Intervista a Silvia Vegetti Finzi

A conclusione della trilogia sulle fasi dell’età evolutiva abbiamo posto delle domande all’autrice del testo che affronta l’adolescenza dei ragazzi del duemila.

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Cozzi, Piacente: Si nota una differenza tra i due testi precedenti della trilogia e questo; nel testo precedente il passo era più sicuro, quasi che l’oggetto di cui si parlava fosse più definito. In questo testo in alcune pagine il procedere é incerto, quasi che l’oggetto di conoscenza fosse meno definito. La stessa sensazione la si ha leggendo il testo di F. Dolto sull’adolescenza. Allora la domanda potrebbe essere questa: non é che il parlarne, sia un tentativo continuo di definire un oggetto che sfugge, e non é che questa sensazione sia dovuta all’immagine del soggetto sulla scena che non si lascia irretire dal sapere?

Silvia Vegetti Finzi: Proprio perché l’adolescenza è un’età mutevole, imprevedibile, incerta, ancora aperta a ogni evoluzione possibile, è impossibile circoscriverla entro i limiti di definizioni precise. Mentre un bambino è un bambino, e un adulto (o, quanto meno, cerca o finge di esserlo), l’adolescente è in bilico fra queste due condizioni esistenziali, in una continua alternanza di movimenti in avanti e improvvise regressioni a stadi di sviluppo più infantili che rispondono a un’esigenza tipica di quest’età: reculer pour miex sauter, indietreggiare per meglio prendere la rincorsa e spiccare il salto in avanti. Parlare di adolescenza non significa quindi cercare di “definire un oggetto che sfugge”, ma seguirlo nei suoi balzi in avanti e nelle sue regressioni cercando di capire i suoi conflitti, i desideri e le paure che l’adolescente lascia dietro di sé in questo percorso, come i segnali lasciati da Pollicino nell’allontanarsi da casa.

Per capire un adolescente è indispensabile, come sottolinea lo psicoanalista francese Patrice Huerre (l’adolescence en héritage, ed Calmann Lévy) rifarsi alla propria esperienza. E ricordarsi di quando noi stessi eravamo adolescenti, superando quella curiosa forma di “amnesia selettiva” che spesso induce gli adulti a dimenticare gli aspetti e gli episodi meno edificanti di quell’età, parzialmente rimossi dalla coscienza proprio per cancellare l’oscuro senso di vergogna, di inadeguatezza o di colpa che ancora provocano. E’ attraverso la propria adolescenza che si può entrare in quel territorio di confine, quel mondo a parte che continua ad essere l’adolescenza oggi, cogliendone sia le affinità che le diversità. Senza dimenticare di tenere per sé tutto ciò che si viene a scoprire, a capire, a sapere sull’adolescente: un soggetto che non solo “non si lascia irretire dal sapere”. Ma, a livello più profondo, nonostante le accuse di incomprensione che rivolge agli adulti, genitori e insegnanti, in realtà non vuole essere capito. E’ così forte, e a volte così doloroso, lo sforzo che l’adolescente sta facendo per capire se stesso, chi è, che cosa vuole, attingendo a piene mani alla nuova capacità di introspezione, che non tollera di essere intralciato in questo percorso di scoperta da chi crede, a torto o a ragione, di saperne più di lui.

C./ P.: Ma è vero o no, infine, che l’adulto, proprio in ragione della propria dultità è più competente dell’adolescente?

S. V. F.: Anche se in realtà l’adulto ne sa di più sull’adolescenza dello stesso adolescente, e conosce meglio i rischi e i pericoli legati alle molteplici trasformazioni di questa età, avendoli già vissuti, si tratta di un senno di poi di cui i ragazzi non sanno che farsene, impegnati come sono a costruire il loro sapere e la loro conoscenza di se stessi e del mondo. Tuttavia è proprio a questo silenzioso sapere che l’adulto può attingere per capire il ragazzo che ha di fronte e rispondere alla sua sfida contro la generazione che l’ha preceduto, che rappresenta oggi come sempre il nodo cruciale della crescita.

Certo, nessuna adolescenza è uguale a un’altra, soprattutto oggi che il mondo cambia così in fretta: perfino chi ha 16, 18 anni nel 2001 appare molto diverso dai sedicenni e dai diciottenni di quattro o cinque anni fa. Ma al di là dei comportamenti di superficie, i conflitti più profondi restano gli stessi. E riguardano appunto la sfida che ogni generazione deve affrontare per prendere il posto della precedente. Come osservava il grande psicoanalista inglese Donald Winnicott “là dove c’è un ragazzo che lanci la sua sfida per crescere deve esserci un adulto pronto a raccoglierla: a livello più profondo è una questione di vita o di morte per lo sviluppo dell’adolescente”. Il vero rischio dei ragazzi oggi è proprio questo: l’assenza di una generazione di adulti pronti a raccogliere la sfida e a fronteggiare lo scontro, in una società per molti aspetti “adolescenziale”, in perenne fase di passaggio e di trasformazione, che tende a restringere il divario fra generazioni e a negare ogni differenza.

C./ P.: A proposito di funzione paterna e di ruolo: quale spazio rimane oggi quando il gesto o il dire del padre non è più solidale con il dire sociale, quando il padre si scolla, nel dire privato, dal dire pubblico? E come è possibile questo rimando senza cadere nell’invocazione che dal padre porta al padrone?

S. V. F.: In una “società senza padri” come l’attuale, il ruolo paterno tende a confondersi sempre di più con quelllo materno. Come si sa, le funzioni tendono sempre più a somigliarsi: spetta sia al padre che alla madre prendersi cura dei figli, rispondere ai loro bisogni, offrire loro affetto, sicurezza e protezione. Tuttavia quello di cui si avverte maggiormente la mancanza oggi non è il padre come figura maschile: l’uomo dal quale il figlio è stato generato è ben presente nella sua mente, come in quella della madre, anche quando non c’è come nei casi dei genitori separati. Quello che in molti casi viene a mancare , come osservava un famoso psicanalista francese da poco scomparso, Serge Lebovici, è il “principio paterno”, su cui si fonda la norma, la legge, l’autorità: il terzo polo nel triangolo familiare che attira a sé il figlio e lo separa dalla madre gettando un ponte verso l’esterno, fra la famiglia e la società. Manca insomma, nel mondo interiore dei figli maschi più ancora che nelle figlie femmine, un’immagine di padre che raffiguri qualcuno che “sta più in alto”: qualcuno a cui guardare e con cui confrontarsi , anche attraverso una sana conflittualità, per poter accedere al suo livello.

Diventa così più difficile oggi per gli adolescenti identificarsi in una figura paterna in gran parte spodestata dal suo ruolo, che non trasmette più ai figli una tavola delle leggi, un codice morale da fare proprio o al contrario da modificare o rifiutare. E, nello stesso tempo, diventa più difficile anche separarsi da quell’universo femminile, materno, che in questa fase storica sembra avere il sopravvento. Questo non impedisce ai figli di proiettarsi all’esterno della famiglia e di avere una vita sociale soddisfacente. Né di costruirsi una coscienza interiore, un codice morale.

C./ P.: Un codice morale che si costruisce su quali basi, secondo il vostro modo di vedere?

S. V. F.: Ma tutto questo avviene nel segno della madre, più che nel “nome del padre”. Anche la società finisce così per essere vissuta come una grande madre, dalla quale ci si aspetta tutto senza dare nulla in cambio: indulgenza, assistenza, protezione. Non solo, ma contro questa società “materna” ci si può scagliare, come fa il bambino piccolo con la mamma, quando lo delude, non risponde ai suoi bisogni, non appaga i suoi desideri. Ed è proprio nella vita sociale che il declino della figura paterna come principio di autorità e di legge interiore, dà i suoi segnali più allarmanti. La delinquenza minorile, come forma estrema di ribellione, è sempre esistita. Ma mai come oggi appare priva non solo di movente ma anche di sensi di colpa: il comportamento antisociale non avviene più nel segno della rivolta contro il padre, la sua legge e le istituzioni che lo rappresentano. Ma si perde nel magma indistinto, indifferenziato di un arcaico universo materno, in quanto non è ancora intervenuta la “legge del padre” a stabilire un nuovo ordine e un nuovo equilibrio.

C./ P.: Qualcosa di più su questa “legge del padre”? In che senso dite di un mancato intervento? O si tratta di un ritorno?

S. V. F.: Certo, è un ritorno! Ritorna l’antico bisogno di un vero padre: quella mitica figura maschile di eroe, positivo o negativo, al centro di ogni romanzo familiare del passato che, nel bene o nel male, lasciava il suo segno impresso nella memoria e nella coscienza. Poteva essere una figura ingombrante, massiccia, punitiva delle cui ferite il figlio portava per sempre le cicatrici, come scriveva Franz Kafka nella famosa Lettera al padre: “Tutto quello che mi imponevi era un comandamento divino per me. Mi hai ridotto all’obbedienza ma ne ho ricevuto un danno interiore”. Ma poteva anche essere un grande maestro di vita, che lasciava la sua tavola delle leggi ben impresse nell’anima, ed equilibrava l’influenza materna nella crescita dei figli. Come scriveva Goethe: “Di mia madre ho la natura gioiosa e il piacere di raccontare storie. Di mio padre ho la statura morale, il modo vigoroso e serio di comportarsi nella vita”. E’ questa la figura di padre di cui oggi si sente la mancanza, non certo quella autoritaria del padre padrone, della cui scomparsa dalla scena familiare nessuno prova alcuna nostalgia.

Per quanto la famiglia sia trasformata, divisa, frammentata, ristretta, ricomposta, allargata, in fondo non c’è molto da reinventare per “risanare” il ruolo più in crisi, quello paterno. Occorre piuttosto che il padre ritrovi la sua funzione di ponte verso la società e quindi di elemento separatore, fra il figlio e la madre. Occorre che riconquisti il proprio spazio sulla scena familiare, e rimanga al suo posto, con fermezza, senza contendere alla moglie il ruolo materno né al figlio il territorio ormai perduto della giovinezza. E’ questo il padre che offre al figlio un modello nei cui aspetti più positivi potrà identificarsi. Senza rinunciare a sfidarlo con la sua rivolta. E a coltivare sogni e ideali diversi dai suoi. Fino a dire, come fanno i giovani guardando al padre come simbolo del mondo adulto, che è loro compito rigenerare con uno spirito nuovo: “Io non diventerò mai come te!”. Ben sapendo di avere di fronte una controparte abbastanza forte da reggere i propri attacchi senza che la relazione venga distrutta.

C./ P.: Le patologie attuali dell’adolescenza sono patologie mute, che rimandano ad un corpo silente preso da un godimento senza parole (vedi anoressia, dipendenze). Come contrapporre il dire sull’adolescenza a questo rimando muto? Pare quasi che alle parole degli adulti si contrapponga un silenzio che si insedia nel corpo, quasi a eludere le parole che cercano di coglierli.

S. V. F.: Non c’è adolescente che sfugga ad uno stato di depressione fisiologica, insita nelle stesse trasformazioni di quest’età, all’insegna della separazione e del senso di perdita, di lutto che ne derivano. Essere adolescente significa infatti separarsi non solo dal mondo dell’infanzia e dalle figure mitiche dei genitori che lo dominavano, ma anche da se stessi, dal proprio corpo e dal proprio sé infantili. Una separazione che si accompagna, oggi come in passato, alla paura di crescere: “Ogni cosa rappresenta una minaccia per il giovane: l’amore, le idee, la perdita della famiglia, l’ingresso fra i grandi”, scriveva Paul Nizan nel suo romanzo di formazione Aden Arabia, che pur risalendo all’ultimo dopoguerra riflette ancora oggi le ansie e le paure degli adolescenti.

I conflitti che emergono nell’adolescenza continuano a essere una riedizione di quelli infantili, che ritornano a galla sull’onda dello sviluppo sessuale e della ricerca della propria identità. Ma mentre in passato erano dominati dall’Edipo e dalla relazione a tre con il padre e con la madre, oggi risalgono spesso a una fase più precoce dello sviluppo: il legame a due con la madre, alla base dello sviluppo del nucleo emozionale più profondo della personalità, il Sé. Si è passati così dalle classiche nevrosi, che hanno al centro il senso di colpa edipico e i meccanismi di difesa che ne derivano, ai disturbi della personalità di tipo narcisistico, centrati su se stessi.

C./ P.: Disturbi della personalità che comportano, quindi, una modificazione del quadro sintomatico?

S. V. F.: Ovviamente cambiano anche i sintomi con i quali gli adolescenti esprimono il loro disagio: non più disturbi di relazione, ma centrati su se stessi e sul proprio corpo. Disturbi che, a differenza di quanto avveniva nelle nevrosi classiche, rivelano spesso un’assenza di elaborazione mentale e affettiva.
In questo vuoto di significato anche il dolore, l’angoscia, l’aggressività e la rabbia, sono sentimenti vissuti a livello grezzo, come qualcosa che non si può pensare, ma si deve agire. E non evocano più oscuri sensi di colpa ma un’altrettanta oscura minaccia di disgregazione: un abisso verso il quale molti adolescenti si sentono irresistibilmente attratti, come è attratto dal vuoto chi soffre di vertigini. E invece di evitarlo, attingendo alle loro risorse più sane, rischiano di precipitarvi. Concomportamenti che hanno l’effetto di sedare momentaneamente l’angoscia, mettendola in atto in modo immediato, diretto. I nuovi scenari familiari e sociali in cui oggi crescono i ragazzi hanno in parte modificato le forme in cui si esprime il loro disagio. Che è solo apparentemente muto. In realtà, il linguaggio della parola è sostituito da quello più arcaico e nello stesso tempo più moderno, del corpo e della sua immagine. In un’epoca di saturazione sensoriale, in cui il linguaggio dell’immagine prevale su quello del pensiero e della parola, diventa più difficile per i ragazzi dare un significato psichico e affettivo a impulsi, emozioni, sentimenti attraverso l’elaborazione simbolica delle proprie esperienze. Di qui la tendenza, sempre più diffusa fra gli adolescenti oggi, a dare una dimensione fisica, corporea alla sofferenza: come se il corpo fosse diventato per le nuove generazioni lo strumento più adatto, e più a portata di mano, per dare voce al proprio malessere. E al proprio dolore. Aumentano cosi i disturbi che fanno del corpo il bersaglio privilegiato: lo si vede nelle diverse forme di dipendenza, dal cibo, negato nell’anoressia e divorato nella bulimia, all’abuso di alcool e di sostanze tossiche.

C./ P.: Si nota un singolare parallelismo tra le espressioni patologiche, quasi che alla tossicodipendenza in campo maschile faccia da contrappunto l’anoressia in campo femminile. Come pensare questo parallelismo, quale significato attribuirgli? Che posto dare alla centralità di un corpo silente?

S. V. F.: Abuso di sostanze tossiche e anoressia sono due forme speculari e contrapposte di dipendenza. E come tutte le forme di dipendenza riportano alla prima fase dello sviluppo infantile, quello orale, che ruota attorno alla figura ambivalente della madre come fonte di nutrimento e di vita da un lato e dall’altro di deprivazione e di morte. Attraverso l’oralità – agita nella tossicodipendenza con l’assunzione di sostanze tossiche o negata nell’anoressia con il rifiuto del cibo -, l’adolescente cerca di annientare l’angoscia più antica, legata alla paura dell’abbandono e alla disgregazione del sé. Se l’anoressia è un disturbo che si presenta come prevalemente femminile è perché, diversamente dalla tossicodipendenza, ha significati simbolici radicati nella sessualità femminile e nei conflitti legati all’assunzione della propria identità di donna: è forse il disturbo che più si avvicina all’isteria, una versione moderna della stessa messa in scena del dolore, attraverso un corpo sempre più ascetico e asessuato. La tossicodipendenza invece non è così strettamente connotata da caratteristiche di genere: ne sono vittima sia i ragazzi che le ragazze. Se è più diffusa fra i maschi è forse perché sono più inclini all’acting out di gruppo: la tendenza cioè ad agire i propri impulsi in un contesto almeno inizialmente condiviso da altri, in cui l’assunzione di droga rappresenta non solo il tentativo di annientare il dolore attraverso il piacere, ma anche un rito collettivo all’insegna della trasgressione e del rischio che rafforza il senso di appartenenza al gruppo.

C./ P.: l’adulto che si mette nei panni del figlio adolescente per meglio comprenderlo, rischia anche di riaprire delle vecchie ferite con le quali fare ancora i conti?

S. V. F.: Un figlio adolescente rimette inevitabilmente in causa la nostra adolescenza, riportando a galla anche situazioni, esperienze ed episodi che forse avremmo preferito dimenticare. E che ora preferiremmo non trasmettere ai nostri figli, per non dar loro il “cattivo esempio”. O per non distruggere o appannare l’immagine di genitore che abbiamo cercato di offrire loro. Tuttavia questi “segreti” creano delle zone d’ombra, dei vuoti che tendono a spezzare la comunicazione con i nostri figli in una fase in cui non è certo facile comunicare con loro. Non si tratta naturalmente di dare ai figli un resoconto dettagliato degli errori che abbiamo commesso da adolescenti, dei nostri insucessi o delle umiliazioni subite: da una bocciatura a un abbandono d’amore. Ma neanche di tacere completamente eventi che hanno avuto ripercussioni significative sulla nostra vita. E, di riflesso, anche sulla loro. l’adolescenza si trasmette di generazione in generazione anche attraverso la conoscenza degli errori commessi dal padre e dalla madre. Che i figli potranno evitare di ripetere. Oppure potranno affrontare con la consapevolezza di poterli superare, proprio come li hanno superati i loro genitori.

C./ P.: La generazione che molto si è spesa sul fronte dell’apocalisse, dell’innovazione, della ricerca di ideali e che poi molto ha dovuto agire-subire sul fronte dell’integrazione e della mediazione, può ancora dire qualcosa, portare testimonianze attendibili ai propri figli in termini di valori?

S. V. F.: l’adolescenza dei figli ci mette a confronto non solo con i vecchi conflitti che noi stessi abbiamo vissuto a quell’età. Ma anche con i sogni, le speranze, gli ideali, le passioni che allora erano al centro della nostra vita. E ai quali abbiamo in parte rinunciato. Questo ci fa sentire inevitabilmente più “vecchi”, come se i giochi fossero ormai in gran parte fatti. E spesso ci induce a calare un velo di silenzio non solo sulle zone buie, ma anche sugli splendori della nostra giovinezza, i valori per i quali ci siamo appassionatamente battuti, le idee in cui credevamo, i sogni che inseguivamo… “Che senso ha parlarne, ora?”, vien da pensare. “In fondo, è rimasto così poco”. In realtà, mai come oggi i ragazzi hanno bisogno di una passione da seguire, un ideale in cui credere. Qualcosa di nuovo, che appartiene solo a loro, e che troveranno, attingendo ai loro desideri, ai loro sogni, alle loro speranze. Ma questo “spirito nuovo” non nasce dal nulla. Ha le sue radici nella storia che le generazioni precedenti sanno trasmettere loro: anche questo fa parte del “passaggio della staffetta”.