Gli antropologi e i racconti della vita
Nella storia dell’antropologia l’istanza antropologica è apparsa a partire dagli Stati Uniti; è stato – credo – il lungo convivere con l’alterità interna, e cioè con la questione indiana o dei nativi americani che ha prodotto prima, lungo l’Ottocento, raccolte dovute a passione e curiosità e poi nel Novecento, con il consolidarsi dell’Antropologia Culturale come disciplina di ricerca, le prime raccolte ‘professionistiche’ di ‘racconti della vita’. E’ Paul Radin l’autore più significativo e, gli anni ’20, la stagione di fioritura di queste scritture della voce dell’altro, fondative di una larga pratica antropologica di ‘ascolto delle voci’, che non ha tuttavia mai avuto una letteratura teorica ampia, almeno quanto quella del dibattito sulle ‘strutture’. E’ ancora in parte un 5 antropologia ‘segreta’ e marginale quella che ascolta racconti della vita.
Una grande ripresa si è avuta con la ricerca di Oscar Lewis in Messico e in particolare il libro I figli di Sanchez, e il clima critico che l’approccio autobiografico produceva nelle antropologie ‘oggettiviste’ è emerso alla fine degli anni ’70 con riflessioni come quelle contenute in Writing Culture (J.Clifford e G.Marcus eds.) e in autori come Rabinow, Crapanzano, Dwyer, Shostak, che sono buona parte della antropologia cosiddetta ‘postmoderna’, attraverso la quale la istanza autobiografica (anche attraverso il dibattito sulle autoantropologie e gli ‘antropologi nativi’ o ‘spontanei’) è tornata al centro della riflessione. In Italia la stagione più feconda è stata quella degli ‘outsiders’, dei nostri anni della ‘frontiera’ che sono quelli del secondo dopoguerra. Sentono il clima americano ma anche propri profondi fermenti culturali; autori come Rocco Scotellaro e Danilo Montaldi che, fuori dal mondo ufficiale della ricerca, anticipano fortemente il valore critico e innovativo che l’autobiografia porta alle ‘etnografie’. Con loro Danilo Dolci, Cagnetta ed altri portano nella società civile, plurale e ricca di fermenti del nostro paese, le voci della gente comune. Ernesto De Martino darà infine spazio di legittimità negli studi (per lui ‘etnologici’) alle ‘voci’ della gente comune con le sue Note lucane, e Note di viaggio, con alcuni passi-epigrafe per la mia generazione di ricercatori: “Essi vogliono entra re nella storia … nel senso che le loro storie personali cessino di consumarsi privatamente e di affogare senza orizzonte di memoria … essi vogliono che queste giornate siano notificate al mondo, acquistino carattere pubblico … e formino così tra dizione e storia Ancora, “Entravo nelle case dei contadini pugliesi come un compagno, cercatore di umane dimenticate istorie” (lo cito a memoria qua- si per dire che il ‘cercare umane dimenticate istorie’ è un giura- mento di Ippocrate della mia generazione di antropologi ita- liani, o almeno mio). E poi Al- berto Mario Cirese collaborerà con Gianni Bosio all’origine di quell’impresa di ricerca che sarà l’Istituto T. De Martino” di Milano (oggi a Sesto Fiorenti- no) e poi i Circoli “Gianni Bo- sio” a Roma e altrove. Questi fermenti hanno fatto della ‘sto- ria orale’ italiana, e in questo quadro delle storie di vita, un oggetto praticato da un fecon- do movimento intellettuale che alla fine degli anni ’70 ha con- nesso storici, antropologi, intel- lettuali locali, circoli e strutture (alcuni Istituti Storici della Resi- stenza ad es.). Un movimento che confermava la vocazione ,postbellica’ delle storie di vita a vivere in un ambiente di cultura plurale legato alla vitalità della società civile piuttosto che al mondo universitario. In que- st’ultimo spazio, dopo il lavoro anticipatore di Franco Ferrarotti in campo sociologico, i fermen- ti vengono ancora da esperienze di confine, come il dialogo epi- stolare di Annabella Rossi con Anna la ‘tarantata’, e – sul pia- no della fonte orale – dalla In- tervista a Maria di Clara Gallini, e poi – ma passiamo alla mia generazione – dalla Storia di Amelia curata da Annamaria Rivera (Lacaita 1984) storia ‘autografata’ e da Io so nata a Santa Lucia. Il racconto autobiografico di una donna toscana tra mondo contadino e società d’oggi’ (Società storica valdelsana 1988) a cura di Valeria Di Piazza (ricercatrice) e Dina Mugnaini (testimone), una storia di vita ‘graffita’ su una cinquantina di nastri audio e tradotta poi in quasi 400 pagine di libro, da me prefata e nata nell’ambito del mio insegnamento a Siena. Le storie di Amelia e di Dina, scrittura l’una, oralità ‘incisa’ l’altra, sono forse i monumenti della mia generazione alle storie di vita, rimasti in verità un po’ al margine degli studi italiani. Queste ricerche si sono connesse in parte con riflessioni sul parlato legate alla linguistica e alla dialettologia (ci sono interventi di De Mauro, Cardona, Giannelli entro i testi citati), in parte con il dibattito europeo sulla biografia avvenuto tra storici, sociologi e antropologi ma con molta teoria e scarsa ‘etnografia’. Di questo dibattito in Italia è stato apprezzato soprattutto il contributo di Maurizio Catani, sulla “Une histoire de vie sociale”. basato soprattutto su un ampio testo, una ampia etnografia ‘registrata’ dalla voce di Suzanne Mazé, trascritta e analizzata in Tante Suzanne. Une histoire de vie sociale (Paris 1982). Un contributo antropologico recente e autorevole viene ancora dalla cura ed edizione di un testo di scrittura popolare, Antonio
Mele Ci trovammo bene nel futuro. Storia della vita di un contadino, a cura di Maria Minicuci (Argo, 1997). La cura, presentazione, edizione di fonti mi sembra restare un buon requisito della tradizione italiana, formatasi alla scuola di Alberto Mario Cirese, che a sua volta aveva seguito maestri come Vittorio Santoli, e questo è un importante tema di differenza nel rapporto con l’antropologia americana contemporanea. Questo è il corredo di oggi dell’antropologia, ma si può dire che con l a nascita di grandi archivi come la Fondazione Nazionale Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano, promosso da Saverio Tutino con lo stile della generazione postbellica (Tutino è in effetti un ‘giovane’ della resistenza e un cogenerazionale di Rocco Scotellaro) ma con i problemi di oggi (l’individuo, la ‘persona’ nella società delle masse), la sollecitazione alla ricerca è cresciuta fortemente con, per ora, un maggiore privilegiamento della fonte scritta su quella orale, che è tradizionalmente terreno più esclusivo degli antropologi. Altri centri di ricognizione e valorizzazione delle storie di vita nascono localmente, cito sempre il caso della Biblioteca Comunale di Terranuova Bracciolini (AR) e il lavoro di Dante Priore che ha prodotto testi di storie di vita ‘autografe’ di grande rigore documentarlo e interesse antropologico. Un’altra generazione di antropologi si sta misurando con la nuova messa in evidenza di fonti ‘autografiche’: penso a Ferdinando Mirizzi, Francesco Marano, Eugenio Imbriani, Fabrizio Mangiameli, Anna Iuso, Piero Vereni e al loro lavori editi e in corso d’opera. Anche la storia orale, dopo i C capolavori’ di Sandro Portelli (Terni. Autobiografia di una città ) e Luisa Passerini (Torino operaia e fascismo, Storie di donne e di femministe) ha prodotto opere sistematiche come Verba manent di G. Contini e A. Martini che sono un contributo al consolidamento del territorio anche per altre discipline. Il contesto attuale è fecondo anche perché l’aprirsi del dialogo internazionale fa sì che la tradizione italiana dell’autobiografia come area critica e di confine si connetta con i fermenti critici dell’antropologia postmoderna statunitese, accentuando le problematiche epistemologiche che si connettono con la ‘polivocalità’, la moltiplicazione dei ‘portatori’ di antropologia, il gioco tra individui e gruppi tra regole generali e casi singoli. lo amo l’antropologia che nasce dalle etnografie ‘singolari’ , dalle storie della vita che l’antropologo ricolloca in contesti culturali specifici, ma con la consapevolezza che le singole storie rifanno continuamente i contesti’, e vi è quindi un’apertura interpretativa larghissima e confini mobili e inquieti, un corredo metodologico straordinario per lavorare sul mondo di oggi. Personalmente transitando piccoli mondi e diverse storie ho capito che l’antropologia culturale, almeno quella che piace a me, non studia le leggi generali delle culture ma il modo in cui, dentro le singole vite, una cultura viene appresa, giocata, interpretata, trasformata. Per me la cultura ormai non è nulla senza gli individui che la vivono e per i quali essa è un corredo senza il quale non potrebbero esistere, ma un corredo che agisce in modi diversi a seconda dei luoghi e dei tempi, e in modi che – a partire dal dibattito teorico che oppose ancora negli anni ’40 E. De Martino alla scuola di Durkheim – potremmo chiamare di ‘libertà individuale’. E’ questa ‘libertà’ che produce in noi che leggiamo ‘Io spettacolo meraviglioso’ e spesso imprevisto, di una vita raccontata da dentro una cultura, una cultura raccontata da dentro una vita.