I disturbi schizofrenici

I disturbi schizofrenici rappresentano da tempo una sfida per clinici, operatori sociali e ricercatori che intervengono nel settore della salute mentale. Nei paesi europei le stime più accreditate ne indicano un’incidenza nella popolazione attorno allo 0,3 per mille ed una prevalenza attorno allo 0,5 per cento. Ciò significa in Italia, ogni anno, poco meno di 20.000 nuovi casi e circa 300.000 persone ammalate a vari livelli di gravità.

Questi dati quantitativi vanno integrati da altre considerazioni: l’esordio dei disturbi schizofrenici, soprattutto nei maschi,
si colloca in genere tra l’adolescenza e l’età adulta, in un periodo quindi cruciale per la maturazione psicofisica e la socializzazione dell’individuo. Ciò comporta un rilevante impatto sulla rete familiare e sociale della persona interessata ed un ostacolo al raggiungimento di tappe evolutive essenziali.

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Fino a poco tempo fa, tra gli psichiatri, regnava incontrastata una concezione essenzialmente pessimistica del decorso e dell’esito di questi disturbi. I pazienti erano considerati inevitabilmente destinati ad un deterioramento progressivo nel corso degli anni, fino ad una concezione di cronica ed irreversibile compromissione psicopatologica, associata ad una grave invalidità sociale.
Questo modello è stato messo in crisi da una serie di studi epidemiologici compiuti in diverse aree del mondo, che hanno mostrato un quadro molto più variegato. Se vogliamo sintetizzare possiamo dire che la prognosi a lungo termine dei disturbi schizofrenici risulta essere assai eterogenea, con importanti differenze tra i paesi industrializzati e quelli con economie meno sviluppate e forti percentuali di popolazioni rurali. In base ai dati più recenti, nell’Europa occidentale, su tutti i pazienti che esordiscono con disturbi schizofrenici, a distanza di cinque anni circa, il 22% avrà un solo episodio con guarigione completa, il 35% avrà più di un episodio con remissione quasi completa tra un episodio e l’altro, il 35% avrà più di un episodio con discreta remissione nelle fasi intermedie e una tendenza ad un progressivo aggravamento, l’8% rimarrà in uno stato di grave malattia stabile e continuo. Vi è una certa evidenza ad una stabilizzazione del decorso dopo cinque – otto anni, con poche modifiche, in peggio o in meglio, negli anni successivi. Va notato, per contro, che nei paesi afroasiatici in cui sono state compiute ricerche, la percentuale di pazienti guariti dopo un solo episodio supera spesso il 50%. Teniamo presente che questi dati rappresentano medie riferite a gruppi di pazienti più o meno numerosi, mentre il decorso nel singolo caso è molto difficile da predire.
Le lezioni da trarre dalle ricerche epidemiologiche sono semplici:
– il decorso della schizofrenia può variare lungo un continuum che va dalla guarigione alla cronicità.
– Vi sono fattori nell’ambiente sociale del paziente che sono in buona misura responsabili di questa variabilità.
– Le variazioni si verificano nei primi anni di malattia, dopo, in prevalenza, i giochi sono fatti.
Di fronte a questa situazione si è sviluppato l’interesse, in primo luogo, all’identificazione dei fattori che contribuiscono precocemente alla variabilità della prognosi e, in secondo luogo, alla verifica se interventi terapeutici appropriati potessero modificare alcuni di questi fattori.
Un elemento, che in parte era già noto ma non aveva suscitato grande interesse, è divenuto oggetto di attenzione: il fatto che in molti casi tra l’inizio dei disturbi schizofrenici, il riconoscimento di uno stato di malessere da parte della persona o del suo ambiente e l’accesso alle cure passa parecchio tempo, anche due anni o più chiaro che, se una malattia è inguaribile, ma non mortale, un ritardo nel suo riconoscimento non è un problema, può essere anzi un fatto positivo in quanto risparmia per un certo periodo alla persona la consapevolezza dolorosa del suo destino, se però si pensa che ci siano possibilità di guarigione o di significativi miglioramenti, allora le cose cambiano: è possibile che una dilazione abbia un effetto negativo o impedisca il recupero dell’individuo. In effetti, sembra dimostrato che ci sia un collegamento tra una lunga durata della malattia, prima dell’inizio delle cure, ed una prognosi negativa, anche su questo i dati non sono univoci.
A ciò si aggiunga che negli ultimi decenni si è verificato un cambiamento nell’approccio alle cure dei disturbi mentali gravi: prima si basavano sul ricovero a lungo termine in istituzioni di tipo manicomiale, ora, in Italia ed in tutti i paesi industrializzati, si svolgono mentre il paziente rimane inserito nella comunità in cui vive. Pertanto, anche nel caso di guarigione incompleta o disturbi persistenti, è necessario fare i conti con le conseguenze sociali della malattia e con le aspettative delle persone malate e delle loro famiglie, tutte cose in precedenza occultate dall’internamento manicomiale. Esso, infatti, agiva come un grande livellatore, costringendo i pazienti in ruoli sociali rigidi e limitati: la cosiddetta carriera di malato mentale ben descritta dai sociologi negli anni Sessanta.
Questo insieme di considerazioni ha generato un’ipotesi di lavoro che è anche una scommessa. ? possibile, intervenendo precocemente in modo appropriato all’inizio dei disturbi schizofrenici, favorirne la guarigione o almeno migliorarne la prognosi, spostando, cioè, il paziente verso il lato più favorevole del continuum di cui parlavamo?
A partire da questa ipotesi si stanno muovendo gruppi di lavoro in diversi paesi del mondo, per verificarne la fondatezza e l’applicabilità.
Le linee d’intervento che al momento attuale vengono sperimentate sono molteplici:
– Una metodologia per l’identificazione precoce dei casi a rischio.
– L’uso di nuovi farmaci in grado di modificare i sintomi dei disturbi schizofrenici al loro inizio, senza provocare effetti collaterali spiacevoli o pericolosi.
– La messa a punto di strategie di psicoterapia individuale flessibili e adatte alla fascia d’età giovanile su cui s’interviene. ? L’elaborazione di modelli d’intervento sulla famiglia, che ne favoriscano il ruolo positivo nell’elaborazione del malessere psicologico del giovane.
Si tratta di una prospettiva affascinante ma difficile, in cui bisogna tenere conto di alcuni aspetti psicologici dell’esordio dei disturbi schizofrenici. Essi, infatti, nella fase precoce che a noi interessa, tendono a presentarsi con caratteristiche aspecifiche, non facilmente distinguibili dai connotati comuni a molte forme di crisi adolescenziale.
L’etichettamento precoce di tali situazioni come l’inizio di una grave malattia mentale può rendere difficile il rapporto tra clinici ed utenti e avere effetti negativi facilmente intuibili.
Di conseguenza, l’ipotesi di lavoro a cui accennavamo richiede una riformulazione che implica uno spostamento su un terreno insieme più complesso ed ambizioso: è possibile intervenire su un certo tipo di problematiche psicologiche legate al disagio adolescenziale e giovanile, in modo da prevenire l’evoluzione negativa di alcuni casi verso un disturbo di tipo schizofrenico. Chiaro il passaggio dal concetto di cura precoce al concetto di prevenzione e lo spostamento da un contesto specialistico, in cui il clinico attende che il paziente gli si presenti, ad un contesto comunitario, in cui gli operatori si muovono nei vari ambiti in cui il disagio si manifesta, dalla scuola ai servizi sociali, alla medicina di base. Ciò richiede un riorientamento culturale e pratico di vasta portata.
Le prospettive che abbiamo delineato sono in una fase fluida e non permettono certezze e conclusioni operative; in particolare, le ricerche in grado di confermare o smentire le ipotesi a cui ci riferivamo prima sono tuttora in pieno svolgimento e non consentono conclusioni affrettate. Tuttavia, è importante che tutti coloro che operano nel settore della salute mentale ne siano consapevoli e siano pronti a coglierne le implicazioni.
Infine, al di là degli aspetti strettamente tecnici, qualunque approccio alla prevenzione dei disturbi mentali gravi non può eludere tre aspetti cruciali:
– il pessimismo e l’atteggiamento negativo dei clinici sulle possibilità di guarigione rimane diffuso, nonostante i dati delle ricerche di cui abbiamo discusso all’inizio, ed è frutto di una radicata tradizione culturale ancora lungi dall’essere superata.
– Lo stigma sociale che accompagna i disturbi mentali è un potente fattore che inibisce il riconoscimento e la ricerca di aiuto per qualunque stato di disagio psicologico.
– I servizi di salute mentale perpetuano tuttora pratiche di lavoro e modelli d’intervento carichi di aspetti iatrogeni e non favorevoli ad un approccio accogliente ed amichevole degli utenti.
La modifica di questi aspetti negativi non potrà venire solo dai tecnici, ma richiede una consapevolezza sociale ed una presenza critica dei vari segmenti della società civile, senza i quali la prevenzione dei disturbi mentali gravi non sarà un obiettivo concretamente raggiungibile.

Bibliografia
Agnetti G. e Rigliano P., Considerazioni introduttive sugli interventi precoci nelle psicosi, Rivista Sperimentale di Freniatria, 122: 78-85,