Gli uomini il desiderio e la crisi della politica
Quando si parla di crisi della politica o della partecipazione, nella stragrande maggioranza dei casi si fa riferimento alla crisi dello stato, delle istituzioni, dei partiti, dei sindacati, o in generale delle arene in cui la gente potrebbe imparare ad esprimersi e a confrontarsi. Si fa riferimento cioè alla crisi delle forme, delle strutture, delle organizzazioni o, al limite, alla scomparsa di soggetti politici definiti, di grandi narrazioni capaci di unire e trascinare le persone.
Quando si parla di crisi della politica o della partecipazione, nella stragrande maggioranza dei casi si fa riferimento alla crisi dello stato, delle istituzioni, dei partiti, dei sindacati, o in generale delle arene in cui la gente potrebbe imparare ad esprimersi e a confrontarsi. Si fa riferimento cioè alla crisi delle forme, delle strutture, delle organizzazioni o, al limite, alla scomparsa di soggetti politici definiti, di grandi narrazioni capaci di unire e trascinare le persone. Di conseguenza si propongono riforme, interventi, operazioni d’ingegneria politica, nuove aggregazioni politiche nella speranza di colmare il vuoto e di rispondere agli elementi di crisi. Nessuna di queste operazioni tuttavia sembra veramente in grado, di per sé, di rinnovare la scena o di invertire il segno depressivo che ha investito lo spazio politico. Anzi, l’investimento simbolico assai diffuso sulla politica come spazio della decisione, del potere o addirittura del comando, contrasta singolarmente con la tendenza all’omogeneizzazione degli schieramenti, degli immaginari e perfino delle scelte strategiche oggi così manifesta e con la natura conservativa del sistema politico. Ho sempre trovato stimolante – per comprendere le basi di questa ripetitività della politica – la critica femminista del dualismo pubblico/privato su cui si è strutturata la società e le relazioni tra i sessi. Attraverso questa contrapposizione fondamentale, infatti, come ha notato Jessica Benjamin, “un intero ambito di attività umane, specificatamente la nutrizione, la riproduzione, l’amore e le cure, che nella storia della società moderna divennero destino delle donne, furono con ciò escluse dalla considerazione morale e politica e confinate nel regno di natura” (Benjamin, 1991, pp. 211-212). In altre parole tutto il sapere, le sensibilità e l’intelligenza legati all’esperienza delle relazioni fondamentali non trova generalmente eco nello spazio politico. Questo naturalmente ha avuto delle conseguenze importanti sul piano della vita politica. La relazione, la dipendenza, la mediazione sono il fondamento stesso della vita. Riconoscere la centralità delle relazioni nella polis, non porterebbe solamente a valorizzare saperi e competenze tradizionalmente femminili ma permetterebbe anche di arrivare a concepire più facilmente un tipo di azione politica basata sull’idea e sulla pratica della mediazione nelle relazioni piuttosto che sul potere e su un agire strumentale. La concezione strumentale dell’azione politica, tipica della cultura politica maschile, tende a reificare i valori e i desideri di cambiamento sociale, trasformandoli in qualcosa di esterno, di oggettivo, di quantificabile. La struttura dell’azione strumentale è infatti tipica dei rapporti tra persona e cosa, persona e oggetto, ovvero di quell’agire produttivo che come ha notato Hannah Arendt (1993), rimanda alla concezione e all’esperienza dell’homo faber. Le persone, in questo tipico modo di agire finalistico, divengono mezzi, strumenti, materia da plasmare per realizzare i nostri progetti razionali. Viceversa, nell’idea di Hannah Arendt l’azione politica riposa sulla pluralità, sul rapporto diretto tra persona e persona. In questa idea di azione politica la relazione non è soltanto un mezzo ma è ciò che da il senso e l’orientamento; nei fatti la vera fonte della trasformazione perché attraverso l’interazione può dar luogo a qualcosa di nuovo, d’imprevisto, d’inatteso. Il nostro desiderio di trasformazione sociale non è più predefinito ma si va costruendo attraverso la relazione con altre persone. In altre parole, l’obiettivo della nostra azione non è più ricercato all’esterno delle nostre relazioni e delle modalità stesse con cui agiamo quotidianamente, ma al contrario nell’attualità del nostro entrare in relazione ed agire insieme ad altri. Riconoscere questo fatto è difficile soprattutto per gli uomini. Come ha notato Victor J. Seidler, “come uomini, possiamo scoprire di essere più concentrati nelle nostre attività che nelle nostre relazioni, visto che troviamo più facile applicare nel nostro comportamento regole e principi universali, piuttosto che rispondere in modo individualmente attento ai bisogni degli altri; come se il prezzo che siamo stati costretti a pagare per il potere che abbiamo nella società, fosse quello della cecità e dell’insensibilità nei nostri rapporti personali” (Seidler, 1992, p. 58). Il dualismo pubblico/privato vela dunque un’altra opposizione ben più profonda e radicata nella tradizione politica occidentale, quella tra sé e il mondo. Nell’arena politica si affacciano soggetti “neutri” e razionali che si attribuiscono il compito di dirigere o trasformare il mondo. Queste persone immaginano probabilmente di trovarsi di fronte ad un mondo esterno, una specie di brutta scenografia che esiste “là fuori” e su cui credono di poter intervenire, cambiandola e modificandola in base ai propri giudizi e calcoli. Invano si cercherebbe nei discorsi degli uomini politici uno sprazzo di consapevolezza riflessiva che riconosca il legame tra sé e il mondo, tra la propria esistenza e l’esistenza di altri esseri. Così come invano si cercherebbe di leggere un volto o un atteggiamento che riveli in filigrana il riflesso di un’autentica ricerca esistenziale. Al contrario, l’inclinazione a voler cambiare il mondo corrisponde il più delle volte alla monoliticità dell’essere, all’indisponibilità del lavoro su di sé, alla mancanza di una visione relazionale e di un movimento profondo che procede trasformando in un flusso continuo il rapporto tra sé, gli altri, i contesti in cui si vive, la realtà più ampia cui in qualche modo si partecipa. La tensione verso la trasformazione sociale in connessione con una rigidità e una chiusura dell’essere crea dunque continuamente scacchi e contraddizioni e, in generale, l’impossibilità di realizzare mutamenti profondi. Non è solo una questione di resistenza o di attrito, ma anche della povertà di un progetto politico razionalistico che non si nutre continuamente del patrimonio di relazioni, esperienze, storie, vissuti, sensibilità, competenze, desideri diffusi e socializzati. La ricerca esistenziale e relazionale sta in effetti alla politica come l’acqua sta alla terra: è necessaria per rendere fertile il terreno e per far nascere ogni forma di vita. “Vivere pienamente, verso l’esterno come verso l’interno – diceva Etty Hillesum -, non sacrificare nulla della realtà esterna a beneficio di quella interna e viceversa: considera tutto ciò come un bel compito per te stessa” (Hillesum, 1987, p.45). Non si tratta solamente di un compito per l’individuo ma di una necessità della politica. Una politica viva affonda le radici nella ricerca, si nutre dell’esperienza, fa tesoro delle relazioni, scommette sull’arricchimento che può venire dal mettersi in discussione. In altre parole quello che ci manca più di ogni altra cosa non è un nuovo progetto politico, un nuovo soggetto o una nuova formazione. Ci manca invece una politica che sia il riflesso di un desiderio autentico e radicale di vivere, di vivere insieme con gli altri. Da questo punto di vista, oltre al dualismo tra pubblico e privato e all’opposizione tra sé e mondo, la politica maschile si fonda su un’opposizione tra politica e passioni esistenziali. In un libro intitolato Che cosa vuole una donna? Alessandra Bocchetti scriveva significativamente: “Ciascuno deve far politica per sé e a partire da sé, mettendo in gioco quel poco o tanto di saggezza, di esperienza di cui è capace. Certo un politico di sinistra si sente un po’ smarrito di fronte ad un’idea del genere, perché ha sempre avuto l’idea di fare politica per gli altri, per gli oppressi, per i senza parola. E nella sua testa in un certo senso la politica, alla fine, è una conseguenza della sofferenza. Invece la politica sarebbe necessaria anche se tutti fossero felici. Perché la politica è una qualità della condizione umana” (Bocchetti, 1995, p. 108) Effettivamente la rinuncia alla ricerca e all’esperienza esistenziale delle persone si riflette nella povertà della politica. La professionalizzazione della politica e il suo appiattimento in tecnica di gestione e amministrazione, per un verso nasconde le effettive emozioni che circolano tra i politici – il godimento del potere, il piacere che deriva dal disporre degli altri, dal riconoscimento, dalla deferenza, il narcisismo, la gloria, il sentimento di onnipotenza e d’immortalità – e per un altro verso impedisce di portare nella politica una complessità emotiva ed esistenziale che invece potrebbe contribuire a migliorare la qualità della vita collettiva. Non c’è un tentativo di dar spazio a ciò che si porta dentro di sé di vivente e non c’è un tentativo di mettere in relazione il proprio desiderio di fare esperienza della vita con il desiderio di fare esperienza del mondo e di contribuire ad una trasformazione sociale in senso più umano. Il fatto è che i desideri sono dappertutto eppure non c’è desiderio autentico. Certo, la società in cui viviamo è potente proprio perché fa leva sui desideri. L’intera nostra economia si basa sui desideri. Siamo continuamente sollecitati ed indotti ad individuare sempre nuovi desideri perché solo in questo modo si può sostenere la crescita continua e quindi la nostra società di crescita. Allo stesso modo, nell’ambito politico, si ricerca e si costruisce un sostegno con la promessa di una generale soddisfazione dei desideri e attraverso la loro manipolazione. In entrambi i casi ci viene chiesto comunque di desiderare qualcosa che c’è già (i prodotti esposti negli scaffali dell’ipermercato) o qualcosa di conforme alla realtà esistente (gli articoli disponibili sul mercato politico). Si tratta cioè – per usare l’espressione di René Girard – di desideri fortemente mimetici. Si desidera quello che desiderano gli altri. Ciò che gli altri mostrano di avere e che a noi manca. Quello che non è previsto è che intervengano invece dei desideri nati da una ricerca soggettiva ed autentica, dei desideri originali e difformi dalla norma. Per mantenere intatto il sistema, “la limitazione qualitativa del desiderio, il suo addomesticamento, è necessario come la sua crescita quantitativa” (Volli, 2002, p. 11). Dunque viviamo in una condizione di continua stimolazione e produzione di desideri eteronomi, un investimento continuo a breve termine che si fissa su oggetti o idee predefinite ed immediatamente disponibili. Tutto questo produce naturalmente, dietro l’apparenza di cambiamento e di novità continua, una sostanziale immobilità. Come suggerisce Ugo Volli, il cambiamento è limitato alla superficie delle cose ed è sostanzialmente conservatore. Si tratta per la verità di una forma di intossicazione. L’elemento conservatore è dato da una continua ed immediata alternanza tra evocazione di un desiderio predefinito, standardizzato e un appagamento immediato. Una continua produzione di senso di mancanza e una continua produzione di senso di piacere. Ciò su cui val la pena riflettere, da questo punto di vista, è che la componente più forte del desiderio, quella che connette il desiderio ad una forza di trasformazione sociale, non coincide affatto con l’appagamento o con il semplice principio del piacere. Tutto al contrario, come ha notato Camille Dumoulié, “se c’è qualcosa come un’utopia positiva del desiderio, cioè una forza rivoluzionaria che anima ogni vera politica del desiderio, è il suo rifiuto del principio del piacere” (Dumoulié, 2002, p. 301). L’idea di ripensare la politica mettendo al centro il desiderio non è affatto corrispondente alla infinita promessa di appagamento prodotta dal mercato globale. L’ideologia del supermercato globale infatti è fondata su due fantasie. La prima riguarda un eccesso di fiducia nel volontarismo, nella forza di volontà come possibilità di autoplasmarsi e di autodeterminarsi. In realtà per i processi di cambiamento non è importante che cosa possiamo conoscere o decidere razionalmente, quanto che qualcosa avvenga in noi, che qualcosa ci muova completamente, da un punto di vista della comprensione, della percezione, delle emozioni, dei sentimenti, del corpo, della mente. La seconda fantasia è che ci sia possibile fare e diventare qualsiasi cosa. Ovvero una fantasia di onnipotenza. In questo siamo il risultato di un’epoca che ha promosso l’idea di un individuo autonomo e imprenditore di sé, l’idea di felicità come un prodotto fra gli altri, raggiungibile al limite con l’aiuto di qualche pillola e di qualche manipolazione. In passato la società e la cultura ci dicevano, in base alla classe sociale, alla religione, che cosa, chi dovevamo essere. Questo ci forniva da un lato un certo senso di sicurezza e di tranquillità, dall’altro essendo qualcosa di costringente ci procurava anche delle nevrosi. All’opposto oggi la cultura dominante ci illude reclamizzandoci continuamente una molteplicità infinita di rappresentazioni e possibilità. Ci vuole convincere che possiamo sperimentare qualsiasi cosa, essere qualsiasi cosa, fare qualsiasi cosa. Nell’epoca del mercato e dell’individualismo ogni desiderio sembra ugualmente possibile e desiderabile. Non ci sono limiti o tabù di sorta. Tutto è apparentemente realizzabile. Crediamo che basti allungare la mano e sforzarsi con la buona volontà. Allo stesso tempo, poiché nessuno ci dice cosa essere o ci regala un’identità preconfezionata, noi diveniamo anche responsabili di chi siamo, di quello che diveniamo di fronte a noi, agli altri, alla società. Essere noi stessi diventa un compito, un’impresa. In realtà l’altra faccia di quest’idea di onnipotenza è la depressione. Vogliamo cose che non riusciamo a raggiungere. Ci sentiamo insufficienti, impotenti, stanchi, andiamo in panne. La nostra depressione – come suggerisce Alain Ehrenberg -, ci segna il limite tra il possibile e l’impossibile, traccia il confine dell’immanipolabile. Non possiamo determinarci a nostro piacimento. La depressione si affaccia quando scontiamo l’idea di una possibilità illimitata con la coscienza dei nostri limiti. Scopriamo che c’è un limite non padroneggiabile. C’è un margine di noi stessi che rimane immanipolabile. Come dice Alain Ehrenberg all’interno della persona c’è sempre un “lembo d’inconoscibile” che non può sparire del tutto. Il delirio di onnipotenza, ovvero partire dall’infinità di possibilità anziché dal rispetto per il lembo d’inconoscibile che portiamo dentro noi stessi, ci condanna non alla felicità ma alla depressione. Tutto questo non ci avvicina affatto alla libertà. La libertà si dispiega nella ricerca di una fedeltà profonda a se stessi e alla propria esperienza. Quel che ci muove è l’idea di diventare migliori, uomini migliori, persone migliori. Ci spinge il desiderio di trovare in noi stessi e nelle nostre relazioni forme di umanità più profonde, più intense, più belle. Possiamo maturare, trasformarci, divenire qualcosa di nuovo, forse dare vita ad un mondo migliore ma non possiamo fare qualsiasi cosa e soprattutto non qualcosa che abbiamo programmato idealmente a tavolino. Una vera ricerca esistenziale ed una politica del desiderio partono non da una semplice mancanza che si può colmare a piacimento, ma da una condizione accettata di incompiutezza intrinseca alla nostra parzialità e originalità e alla nostra dipendenza dagli altri, così come da una nostalgia del futuro. “Il y a toujours quelque chose d’absent qui me tourmente” scriveva Camille Claudel, in una lettera a Rodin. Così anche per noi c’è sempre qualcosa di assente che ci tormenta, qualcosa che ci incanta, che ci impedisce di bastare a noi stessi e ci spinge a cercare ancora per noi e per gli altri. Si tratta di un desiderio vitale di fondo, di una tensione e di un’apertura senza determinazioni prevedibili. Noi possiamo mantenere una tensione ideale, un orizzonte di senso, una direzione interiore ispirata a qualcosa di non ancora raggiunto: la disponibilità verso qualcosa che non conosciamo, che è più grande di noi e che è sempre appena di là da venire. Una direzione o una danza che si balla assieme ad altri piuttosto che una meta raggiungibile da soli. Qualcosa che lascia spazio appunto alla relazione, all’ascolto di sé, all’imprevisto, al caso. Un desiderio di cui non possediamo un’immagine. In fondo, per diventare più umani noi stessi, per rendere più umano il mondo – come direbbe Raoul Vaneigem – “non abbiamo bisogno né di preghiere né d’incantesimi ma di un senso più acuto della poesia vissuta” (Vaneigem, 1999, p. 108)
*Sociologo, Università di Parma,
Bibliografia
AA.VV., “ accaduto non per caso”, Sottosopra rosso, gennaio1996,
H. Arendt, Vita Activa, Bombiani, Milano 1991
J. Benjamin, Legami d’amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose, Rosemberg & Sellier, Torino 1991
A. Bocchetti, Cosa vuole una donna. Storia, politica, teoria. Scritti 1981/1995, La tartaruga, Milano 1995
Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità, Liguori Editore, Napoli 1995
La sapienza di partire da sé, Liguori Editore, Napoli 1996
C. Dumoulié, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, Einaudi, Torino 2002
A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino 1999.
E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1987
V. Seidler, Riscoprire la mascolinità. Sessualità ragione linguaggio, Editori Riuniti, Roma 1992
R. Vaneigem, Noi che desideriamo senza fine, Bollati Boringhieri, Torino 1999
U. Volli, Figure del desiderio. Corpo, testo, mancanza, Raffaello Cortina, Milano 2002.