Il metodo clinico nelle professioni educative e formative
Abbiamo intervistato Angelo M. Franza, docente di Pedagogia all’Università di Bologna, sul metodo clinico.
Sappiamo che da qualche tempo lei si occupa dello sviluppo delle competenze cliniche nelle professioni educative e formative. Può dirci cosa si intende, nell’ambito del metodo clinico, per “sguardo clinico” e “ascolto clinico” ?
Lo sguardo e l’ascolto clinico sono uno sguardo e un ascolto attivi, loquaci, interroganti, comprendenti, partecipanti, non giudicanti, non intrusivi, non “captivi”, non capziosi, non repulsivi.
L’oggetto da osservare, l’oggetto da esplorare, l’oggetto da interrogare non sono esterni a noi o non sono completamente esterni a noi. Allora per me sguardo clinico e ascolto clinico su un oggetto, non è tanto lo sguardo di un osservatore che guarda l’oggetto dietro un vetro, come in genere si fa per poterlo copiare su un foglio da disegno. La coscienza che entra in campo, la coscienza dell’osservatore cioè, non è come una camera oscura in cui l’osservatore riproduce attraverso la rappresentazione l’oggetto da osservare. La coscienza che entra in campo è una coscienza che interviene nel campo di osservazione e si affianca all’oggetto di osservazione e che in un certo qual modo li co- costruisce sulla base di una partecipazione, di una negoziazione, di una condivisione tra osservatore ed osservato. Quindi potremmo affermare che l’osservatore, il formatore, il maestro, l’insegnante, il pedagogo, in realtà, più che osservare l’allievo, il formando, più che osservare l’oggetto di apprendimento o il processo di formazione osservano e rilevano la loro relazione con l’oggetto di osservazione.
In qualche modo non si ha mai un rapporto diretto con l’oggetto di osservazione: A non osserva mai direttamente B, ma A osserva il rapporto che A ha con B [A ->(A-B)]. Questa relazione, lo si voglia o no, interviene massicciamente nella progettazione e nella messa in atto di sistemi di azione volti alla comunicazione, all’apprendimento e alla formazione. Lo sguardo e l’ascolto clinico dovrebbero fare emergere proprio questa coinclusione e coimplicazione tra osservatore ed osservato che spesso rimane nascosta, inavvertita, latente.
Potrebbe aiutarci a comprendere meglio l’idea e l’utilizzo della narrazione in pedagogia con approccio clinico?
Potremmo utilizzare a questo proposito l’analogia con il sapere medico.
Il medico attraverso uno sguardo clinico, e successivamente attraverso una sintomatologia e una semeiotica, interroga il corpo del malato e tenta di individuare i segni, di interpretare l’insieme dei segni come sintomi o sindromi di una determinata malattia. A questo punto la percezione diventa un vero e proprio linguaggio, infatti parliamo di sguardo clinico, di fiuto clinico e il bravo clinico è colui che ha occhio e intuito clinico ed è capace di interpretare i segni come sintomi e come manifestazione di qualcosa che non è direttamente visibile. Questo linguaggio si costruisce a partire da una clinica, da un piegarsi sul corpo del malato, ossia sull’esperienza che il corpo del malato ha della malattia; da qui una capacità d’osservazione che consenta una interpretazione e un’individuazione del logos della malattia. In una seconda fase il medico dall’interrogazione dell’esperienza che il corpo del paziente ha della malattia passa ad una interrogazione dell’esperienza che il paziente ha della malattia. è l’anamnesi in cui il medico interroga il paziente e questi racconta come e quando sono comparsi i primi malesseri, i primi segni e quali altri disturbi hanno preceduto o seguito o accompagnato il quadro morboso. A questo punto il medico è passato a interrogare
il corpo narrativo che il paziente produce circa la malattia. A differenza della prima fase dove la percezione diventa linguaggio, qui è il linguaggio che diventa uno strumento di percezione. Non è più quindi il corpo fisico del paziente ad essere interrogato ma il corpo delle sue narrazioni circa la malattia, l’insieme dei pensieri, delle emozioni, delle osservazioni espressi dal paziente, in breve l’esperienza che il malato ha della malattia. Ecco l’emergere del dispositivo narrativo di cui la narrazione è il prodotto terminale.
L’ordito e la trama di un telaio in cui si intrecciano rappresentazioni, ricordi, desideri, affetti, percezioni e che proprio grazie a questo intreccio si rendono visibili, riconoscibili tanto al narratore quanto all’ascoltatore, in una gestalt che esige lo sforzo di attribuzione di significato e di un impegno alla verità da parte di entrambi. E’ l’ascolto che fa la musica, è l’ascolto che fa la narrazione. Il testo è un ponte che unisce narratore ad ascoltatore su cui transita esperienza che si offre all’osservazione, alla condivisione, all’ elaborazione e all’interpretazione altrui. Certo il “narratore” non è del tutto disinteressato; la verità medica circa un mio malessere inciderà sulla mia vita quotidiana non fosse altro che per praticare un rimedio. La verità pedagogica di cui sono portatore (ossia il modo in cui sono stato formato ed educato) inciderà sul mio modo di fare formazione ed educazione non fosse altro che per capire meglio il perché e il come di quel che sto facendo. Il medico mi aiuterà a pensare i miei pensieri circa la mia malattia e il mio essere malato, il clinico della formazione mi aiuterà a pensare i miei pensieri circa la mia formazione e il mio essere formato.
L’apprendere dall’esperienza che il metodo clinico inaugura ed incrementa vale sia per il medico che per il paziente, sia per il clinico della formazione che per il consultante e non è privo di una sua specifica ricaduta sull’esperienza di entrambi.
L’arricchimento dell’esperienza professionale è fuor di dubbio, ma è altrettanto indiscutibile il guadagno formativo degli utenti: nel primo caso, una maggiore familiarizzazione con la malattia ed una attiva partecipazione nella co-gestione della terapia, il che ri-configura e ri- comprende l’esperienza di malattia. Nel secondo caso, la scoperta e l’esplorazione delle connessioni che si danno tra un certo modo di fare formazione ed educazione e del modo in cui si è stati formati ed educati, il che ri-configura e ri-comprende l’esperienza professionale di formazione.
Può essere utilizzato a suo parere il metodo clinico per l’esplorazione dei processi formativi individuali dell’operatore impegnato nella relazione d’aiuto e per il miglioramento delle strategie che supportano la sua azione educativa?
Penso sicuramente di sì proprio perché in quanto clinica è una formazione che chiama continuamente in campo proprio chi la svolge.
Una formazione clinica dovrebbe essere in grado di far sì che l’operatore tenga continuamente conto di sé stesso, di come è fatto, di come è stato formato, di quali sono le strategie, le tattiche, i metodi che pivilegia e per i quali è più tagliato. E’ un tipo di formazione che richiamandolo continuamente in gioco gli consente anche, in un esame di realtà, non solo di compiere delle scelte circa i metodi ma anche di scegliere se accettare o meno certi compiti, certe commesse. Questo tipo di formazione è anche in grado di far individuare all’operatore quali possano essere le zone nella sua preparazione che sono bisognose di un ulteriore arricchimento in termini di conoscenza e preparazione, oltre che di un’ulteriore esplorazione.
In questo senso anche la formazione universitaria dovrebbe, a suo parere, prevedere un lavoro di esame rispetto a quelli che sono stati i modelli educativi individuali?
Io credo che questo tipo di lavoro si possa fare già in sede universitaria, io l’ho fatto con gli studenti sia di Psicologia che di Scienze della formazione. A livello universitario è possibile farlo evidentemente in relazione alle esperienze di formazione di cui sono portatori gli studenti che sono inevitabilmente diverse da chi già lavora e ha quindi alle spalle sia un’esperienza di formando sia di formatore. Ma per me è assai utile svolgere questo lavoro in ambito universitario perché mette in grado, anche lo studente di prendere consapevolezza dei modelli educativi-formativi ai quali è stato esposto nella sua storia di formazione.