Interventi educativi con figli di famiglie maltrattanti

Sempre più spesso gli operatori della rete psicosocioeducativa sono chiamati a costruire dei progetti multiprofessionali che concernono minori maltrattati, abusati sessualmente, gravemente trascurati. Tali progetti, che vedono come soggetto protagonista il minore, ma non possono – nel suo interesse – trascurarne i genitori (spesso portatori di patologie psichiatriche e/o di dipendenza da alcol e droga, inseriti di regola in famiglie problematiche da più generazioni), sono per loro natura estremamente complessi. In tale complessità rischia di smarrirsi il ruolo di ciascuno e l’interconnessione di ciascun ruolo con quello degli altri membri della rete.

Vorremmo qui riportare una semplice griglia che favorisca la chiarezza dell’intervento dell’educatore di fronte a questi tipi di minori e di famiglie, in modo da permettere una collaborazione efficace con assistenti sociali e psicologi che si occupano del medesimo caso.

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Schematizzando, l’educatore può essere chiamato a svolgere tre funzioni diverse:
1) un’opera di osservazione, per contribuire alla formulazione di una prognosi di recuperabilità della famiglia del minore;
2) un’azione di supporto a breve e medio termine, allorché sia già stata formulata una prognosi positiva quanto a recuperabilità della famiglia;
3) una sostituzione delle funzioni parentali, a lungo termine, qualora sia già stata formulata una prognosi negativa sulla irrecuperabilità dei genitori.
Vediamole una ad una.

Osservare

Il primo tipo di intervento è tipico degli educatori che operano nelle comunità o nei gruppi appartamento che si strutturano per ricevere 24 ore su 24 i minori allontanati d’urgenza dai genitori che li maltrattano, li trascurano gravemente, ne abusano sessualmente. Questo tipo di accoglimento deve rispondere al bisogno di protezione immediata, offrendo al minore uno spazio sicuro, ponendo fine al suo coinvolgimento in situazioni traumatiche cariche di sofferenza e di confusione. Gli educatori devono essere in grado di aiutarlo a sopportare la separazione, a recuperare il suo ruolo di bambino, meritevole di essere protetto e accudito, a capire il senso delle complesse vicende in cui le istituzioni di protezione e di cura si stanno muovendo attorno a lui e ai suoi familiari.
Rapidamente, però, il compito degli educatori si allarga all’osservazione del minore: osservazione degli indicatori di danno che manifesta (fisico, sociale e psicologico) e osservazione delle sue relazioni con i genitori (in particolare durante il monitoraggio delle visite in comunità o nel cosiddetto “spazio neutro”). I dati derivanti da tale osservazione debbono essere trasmessi all’équipe psicosociale incaricata della valutazione di recuperabilità, per contribuire alla formulazione della prognosi. In parallelo con questo lavoro di valutazione svolto dall’équipe, il compito degli educatori comprenderà anche la capacità di sostenere il minore nell’ansia connessa all’incertezza circa il suo futuro, aiutandolo via via a reinvestire nei suoi genitori, qualora si profili una prognosi positiva, o a disinvestire, nel caso opposto.
In casi meno gravi, l’osservazione può essere svolta al domicilio del minore. Quando non si ritenga necessario procedere d’urgenza ad un allontanamento, l’educatore domiciliare può svolgere un’opera di controllo sui requisiti minimali di sicurezza del bambino, e nello stesso tempo di osservazione, tanto sul danno che sui rapporti familiari, così come abbiamo appena detto. E’ indispensabile che in una fase precedente alla formulazione della prognosi la presenza dell’educatore domiciliare non sia contrabbandata come un puro intervento di aiuto, comunicazione scorretta (infatti dall’osservazione potrebbe scaturire la necessità di un successivo allontanamento) che può indurre più avanti vissuti di tradimento.

Supportare

Un’azione di supporto a breve o medio termine ad un minore, in presenza di una prognosi positiva sui genitori, può essere effettuata di preferenza, nei casi più lievi, con un intervento domiciliare. Qualora invece permangano motivi che impongono il prolungarsi dell’allontanamento, questo dovrebbe, in linea di massima, essere fatto in una famiglia affidataria. A volte però non si dispone di questa risorsa, oppure la brevità del tempo previsto per l’ulteriore soggiorno del minore fuori casa, dopo il collocamento d’urgenza in comunità durante la fase di valutazione, rende più pratico il mantenimento nella stessa comunità piuttosto che il trasferimento in una famiglia sconosciuta. Comunque parliamo qui di comunità educative con caratteristiche di case-famiglie, e non di istituti massificanti e spersonalizzanti. In questo caso il compito dell’educatore, sia domiciliare che di comunità, diventa quello di supportare la relazione tra il bambino e i genitori, diventando per questi un valido modello da imitare e promuovendo il più possibile la ripresa di un rapporto fluido tra il bambino e i genitori.
Finita la fase di osservazione della relazione figlio/genitori, inizia infatti ora la fase terapeutica, che è di pertinenza dell’équipe curante, ma a cui l’educatore può dare un valido apporto come mediatore delle esigenze del bambino e dei genitori. In particolare il bambino traumatizzato dal maltrattamento subìto e dalla successiva separazione dai genitori può diventare in questa fase estremamente richiedente, a risarcimento del danno ricevuto. I genitori, dal canto loro, rischiano di abbandonare il necessario atteggiamento autocritico, che hanno acquisito ancora in maniera fragile, scivolando in reazioni difensive e aggressive, con il rischio di un nuovo deterioramento delle relazioni con il figlio.

Sostituire

La sostituzione a lungo termine delle funzioni parentali per un minore i cui genitori sono stati valutati irrecuperabili dovrebbe avvenire in una famiglia adottiva. Per un adolescente si potrebbe eventualmente cercare una famiglia affidataria “sine die”. Qualora entrambe queste soluzioni non siano ipotizzabili, la comunità educativa a cui il minore è affidato deve essere ben consapevole che il suo ruolo non è quello di favorire un riavvicinamento tra il minore e i genitori, bensì quello di aiutarlo a fare il lutto dei genitori capaci e affettivi ai quali avrebbe avuto diritto.
Gli educatori in questo caso devono testimoniare al minore la legittimità dei suoi sentimenti di sofferenza e di perdita, accompagnandolo al doloroso bilancio dell’incompetenza dei suoi genitori. Questo processo di uscita dall’idealizzazione e dalla deformazione della realtà può essere compiuto solo in presenza di investimenti affettivi sostitutivi: è dunque necessario che la comunità consenta rapporti stabili e personali tra educatori e minori, immaginando forme di prolungamento della relazione di dipendenza che vadano al di là del burocratico compimento del diciottesimo anno di età.
Perché questi tre tipi di intervento possano andare a buon fine, comunque, è indispensabile che nella fase della formulazione del progetto l’équipe responsabile del caso e gli educatori possano intendersi con chiarezza sull’obiettivo del lavoro educativo, e quindi sul contratto.
Spesso l’équipe psicosociale interpella gli educatori (per un intervento domiciliare o per un accoglimento in comunità) senza aver ben chiaro in quale fase del progetto ci si trova (osservazione, supporto, sostituzione). Se gli educatori accettano il caso senza aver preliminarmente chiarito che cosa ci si attende da loro, non potranno che ingenerarsi malintesi, di cui faranno le spese minori e genitori. Ad esempio, gli educatori potranno prematuramente assumere un atteggiamento di sostegno là dove ci si attende che forniscano dati per formulare una prognosi, o ricominciare con un’osservazione distaccata allorché sarebbe già indicato un supporto alla relazione genitori/figlio. Le cooperative di educatori domiciliari e le comunità alloggio, interpellate dai servizi come preziose risorse in casi dolorosi e intricati, possono svolgere un’opera meritoria (e garantire efficacia al proprio intervento) se in fase di contratto richiamano i loro interlocutori alla necessità di precisare in quale delle tre fasi ci si trova nel progetto globale di presa in carico di ciascun caso. La collaborazione, infatti, non va intesa puramente come espressione di buona volontà
o di reciproca cortesia, ma come capacità di costruire progetti complessi in cui ci sia una chiara articolazione dei ruoli e delle funzioni di ciascuno.