La famiglia centro della cultura rom

La famiglia per la cultura zingara è la base della comunità, è la cellula che sola garantisce il passaggio della tradizione, l’aiuto e la protezione al singolo. Essa è allargata a più nuclei familiari ed è quindi necessario differenziare la famiglia estesa dalla famiglia coniugale. Infatti alla famiglia estesa viene attribuito un valore anche morale, comprende più famiglie coniugali in linea paterna ed esercita anche il luogo di mantenimento delle tradizioni. In essa tutti i capifamiglia hanno pari potere mentre ruolo centrale e di prestigio in genere è tenuto dal più anziano – il “purano”. Le singole famiglie coniugali costituiscono ciascuna un focolare distinto ma che non ha alcun peso ed influenza all’interno della società zingara che è una società olistica nella quale cioè la comunità, ed il legame affettivo ed emotivo verso questa, prevale sul singolo.

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Nella famiglia rom salta agli occhi in maniera evidente la differenza tra il ruolo maschile di prestigio rispetto a quello femminile decisamente servile. La donna fin da bambina, infatti, obbedisce al padre, giovinetta a suo padre e ai suoi fratelli; la donna obbedisce ed è succube del marito. Tuttavia presso tutti i gruppi, una volta madre, la sua posizione diventa più solida anche se più gravosa, infatti il suo compito è quello di mantenere i figli con la richiesta di elemosine (“manghél”) presso i non zingari anche in presenza del reddito maschile che solitamente viene impiegato per spese eccezionali finalizzate ad accrescere la stima della famiglia verso l’esterno (es. acquisto automobili, case, ori ecc..).
La società rom è una società priva di capi, fatto salva la figura centrale del più anziano di cui si parlava sopra, in essa è quindi assente un’organizzazione sociale fondata sulla suddivisione in classi; tuttavia per risolvere questioni particolarmente gravi insorgenti nella comunità è possibile riunire la “Kris” (tribunale) formata dai capifamiglia ed eccezionalmente da qualche donna che abbia dato prova di grande saggezza.
Il “Krisnitori”, un giudice scelto fra coloro che sono estranei alla vicenda oggetto della disputa, dopo aver ascoltato le persone coinvolte, emette una sentenza che è inappellabile. Spesso le vicende che vengono portate dinanzi alla “Kris” riguardano i matrimoni e le a volte dolorose vicende legate a questi. Sono i genitori a decidere, infatti, il matrimonio dei figli. La scelta della sposa è endogamica e rari sono i matrimoni tra i non zingari. Presso i sinti il costume matrimoniale è più libero e può capitare che i due fidanzati fuggano insieme per tornare dopo un certo periodo per chiedere il perdono ai genitori della sposa; se il perdono viene concesso una festa sancisce il matrimonio, diversamente si possono innescare conflitti gravi tra le famiglie.
La cerimonia nuziale tradizionale rom consiste in un grande banchetto e in una sfarzosa festa che a volte può durare più giorni e che si conclude con l’ingresso della sposa presso l’abitazione dei suoceri. La verginità è un requisito “indispensabile” per la giovane sposa rom. Tale condizione è da un lato la sola che consente alla famiglia di considerare la ragazza fino a prima del matrimonio figlia, e dall’altro tale stato rende la giovane sposa più “preziosa” per quelle famiglie presso cui il rito del matrimonio è ancora ed anche uno scambio di beni dal valore economico stabilito e riconosciuto.
La giovane sposa, infatti, viene ceduta dal padre al futuro suocero che versa una somma cospicua di denaro. La somma in denaro versata dal padre del maschio diviene per la futura sposa segno del suo legame di appartenenza e di dipendenza dal suocero verso il quale la giovane donna porterà obbedienza e gratitudine e per il suocero una “forma di investimento a lungo termine” poiché nel tempo la giovane donna dovrà restituirgli (con il gudagno dei propri furti e/o elemosine) il denaro e diventare per la famiglia del figlio di questi fonte quotidiana di sostentamento.
Il matrimonio può essere sciolto solo in caso di sterilità, adulterio e maltrattamenti gravi.
E’ da sottolineare che gli sposi costituiscono un vero nucleo solo dopo aver generato il primo figlio anche se padre e madre sono minorenni. Nella cultura rom, infatti, l’ingresso nell’età adulta è sancito solo dalla nascita, all’interno della nuova famiglia, di un figlio.
Questa fotografia che si è voluta scattare sulla famiglia nomade non ha potuto che mettere in evidenza quanto sia difficile e delicato essere dei giovani rom. A questi ragazzi, ma soprattutto alle ragazze, viene chiesto infatti di crescere in fretta passando da una totale condizione di accudimento a quella, intorno ai quindici anni, di totale autonomia nella quale diventano responsabili della crescita e della cura dei figli. Donne non considerate che, per contro, sono il perno silenzioso da cui dipende la possibilità della vita quotidiana, che vengono quindi pesantemente schiacciate in una prospettiva del qui ed ora, nella moderna logica della domanda e dell’offerta.
Ma sono queste donne, queste donne -bambine che iniziano a sentire il peso della loro condizione che pare quasi trapeli dai loro volti scavati eppure giovani, dall’insofferenza verso quei silenzi imposti a loro da altri.
Pare che questa condizione con la quale è così difficile convivere stia risvegliando in queste ragazze la rabbia e la reattività proprie di quell’età che sembra essere loro negata, di quell’adolescente che domanda e si pone domande, che sfida, che chiede ostinatamente perché, che sogna e desidera qualcosa di diverso.
Sono convinta che non sia un caso che le prime spinte al cambiamento avvengano con le giovani donne rom. Non penso che questo accada solo perché queste, più dei loro fratelli, siano succubi del volere dei padri. La loro forza di reazione sta nel loro stesso destino che le obbliga ad essere madri prima ancora di essere donne.
E’ il loro essere madri, o future madri, che le pone dolorosamente dinanzi al futuro.
La loro generatività le obbliga ad accorgersi che troppo poco è lo spazio per creare davvero; non solo mettere al mondo, quindi, quanto offrire l’occasione affinché ciascuno nella propria vita possa generare sé stesso, svelare a sé stesso sé stesso in un processo vitale nel quale generare vuol dire offrire all’altro la possibilità di scoprire ed aderire al proprio personale progetto di vita, nel quale gli altri ci sono, non per decidere per noi, ma per darci la forza di metterci al centro di questo cammino.