottata potesse, raggiunti i 25 anni (poi, nei vari passaggi portato a 18, poi a 21, poi ancora a 25 anni), rivolgersi al Tribunale per i Minorenni per avere informazioni sui genitori naturali. Il primo sussulto fu provocato dal pensiero che ci poteva essere da qualche parte una possibile ex minore che, dopo aver sopportato grandi o piccole sofferenze causate dall’aver abbandonato una creatura, dopo avere lottato per riuscire a superare la propria esperienza, si era rifatta una vita dignitosa e non aveva nessuna intenzione di accettare interferenze da chicchessìa.
Di fronte a questa obiezione, furono successivamente inseriti, nel testo dell’articolo, dei vincoli inerenti al rispetto della volontà di chi decideva (?) di non crescere con il proprio figlio; ma il cielo era ormai plumbeo e le acque si sono agitate su altri temi.
Alcuni cultori della norma giuridica si sono quindi posti il problema se questa opportunità, data all’adottato, non mettesse in discussione il concetto di “Adozione Legittimante”, cioè vanificasse il fatto che , grazie alle battaglie condotte in anni precedenti, la recisione dei rapporti coi genitori naturali fosse diventata uno degli elementi che consentiva all’adottivo di divenire figlio legittimo a tutti gli effetti dei nuovi genitori.
Difronte a questa affermazione, altri si sono premurati di sottolineare che il concetto di “legittimazione” era stato introdotto proprio a tutela del minore, cioè per difenderlo da eventuali successive rivendicazioni (affettive e non) dei genitori naturali e da possibili ostilità da parte della famiglia allargata degli adottanti: se era l’ex minore a prendere l’iniziativa per cercare le sue origini, chi poteva ostacolarlo?
Ma la parte più cruenta della tenzone è stata quella inerente all’esistenza della necessità di avere conoscenza delle proprie radici.
Non avendo interessi di parte da difendere né furori ideologici, mi permetto di sintetizzare alcune riflessioni che potrebbero forse aiutare nel dibattito, (spero proprio di non rinfocolare le polemiche), ribadendo che il rinvio di questo tema mi conforta nella speranza
di un approfondimento della questione.
L’impossibilità di un recupero dei genitori d’origine può effettivamente creare una ferita non indifferente, ma non si può dimenticare che il senso di colpa provato dal minore abbandonato, o trascurato, o maltrattato, sia pure con diverse sfumature è frutto anch’esso di una ferita narcisistica e che l’intensità del senso di onnipotenza è inversamente proporzionale alle possibilità di interventi riparatori e/o compensatori. La ferita più profonda, quindi, sembrerebbe prodotta ben prima e precocemente;
inoltre, se noi mettessimo un minore adottato onnipotentemente in grado di determinarsi e di scegliere “i propri genitori”, oltre a mettere gli adulti in una condizione di perenne ricattabilità (“..se non mi dai questo vado dall’altro…”) non potrebbe essere proprio anche tale opportunità a determinare la difficoltà di cicatrizzazione?
Qualcuno dice che un figlio vorrà sempre conoscere e incontrare suo padre e sua madre. Probabile, ma anche in questo caso appare opportuno sottolineare alcune cose.
Volere, dal latino Velle, sembra avere come significato che conviene, che si sceglie; orbene, se si usasse invece con più cautela il termine Desiderare, latino De Siderare, che, a seconda di come si valuta la particella De, può tradursi letteralmente in “fissare attentamente le stelle” oppure “togliere lo sguardo dalle stelle per mancanza di auguri”, si avrebbe, in senso più lato, un significato di “volgersi con l’affetto verso cosa che non si possiede e che piace”. Volere e Desiderare sono unificate prevalentemente dal fatto che nella vita non sempre ciò che si vuole e ciò che si desidera sono raggiungibili, ma per il resto sono abbastanza differenti. Io opto per il secondo anche perchè, seguendo le precedenti definizioni, sarebbe interessante ma complicato dimostrare che per un figlio adottivo conviene riaprire un rapporto con dei genitori naturali inadeguati e/o espulsivi. “Volgersi con affetto verso cosa che non si possiede” non ho dubbi, invece, che rappresenti bene il sentimento di un figlio abbandonato ma, così come fissare le stelle o togliere lo sguardo dalle stelle non vuol dire potervisi poi recare, il desiderare di conoscere i propri genitori naturali non significa necessariamente sapere chi sono, o frequentarli e relazionarsi con loro.
Ecco che si può introdurre il discorso sulla tutela psicologica. La mia impressione, è che un’Autorità Giudiziaria che privilegia l’interesse dell’adottato e, a maggior ragione, un genitore adottivo adeguato non siano quelli che portano l’ex minore a conoscere e a conversare con chi lo ha precedentemente espulso dalla propria vita, in modo implicito o esplicito, pur nel rispetto e nella comprensione (però non giustificazione) delle motivazioni; bensì abbiano come compito, sia pure espresso con modalità differenti, quello di aiutare la persona ad accettare, sia pure con fatica, la perdita di una parte di sé, a superare il dolore per la morte di una relazione e rinascere in un’altra, per comprendere e introiettare che l’abbandono è un evento drammatico ma che non è la fine del mondo, bensì la fine di un mondo.
Uno dei problemi principali da affrontare con i figli adottivi è anche quello di aiutarli a de-colpevolizzarsi dell’abbandono, oltre che di garantirli da eccessivi carichi di responsabilità, cosa che naturalmente dovrebbe accadere anche per quelli non adottivi (si vedano le procedure di tutela dei bambini nei casi di separazione dei coniugi e di affidamento della prole); per fare ciò, spesso, il mondo adulto si assume la responsabilità di costruire le basi per lo sviluppo del senso di appartenenza e per l’attribuzione di significati: quest’ultimo punto appare particolarmente importante poiché consente di estendere il concetto di fertilità dalla sfera meramente fisiologica a quella affettiva.
L’individuo che impara a tollerare l’angoscia di separazione è quello che si pone effettivamente sulla strada dell’autonomia. Ciò può avvenire non dimenticando che esistono i genitori naturali, non demonizzandoli, non nascondendoli, ma aiutando l’adottato a fissare attentamente le stelle senza pretendere di toccarle e possederle.
In realtà, il passaggio culturale da “famiglia nucleare” a “famiglia aperta” potrebbe consentire anche di non porsi, sia in termini giuridici che dal punto di vista psico-affettivo, il problema della “legittimazione”.
La mobilità familiare, intendendo con ciò il nomadismo fisico e affettivo che si sta manifestando con i nuovi nuclei (genitori single, separazioni, divorzi, nuove ricomposizioni) potrebbe facilitare anche una ridefinizione della relazione genitore-figlio, attenuando il senso di possesso della prole e valorizzando gli aspetti più affettivi e di trasmissione di significati. In questo caso l’adozione potrebbe effettivamente diventare un fenomeno residuale e anche in questo caso, forse, garantire, tra genitore naturale e genitore adottivo, un maggiore senso di continuità e integrazione.
Ma questo è un altro discorso.