Formare per riformare

Intervista ad Anna Rezzara*

Salvatore Guida: Una sua opinione sul senso del cambiamento in atto nel mondo della scuola.

Anna Rezzara: Innanzitutto, una considerazione ovvia: credo che aspettassimo da troppo tempo di ripensare al problema in modo non parziale. Quello che abbiamo detto per anni è che non avevano senso le varie riforme sfasate, per cui avevamo la nuova scuola media ma la scuola elementare era invecchiata, poi con la nuova scuola elementare era invecchiata la media, e poi la materna … A proposito, io continuo a pensare che la materna sia  il livello di scuola che funziona meglio e, per buoni motivi pedagogici, sono sempre stata convinta che sia l’unica scuola che effettivamente riesce a fare un lavoro educativo: sicuramente perché è l’unica scuola che riesce a fare veramente una educazione intera. Non è un caso che sia una scuola che ha meno vincoli, che ha meno obiettivi fissati, che non ha una valutazione formalizzata; al di là di questo, mi pare che sia stata attivata una riforma che prende in considerazione la scuola complessivamente, mentre in precedenza, come in molti avevamo sostenuto, la scuola, in Italia, ha avuto un carattere di estrema discontinuità. Io credo che ci debba essere continuità, una dialettica continua, quindi io sono contenta di questo percorso avviato con caratteri di globalità. Devo dire che sono anche molto irritata dal fatto che quando, finalmente, c’è una riforma che, sicuramente è anche audace e pone moltissimi problemi, si alzino barriere e resistenze. Molte delle riforme scolastiche degli ultimi anni le ho giudicate delle ottime potenzialità, il problema è che ogni volta entro molto in allarme perché c’è il rischio, come spesso è accaduto, che queste potenzialità vengano azzerate e bruciate e ogni volta mi chiedo cosa si possa fare, da parte di gente come noi che lavora intorno e insieme alla scuola, per far sì che queste diventino delle possibilità reali. Mi riferisco all’autonomia, all’abolizione degli esami a settembre, al problema dei corsi di recupero: sono state tutte, secondo me, grandi occasioni pedagogiche perdute. Ho molta paura che, anche in questo caso, prevalga una certa distruttività proprio nel mondo della scuola; ad esempio, uno dei discorsi più critici che ho sentito è riferito alla scomparsa della scuola media. Io credo che la scuola media, da anni, è una scuola sofferentissima per gli allievi, sofferentissima per gli insegnanti, quindi non capisco come si possa averne nostalgia: un ciclo unico non significa un ciclo che abolisce la specificità. Credo che le critiche vengano in gran  parte da preoccupazioni, più che legittime, da parte degli insegnanti, verso tutto questo movimento a salire e a scendere, a ridefinirsi; si apre il problema, come sempre, di come realizzare la riforma e della relativa formazione dei docenti, problema sempre aperto e fondamentale!

La critica sulla scomparsa della scuola media mi sembra una critica ingenua perché nessuno ha detto che un ciclo unico non possa avere delle sue scansioni e specificità. D’altra parte, chi ha detto che la vecchia scuola media fosse pensata per i preadolescenti? Non possiamo, davvero, avere molta nostalgia! In compenso, sappiamo che il passaggio dalla scuola media ai primi anni delle superiori è uno dei momenti più tragici:  abbiamo dei dati numerici che fanno veramente spavento. Posso condividere qualche preoccupazione perché, come sempre, la realizzazione di questa riforma implicherebbe tutto un lavoro di ripensamento, di riprogettazione, di formazione, problema assolutamente sospeso, sul quale non ho sentito risposte definitive. Avendo sempre lavorato molto nella scuola a me piacerebbe trattarlo veramente in senso pedagogico, la dimensione politica è assolutamente prevaricante, compreso il fatto che tutto il discorso della formazione degli insegnanti è stato gestito dalle università in modo molto dubbio. Insomma, la preoccupazione non è solo quella di
come l’università forma gli insegnanti ma di quali facoltà li formeranno. Io, sui giornali, ho letto che in prima fila ci sono alcune facoltà scientifiche e umanistiche che esprimono, improvvisamente, questa gravissima preoccupazione sulla formazione degli insegnanti, perché stanno perdendo studenti!

Trovo molto giusto sottolineare l’importanza di una forte competenza disciplinare  però mi sembra anche inutile dire che un grande esperto disciplinare non è, necessariamente, un grande insegnante di quella disciplina; diciamo che ci vorrebbero le didattiche disciplinari – che non ci sono ancora – ma io sostengo anche la necessità di una forte competenza pedagogica trasversale. In modo molto approssimativo e con argomentazioni discutibilissime viene negata la necessità di un periodo nella Facoltà di Scienze della Formazione ma credo che la preoccupazione non fosse che competenze debba avere un insegnante: l’università è, ormai, in una logica di mercato e dimentica che sarebbe culturalmente da superare la vecchia antinomia tra le competenze disciplinari e la competenza pedagogica. Voglio dire che un insegnante deve integrare queste due cose, perché non è uno studioso della sua disciplina né un educatore generico: bisogna integrare, ma questo è un problema pedagogico. Anche perché, ad esempio, e anche gli insegnanti lo ammettono, nella scuola secondaria superiore trovi grandissimi esperti disciplinari e, insieme, un quasi analfabetismo pedagogico. Nelle scuole di specializzazione, ma tutto verrà ridiscusso quando finalmente arriveremo a una decisione, abbiamo un certo numero di ore trasversali in tutte le discipline dell’area psicopedagogica, ancora relativamente poche, ma ci sono. Le didattiche disciplinari non han fatto che proporre, in genere, dei corsi di aggiornamento e approfondimento disciplinare riproducendo la situazione di base, e questo non ha senso.

Se si fosse spostata l’attenzione sulla didattica delle varie discipline o sui meccanismi cognitivi o sul modello di insegnamento visto anche da un’ottica disciplinare, poteva andar bene; invece hanno riproposto le competenze degli insegnanti delle superiori per gli esperti disciplinari.

Per non parlare della valutazione, problema pedagogico eccezionale e operazione quotidianamente svolta e decisiva per le sorti degli studenti: gli insegnanti dichiarano, in genere, che non hanno mai avuto non solo una specifica formazione pedagogica, ma neanche delle sedi in cui pensare. Nella nostra scuola il discorso della valutazione è un grande tabù: per ideologia o per paure personali, prevale la tendenza a negare, il più possibile, questo problema. Mi preoccupa molto questo vuoto di riflessione pedagogica, nel senso che riproduce un modello nel quale l’insegnante di scuola superiore – con le responsabilità che ha e con i soggetti con cui lavora- non é seriamente formato dal punto di vista psicopedagogico. Non si tratta di escludere che un insegnante possa essere un grosso esperto delle sue materie o, possibilmente, un grande appassionato, ma trovo che non si possa eludere il problema della sua capacità di produrre apprendimento.

Altrettanto importante è il problema della continuità-discontinuità: diventa un problema pedagogico fondamentale perché, certo, è anche un problema di raccordo – lettura riduttiva di un problema del tutto degno e serissimo – ma, innanzitutto, si tratta di intendersi su cosa vogliano dire queste parole.

In uno dei progetti ministeriali sulla continuità, a cui ho collaborato, siamo partiti cercando di ridefinire i termini: cosa vuol dire continuità, cosa vuol dire discontinuità; abbiamo scoperto che le decodifiche di questo termine da parte degli insegnanti che fanno progetti di continuità sono altamente soggettive e quando gli insegnanti devono lavorare insieme sulla continuità ognuno lavora a partire dalla propria definizione di continuità: che cosa mai potrà uscirne?

La riforma dei cicli pone in discussione questo ed altri problemi; nel primo ciclo, ad esempio, ci vorrà una grossa continuità, anche per rispondere all’obiezione relativa al fatto che vi entra un bambino di sei anni ed esce un ragazzo.

Si tratta, quindi, di ridisegnare il profilo dell’insegnante nelle fasce di transizione? Per esempio, come rispondere alle paure di chi, nelle elementari, teme di essere “promosso” ad un ruolo che richiede, potenzialmente, una maggiore competenza e verso la quale ha dei timori o a quelle di chi, invece, nelle medie, teme di essere ricondotto a lavorare con i bambini piccoli, teme una sorta di retrocessione, una regressione?

Ecco, se la cosa si riuscisse a pensarla in termini di organizzazione, però non è avvenuto neanche nella scuola elementare quando è stato introdotto il “Team”: benissimo, una novità importante! Però ricordo che si è poi dovuto fare il discorso della raccomandazione dell’insegnante prevalente: è chiaro che c’è bisogno di una figura di contenimento e poi di una continuità-discontinuità che, man mano, si specializzi rispetto ai contenuti e all’esperienza del bambino. I principî li conosciamo benissimo, spero che, nella realizzazione, li si prendano in considerazione.

Pensa ad una analogia con il bambino al nido, con l’educatrice di riferimento e le educatrici di sala? 

Sì, però anche in quel caso si incrociano problemi, diciamo, organizzativi con alcuni principî pedagogici che devono essere rispettati. Ecco io credo che qui, proprio in questo discorso, mi sento di dire che la psicopedagogia serve, perché il pensare, appunto, a questa continuità-discontinuità del ciclo a partire da questi principî per cui tu devi garantire un contenimento di questo tipo, proprio per poi innestare questa articolazione di  figure specializzate.

Spesso, dal mondo della scuola perviene una domanda che noi, come pedagogisti, leggiamo come domanda di formazione mentre, in realtà, spesso si riduce più brutalmente a domanda di aggiornamento; la domanda è di un aggiornamento specifico, disciplinare e c’è la fuga dall’approccio formativo trasversale perché ciascuno, forse, teme, uscendo dalle proprie specifiche competenze disciplinari, di mettersi troppo in gioco! Come legge questi timori?

Credo che la formazione disciplinare e la formazione trasversale e pedagogica siano molto diverse, e questo è il problema. Per anni abbiamo avuto una domanda, anche esuberante, di formazione, però legata a nuove  normative. Abbiamo verificato diversi gradi di motivazione, vedevi anche la persona che, allo scadere dell’orario, a metà di un discorso se ne andava; c’è poco da dire se non che “l’economia personale è un discorso importante” e il ruolo dell’insegnante sappiamo come, in Italia, sia mortificato e destituito di qualsiasi prestigio. Da quel periodo si è passati, poi, a una grande contrazione della domanda di formazione: c’è, secondo me, una polarizzazione con situazioni in cui l’insegnante continua a volersi formare, voler lavorare, con motivazioni molto personali, molto forti: sono persone che hanno ancora voglia, e la cosa stupisce, di ripensare al proprio lavoro, di investire; dall’altra parte, invece, una situazione stagnante con questo senso di demotivazione, di impotenza, molto triste.

In alcune situazioni c’è una richiesta di formazione pedagogica, continuo a considerarle delle situazioni  molto fortunate in cui magari la richiesta va letta, va ridistribuita:  io faccio sempre il discorso per cui la formazione ha senso nel momento in cui uno comunque non solo si interroga,  ma ha anche una sua crisi in senso positivo. Nessuno cambia il modo di fare perché gli si dice che ci sono delle cose molto belle che si possono fare! Secondo me la formazione deve essere qualcosa che porti ad avere dei dubbi: per me, il modello di formazione per tutte le professioni, e a maggior ragione per gli insegnanti, deve prevedere una formazione disciplinare insieme ad altri aspetti: gli insegnanti devono essere esperti  e competenti nella loro disciplina, però ponendosi sempre una serie di interrogativi e di domande; domande su che cosa vuol dire trasmettere quel sapere o fare in modo che i bambini accedano a quel sapere.

E’ una responsabilità nostra e dei disciplinaristi lavorare molto raramente insieme, c’è una non integrazione; noi come Facoltà di Scienze della Formazione non abbiamo le didattiche, abbiamo la didattica generale, ovviamente questo dovrebbe entrare in qualche rapporto con le didattiche specifiche, però il problema è di tutte e due; chi si occupa della didattica della storia è sostanzialmente uno storico  e noi che facciamo didattica generale non ci sporgiamo sulle discipline: è un mancato incontro.

Perché, per esempio, nella scuola media accade che l’insegnante di lettere, italiano,  storia, geografia, sia una sorta di “carrettiere” del pensiero, trasportatore
di saperi congelati sui libri e non riesce ad essere una guida ai ragazzi a ricercare informazioni in modo competente?

Questo è importante, perché bisogna pensare anche gli effetti che ha il tipo di incarico di cattedra dell’insegnante come ho osservato, ad esempio, nella scuola elementare, passando dall’insegnante unica all’insegnante specialistica. Io non so se lo si sia sottolineato abbastanza ma è stata una rivoluzione importante, nel senso che, intanto, certamente c’era una ricerca, un approfondimento e, anche quantitativamente, un incremento dello specifico disciplinare però contemporaneamente c’era un piegarsi sul disciplinare che metteva in ombra questo complessivo compito formativo. Io la sento comunque come una responsabilità importante, voglio dire che alcune riforme che potrebbero passare per organizzative hanno dei riflessi sulla proposta culturale, sull’assetto pedagogico. Sicuramente questi bambini sono stati formati in modo diverso, magari dalle stesse persone ma che si auto comprendevano come specialisti piuttosto che come insegnanti che dovevano comunque gestire una serie di linguaggi. Mi sembra che il centro prima fosse, comunque, lo sviluppo del bambino, dopodiché il bilancio è difficile. Certamente c’è stata anche un’attenzione disciplinare, uno specializzarsi e, nelle occasioni migliori, anche un emergere di capacità degli insegnanti! Però c’è stato questo passaggio per cui il centro era la disciplina. Nelle riunioni insegnanti, se facessimo un’analisi linguistica, sentiremmo parlare dei contenuti disciplinari, mentre prima si sentiva parlare continuamente di categorie del bambino.

*Docente di Psicopedagogia

del linguaggio

Università degli Studi

Milano-Bicocca