Folla solitaria e lavoro psicoanalitico
La sempre maggiore utilizzazione di psicologi nella scuola può fare pensare ad un processo di modernizzazione della stessa, intesa come istituzione tale per cui figure nuove vengono ad aggiungersi a quelle tradizionali, al fine di fornire alla comunità dei cittadini un servizio progressivamente migliore.
Questo corrisponde, indubbiamente, ad una parte di verità e sono convinto che nella mente del legislatore sia questo il fine che spinge ad innovare. Ma non è solo un’inveterata e cocciuta abitudine a pensare che la storia avanzi dal “lato cattivo” a spingermi, direi istintivamente, a diffidare di un’immagine modernizzante della questione.
Per dieci anni ho coordinato un gruppo di lavoro, composto per intero da psicoanalisti, che ha provato ad aprire dei centri di consultazione per studenti, genitori ed insegnanti nelle scuole di una cittadina lombarda di ottantacinquemila abitanti. L’impressione che ci siamo fatta è che il mettere a disposizione delle persone che stanno in una scuola – non solo studenti, ma anche genitori, insegnanti e non docenti – la possibilità di una consultazione psicoanalitica, non rappresenti tanto una “modernizzazione”, quanto la presa d’atto che determinati tratti della nostra società, come la precarizzazione del lavoro, l’attacco ideologico al concetto di socialità, la colpevolizzazione di ogni pretesa legata ai diritti di cittadinanza, hanno prodotto e stanno producendo delle visibilissime conseguenze anche sul piano della capacità di valutazione e di discriminazione tra fantasia e realtà delle singole persone.
La folla solitaria, di cui aveva parlato molti anni fa David Riesmann, ci sta mostrando, anche sul piano della vita mentale, l’aberrazione del massimo di individualismo in una società nella quale anche gli atti più elementari, come bere un bicchiere d’acqua il gettare una scatoletta nella spazzatura, dipendono totalmente dall’organizzazione sociale. I personaggi di Raymond Carver rendono con straordinaria efficacia l’ottica di chi, totalmente immerso nella società, nei suoi aspetti economici, sociali ed ideologici, “riesce” ad astrarsene, come se il proprio destino dipendesse esclusivamente dai propri movimenti e dalle proprie azioni.
La realtà incontrata – sono state effettuate circa tremila consultazioni – ha fornito materiale di riflessione sufficiente ad investire alcune aree di problemi relativi alla tecnica ed alla teoria psicoanalitica. Tra queste, certamente, quella della formazione, in particolare di psicoanalisti che si occupano di certi tipi di pazienti, non è la meno rilevante. Le modificazioni che sono avvenute nei decenni che ci separano dalla fase pionieristica della psicoanalisi, da un lato, ed il cambiamento sociologico che è avvenuto tra le file degli psicologi e degli psicoanalisti, dall’altro, ha fatto sì che il ricorso alla “talking cure” abbia oggi un carattere, se non proprio di massa, almeno non più così élitario come un tempo. L’intervento sempre più diffuso di psicologi ed anche di psicoanalisti nelle scuole è un esempio lampante di queste trasformazioni in atto. Comunque questo fatto venga giudicato, esso porta dei problemi nuovi tra quanti si occupano professionalmente di cura e questi problemi, come si è detto, investono più aree. Ne accenno grossolanamente alcune:
– la clinica contemporanea, così come viene espressa dalle società psicoanalitiche, riguarda più gli aspetti transferali e controtransferali della relazione con l’analista che la patologia del paziente;
– la clinica di frontiera, per chiamarla così, è invece alle prese con patologie, dove sintomi di carattere organico e malesseri esistenziali si coniugano in uno sviluppo che il paziente percepisce come un fatto non più sopportabile, piuttosto che come una questione in cui “il soggetto è in questione”;
– i quadri clinici in cui i sintomi sono fortemente reificati aumentano di conseguenza in modo molto significativo;
– la trasformazione di un semplice bisogno di eliminare il sintomo, nella consapevolezza di una questione in cui c’è della soggettività rappresenta un livello di modificazione nel paziente che non si può più pensare come un lavoro preliminare;
– l’impiego del pensiero come modo di controllo e di relazione con la realtà è progressivamente sostituito da modalità identificatorie proiettive ed introiettive.
Ciascuno di questi argomenti rappresenterebbe da solo un campo nel quale vi sarebbe da dire e da riflettere ma, essendo qui nostro obbiettivo la formazione degli psicologi psicoanalisti che sono chiamati a fare un certo lavoro, mi pare utile prendere le mosse dall’ultima tra le considerazioni elencate, facendo però una premessa. Sono del parere che le questioni riguardanti la formazione in generale e psicoanalitica in particolare possano alternativamente essere viste o come problemi di carattere tecnico, in rapporto ad una materia nelle sue linee generali data, oppure come uno sviluppo conseguente alla materia trattata.
Propendo per la seconda ipotesi, per svariati motivi, ma voglio solamente far notare in questa sede come, solo non separando concettualmente la teoria e la tecnica, si può evitare lo stucchevole (ma remunerativo) gioco di “chi forma chi”, di “chi forma che cosa”, dei “formatori dei formatori”, ecc., in un diluvio del nulla in cui, volendo stare alla sola superficie, si colgono facilmente gli aspetti provinciali e grotteschi, ma nel quale risultano anche evidenti i limiti di una tecnica che perde di vista la sua funzione. In campo architettonico, per esempio, Brasilia rappresenta compiutamente un esempio di una tecnica che ha un delirio di autosufficienza.
La maggiore forza con cui s’impone, quale sintomo, la reificazione del pensiero imporrebbe che si facessero grandi sforzi di studio e di ricerca sulle modalità d’impiego di un pensiero quando non viene pensato. Uso qui delle modalità d’impiego del pensiero di Bion, che provo a chiarire nella loro importanza.
Wilfred Bion ci ha dotato di intuizioni profonde e di una descrizione abbastanza ben definita, almeno nelle sue linee fondamentali, del funzionamento mentale. In termini generali possiamo dire che, secondo l’impostazione di Bion, il pensiero non nasce come tale, ma diviene pensiero, a condizione che esista nel soggetto una sufficiente capacità di tollerare la frustrazione causata dall’inibizione, per esempio motoria piuttosto che somatica. Se ciò è possibile il (futuro) pensiero può essere pensato; se questa condizione non è data, il “non-ancora- pensiero” può essere, ad esempio, evacuato e questo apre la strada alla psicosi o, almeno, a fenomeni di tipo psicotico(1). Anche, però, la fatticità, la propensione cioè a non vedere, nella realtà del mondo, che fatti e a desumerne il naturale emergere da questi di altri fatti ancora legati tra loro da un insormontabile nesso di causalità, è un modo per far prendere al non-ancora pensiero un’altra via rispetto alla pensabilità.
La via che prendono i pensieri non pensati è un grande tema rispetto al quale la forma che essi hanno prima di divenire pensiero pare una questione meno urgente (mi sto riferendo, per esempio, alla rilevanza che, nell’ambito della ricerca psicoanalitica, si attribuisce al pre- verbale). ? chiaro allora che, se si condivide questa idea, o comunque, se si vuole svolgere un lavoro psicoanalitico che sia – non in modo banale – attento a quel che si muove nella società, occorre che sia prestata maggiore attenzione, nella formazione, alle questioni cosiddette preliminari.
Troppo spesso, invece, assistiamo, nelle relazioni cliniche come nelle supervisioni, a situazioni di involontaria comicità dove il terapeuta in training afferma di trovare in quella determinata consultazione o terapia delle difficoltà, perché il paziente non porta materiale. Anche il Tecoppa diceva al suo avversario, durante un duello: “Se non stai fermo come faccio ad infilzarti?”. Ma, superato l’aspetto comico della vicenda, rimane la sensazione che una preparazione, anche tecnicamente corretta, risulta improponibile se non si dimostra adeguata al tipo di paziente che ci troviamo dinnanzi. E c’è indubbiamente un’abissale diversità tra un paziente che è definito come tale in forza della sofferenza di cui è portatore ed uno che diventa tale per supportare il suo desiderio di fare lo psicoanalista. Desiderio, quest’ultimo, assolutamente legittimo, ma che inscrive un’analisi in un registro assai diverso.
Freud non solo ha scritto pagine di un’importanza estrema attorno alla alla questione della formazione degli psicoanalisti (L’analisi condotta dai non medici), ma ha anche sempre mostrato negli scritti tecnici come la stessa preparazione tecnica non sia un fatto neutrale rispetto alla materia trattata, ma come
anzi essa risponda o debba rispondere sempre esattamente al compito per cui è pensata.
Nell’esperienza a cui ho fatto cenno ed i cui tratti salienti sono stati raccolti in un volume(2) anche il gruppo costituito dai miei colleghi e da me aveva introdotto qualche regola tecnica che poi è stata sempre mantenuta. Ci sembrava, allora come adesso, che questo servisse ad agevolare la sostanza del nostro lavoro; forse altri colleghi avrebbero fatto la stessa cosa o forse si sarebbero orientati in modo diverso. La cosa importante è che vi sia rispondenza tra ciò che si fa e come lo si fa.
Quel finissimo logico di Bertoldo aveva capito la sostanza della questione quando aveva indicato – giacché la sola opportunità che gli era stata concessa nella sua condanna all’impiccagione era quella della scelta dell’albero – in una pianta di fragole lo strumento (in)adatto alla bisogna.