Il padre dentro

Perché dedicare un numero al padre? Come spiegare la riapertura di un discorso che pare poco attuale, chiuso anni fa con la ribellione verso il padre, con la sua scomparsa dall’orizzonte sociologico, nonostante sia stato depositario di quel principio di autorità verso il quale si orientò un attacco all’inizio degli anni Cinquanta?

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Ci si incamminava verso una società senza padre, ma a questa euforia collettiva sono seguiti anni di silenzio, un progressivo rarefarsi del discorso, quasi a prefigurare un’attesa del suo ritorno. Ci sarebbe da chiedersi se il padre che ritorna è lo stesso di cui si è decretata la morte, scavando nel nostro recente passato, smascherando le illusioni del presente. Credo che un lavoro iniziale lungo questo percorso sia lo scritto di Villa in questo stesso numero della rivista, i cui temi andranno ripresi ed approfonditi. Ed è proprio riprendendo alcuni temi di questo articolo che vorrei proporre una introduzione a questo ritorno del padre.
Riprendiamo la distinzione tra ruolo e funzione che viene proposta nell’ultima parte dell’articolo. Credo che il ruolo si situi sul versante di un mandato culturale in senso lato. Il ruolo poteva funzionare quando il discorso familiare e il discorso pubblico coincidevano senza discontinuità, per cui all’interno della famiglia il ruolo esercitato era tale su mandato pubblico, quasi un doppione in piccolo (o forse in grande, nella costruzione fantasmatica) dell’autorità pubblica.
Questo costituiva il fondamento dell’autoritarità, la sua continuità, la sua forza non interrogabile, tale perché data su mandato pubblico. Lo iato che si apre tra i due fronti, dovuto soprattutto agli esiti di questo connubio sul piano storico, al punto di non ritorno segnato dalla prima guerra mondiale, crea una frattura tra i due piani, facendo passare la domanda di interrogazione sulla legittimità all’interno stesso della famiglia, all’interno stesso del rapporto tra generazioni.
l’interrogazione sulla legittimazione sposta il piano del discorso dall’autorità all’autorevolezza. Da questo spostamento si assiste allo spostamento tra ruolo e funzione, da una coloritura difensiva ad una propositiva. Da qui un incrocio tra trame temporali pubbliche e private, che comportano assunzione di responsabilità e un agire non protetto, non garantito da una società che fa uno con la famiglia.
Questa dell’assunzione di responsabilità è l’elemento nuovo che viene introdotto rispetto al passato, da quando gli effetti della fusione precedente e delle garanzie ad essa associate hanno mostrato gli esiti verso cui si poteva andare. Responsabilità verso la propria funzione, responsabilità critica verso
le notalgie che colorano il passato di note tenui, che annegano tutto in una presupposta ignoranza, in un non sapere che maschera il non averne voluto sapere. Ma oggi si sa, si conoscono gli esiti di alcuni percorsi che richiedevano sacrifici in nome dell’ideale e questo ha generato un disincanto che apre lo scenario delle responsabilità individuali, dei gesti compiuti per sostenersi nella propria funzione senza garanzie, senza potersi riferire ad altro, senza incarnare un’autorità altra a cui riferirsi ed esercitare il ruolo su sua delega.
Questo disvelamento ha portato ad un ripiegamento dei padri (ove il plurale segna proprio la realtà di una suddivisione non piu tenuta dal discorso pubblico) ai margini, e ha portato ad attribuire ad esso i più svariati significati eziologici nella psicopatologia. Padri assenti perchè lontani, dove l’assenza veniva quasi rappresentata fisicamente attraverso il lavoro o la distanza geografica, senza interrogare il correlato che l’assenza supposta portava con sé, e cioè l’eccesso di presenza di un padre dell’inconscio che si presentificava negli incubi dei pazienti.
Ma, dimenticando l’intreccio, si invocava il padre, senza vederlo già presente, quasi che la presenza fosse troppo ingombrante, risvegliasse i nostri stessi incubi riguardo l’autorità. Invocare ‘la parola’ che porta ordine è un modo singolare per sfuggire al disordine che ci circonda. Cercare ‘il padre’ per evitare ‘un padre’, dove l’indeterminativo rimanda al padre che si incontra e che nella realtà possa far da argine all’altro padre. l’indeterminativo indica la non definibilità a priori di quella funzione, che assegna nomi distinti a quella funzione, che permette un incontro con lui.
Figlio tossico = padre assente. Quante volte questa equazione è stata fatta all’interno di elucubrazioni sulla tossicodipendenza, quasi a segnare un rapporto causa-effetto che non necessitasse di altre interrogazioni. Nesso stringente che consegnava il soggetto ad una sorta di predestinazione, perché l’assente era il padre, scambiando assenza con eccesso di presenza. Quello stesso padre assente di Giovanni, che nel corso di un colloquio chiede lui quasi la presenza di un possibile padre, delegando, con tono dimesso quasi confessando la sua impotenza a sostenere quel ruolo, consegnandosi in un vicolo cieco che non gli permette di cogliere la possibilità della funzione. Quanti hanno preso sul serio, alla lettera, questa delega. Quante comunità si reggono su questa finzione del padre, facendo tutt’uno di ruolo e funzione, erigendosi a depositari dell’autorità, e quanto questa domanda di presenza viene alimentata dalla incapacità di comprendere, dalla impossibilità a fare i conti con ciò che nell’inconscio resiste, si oppone, trova la via per rappresentarsi?
Domande, rinvii, che sembrano lontani dalla quotidianità, sembrano caratterizzare l’eccezione, l’insuccesso, il fallimento di un progetto che intrecci nel tempo della storia le generazioni. Ma piu vicino a noi, nel nostro vivere comune, il continuo e reiterato richiamo a regole a volte assurde che reggono la vita in comunità, dalla scuola a comunità terapeutiche, non nasconde in fondo un appello ad altro che ci legittimi, che risolva in partenza la dolorosa lacerazione che il problema dell’autorità nelle relazioni asimmetriche pone?
Scorciatoie, tentativi di eludere il rischio che l’avvicinarsi all’altro pone, tentativi di negarne la presenza, di evitare quel punto di inconsistenza che la presenza dell’altro segnala in noi. Operatori, insegnanti, genitori, cerchiamo di stringerci nel ruolo per evitare di incontrare il limite che la presenza dell’altro segnala, la ineludibilità di una scelta nostra, che nessuno puo garantire in partenza, che nessuno può compiere in nostra vece.
Rivedere l’articolazione tra le due figure di padre comporta anche ripensare questa dimensione della responsabilità. Dimensione che non può più essere occultata tramite l’adesione al dettato sociale; la rottura della continuità sociale porta alla ricerca di percorsi individuali per poter pensare il rapporto tra ruolo e funzione. La proposta presente nella prima parte dell’articolo di Angelo Villa cerca di rendere conto di questa frattura in termini originali, legandola ai due topos della tragedia e della catastrofe come modi di pensare la nostra epoca. In questa contrapposizione si insinua il nodo del tempo, come asse tra le generazioni, come traccia che le lega, che le tiene unite o le separa, che permette di comprendere i processi o li azzera ogni volta, come la pietra di Sisifo, che nel suo rotolare contrassegna l’assenza di senso.
Il rapporto problematico tra l’essere un padre e ‘il padre’ va anche inquadrato nella nostra congiuntura storica, prodotto della frattura che gli orrori della seconda guerra mondiale hanno svelato, quando l’obbedienza si è rivelata essere una virtù foriera di disastri. Occorrerebbe riflettere su come gli eventi luttuosi collettivi abbiano interrogato la coscienza collettiva (soprattutto mi riferisco alle guerre, e potremmo citare come esempio che cosa ha provocato la guerra del Vietnam negli Stati Uniti), quasi che esaurita la dimensione collettiva le domande irrisolte si riverberassero nella dimensione privata, nelle singole coscienze, interrogandole sulle loro responsabilità.
Juri Naghibin, nel suo bellissimo libro Alzati e cammina, ci parla proprio del padre, anzi di un padre, inseguito nella geografia dell’Unione Sovietica e nella sua storia dai tempi di Stalin al dopoguerra. Una scelta l’ha allontanato fisicamente dalla famiglia, viene inseguito dal figlio, cercato, interrogato. Il suo fisico muta nel tempo, progressivamente si indebolisce, la sua statura sembra diminuire agli occhi del figlio. Eppure, l'”alzati e cammina” di evangelica memoria sembra rivolto al figlio, quasi che la parola potesse strapparlo alla morte, ad un declino mortifero, ad un abbandono senza prospettive. Anche nella debolezza, nella fragilità c’è la dimensione della responsabilità, abolendo quel culto della forza che circonda ‘il padre’.
Qui l’amore è confronto, possibilità di indicare il limite che anche l’amore non può superare, dimensione della parola che permette di dire il mondo sfuggendo ad una naturalità spesso supposta, mai verificata. l’epoca narrata è drammatica, le possibilità di scelta ridotte, eppure vi è ancora un ambito per vincere il silenzio, per dirsi ai propri figli, per individuare il luogo da cui parlare, esercitando quella funzione che non può essere delegata ad altri, quella strettoia che nessuno può percorrere per noi.
Scevro da superominismo, che porterebbe ad identificarsi con un dio possibile alternativo a quello attuale, Naghibin narra della possibilità di assumerci le responsabilità del nostro tempo. Percorso accidentato e non garantito, che consegna alle generazioni successive una possibilità di memoria, di tempo non vano.
Thomas Bernhard scriveva che diventiamo grandi nonostante il cono d’ombra delle paure che i nostri genitori proiettano su di noi. Segnare quel cono d’ombra come confine e limite non significa azzerare le paure, ma cercare, nonostante queste le possibilità di metterci in gioco nella nostra epoca.
“Perché il padre”?, ci chiedevamo all’inizio.
Forse per rendere possibile l’essere un padre.