La famiglia in situazione di disagio

Prima di parlare di disagio e di soluzioni sia a livello familiare che nelle istituzioni è importante parlare di un evento che travolge la famiglia e coinvolge le istituzioni.

Il “disagio”, nel suo significato letterale, è mancanza di agi, di comodità oppure difficoltà e imbarazzo; in questo senso l’handicap non è certo comodo da vivere e la persona che ne è afflitta vive tutte le difficoltà e l’imbarazzo sia di integrarsi in un “mondo diverso” dalle sue possibilità, sia di essere capito ed ascoltato.

immagine relativa articolo

L’evento è un fatto, un avvenimento che si è già verificato o che può ancora verificarsi, risultato di una serie complessa di elementi
positivi o negativi : un “lieto evento” ad esempio richiama alla mente la nascita, in tutta la carica emozionale che fa parte dell’uomo e del suo bisogno di eternità e di continuità. La nascita è festa, è gioia per il bimbo e per i genitori ma per tradizione, in particolare, soprattutto per la madre, quasi a premiarla della sofferenza e di aver fatto un nuovo uomo.
Ma quando il “lieto evento”, per cause diverse, si trasforma in dramma, le visite al nuovo nato si diradano, le congratulazioni si trasformano quasi in condoglianze.
L’ “evento funesto” cambia il modo di pensare e di vivere della famiglia e forse l’inizio della soluzione del problema si situa proprio in quel momento, nella capacità cioè dei genitori di reggere alla ferita narcisistica inflitta e nella forza di fronteggiare gli inevitabili cambiamenti e difficoltà, malgrado lo stress emotivo che questo comporta.
Se però la famiglia entra in crisi, a volte in modo molto grave e senza via d’uscita, fronteggiare l’evento e trovare le prime semplici e quotidiane soluzioni al problema diventa una operazione dolorosa e difficile.
Occorre verificare in quale momento del percorso della famiglia o della coppia avviene la nascita del figlio-problema. E soprattutto, qual è il problema, la diagnosi e la prognosi?
Quali tipi di fantasie negative e positive suscitano nei genitori le parole dei medici e dei terapisti?
Speranze, rifiuto, ansia e delusioni sono sempre lì, presenti nel conflitto e nella fatica quotidiana.
La parola “soluzione” è pesante e ambigua; non si risolve l’handicap, non si risolve il dramma della famiglia che deve trovare un suo adattamento alla situazione prendendo decisioni adeguate, rivedendo i ruoli e le reciproche responsabilità.
L’handicap non può essere valutato solo a livello diagnostico, terapeutico e prognostico ma va visto e affrontato anche come problema sociale.
Diverse sono le reazioni da parte dei familiari: l’accettazione, i rifiuti, le aspettative e l’adattamento nel tempo dipendono dalla gravità dell’handicap. Le modificazioni dei comportamenti, degli interventi, delle risposte, delle aspettative secondo l’età dell’handicappato possono essere così sintetizzate:
età prescolare:
– ricerca della diagnosi
– interventi riabilitativi
– inserimenti
– speranze delusioni
età scolare:
– affermazione dei sintomi
– la scuola e le sue difficoltà
– presa di coscienza della realtà
età pre e adolescenziale:
– i problemi dell’adolescenza
– i problemi della scuola che possono trasformarsi in emarginazione
– scelte drammatiche
– la prognosi diventa realtà
– il futuro è ansia e insicurezza.
La famiglia può resistere alla diagnosi rimandando il problema e vivendo un futuro troppo semplice e irreale, oppure può accettarla passivamente, con rassegnazione e quindi limitare le aspettative e il recupero.
L’handicap diventa un “evento critico” che mette a soqquadro una organizzazione relazionale ed affettiva che coinvolge e stravolge tutti i membri della famiglia. Tutti cercano energie, risorse, richiamano il senso del dovere, soffocano i sensi di colpa, usano buona volontà, buon senso, a volte trovano un senso religioso nel sacrificio; la realtà però resta in tutta la sua drammaticità.
La famiglia può non reggere, scegliere la fuga, trovare alibi distorti e contorti, colpevolizzando altri o demandando alle istituzioni e alla società la complessità del problema.
Alcuni comportamenti, come rimandare o accettare senza intervenire, impediscono di affrontare la verità e rappresentano il rifiuto dell’handicap a livello inconscio che, a sua volta, rinforza negativamente il rapporto conflittuale.
La famiglia non è un insieme di persone, ma è un mondo tutto a sé e sempre diverso, governato da regole e principi che dipendono dal livello sociale, culturale ed economico, da tradizioni e modi di essere e di vivere dei membri che la compongono.
La famiglia è sempre in evoluzione e di anno in anno cambia, ma “l’evento del figlio diverso”, che esce dalle regole e dalle aspettative, ne turba il presente e modifica drammaticamente il futuro.
Sia la famiglia che l’istituzione dovrebbero avere ben chiaro che la soluzione del problema ha come prima finalità il benessere del soggetto, e quindi non è solo terapeutica o riabilitativa ma, prima di tutto, educativa. Educativa nei confronti del figlio da parte dei genitori, che dovranno dolorosamente capire la differenza tra falsi compensi e reale recupero, tra false richieste e giuste aspettative; la coppia dovrà imparare a dominare l’ansia del recupero nell’accettazione dei limiti e i genitori non dovranno trasformarsi in terapisti, dimenticando il loro ruolo. Educativa nei confronti dei genitori da parte dei medici e dei terapisti, che dovranno capire come l’iniziale negazione dell’handicap da parte dei primi permetta di reggere il colpo della diagnosi e la paura del futuro, anche se questa negazione in seguito dovrà essere dolorosamente modificata.
L’istituzione deve saper dare il giusto aiuto e “conforto” in questa prima fase, così delicata e fragile, e accompagnare i genitori ad accettare i sacrifici del recupero e della riabilitazione.
La famiglia deve inevitabilmente modificarsi nei ritmi, nelle abitudini ma è inecessario che sia aiutata a non distruggersi sacrificando gli affetti in nome dell’handicap.
Col tempo la famiglia si organizza e trova un suo equilibrio, a volte patologico, ma che comunque va rispettato se si associa a comportamenti più costruttivi e più inerenti alla realtà della situazione.
La famiglia, nel momento in cui riesce a superare la crisi iniziale, sta facendo grossi passi nella “soluzione” del problema, perché sta superando un lutto, la rabbia e la diversità del figlio; quando questo non avviene i sensi di colpa e di ingiustizia possono portare a gravi conflitti di coppia, a tardivi rifiuti e al mancato recupero. Un buon recupero, anche nei casi gravi, richiede l’aiuto ai genitori, come sostegno nella fase diagnostica, per dare loro la forza di rapportarsi con amore e fiducia verso un figlio poco gratificante, che impedisce di sognare la sua vita futura.
L’istituzione dovrebbe aiutare la famiglia dei bambini a rischio e ad alto rischio, non solo di danno primario da lesione ma di danno secondario, dovuto all’ambiente o a un deficitario rapporto affettivo con la madre, prima ancora di pensare ad un eventuale intervento terapeutico.
Ricordiamo infatti l’importanza che ha la qualità dell’attaccamento iniziale con la madre; e ciò, non tanto per rispondere alle esigenze di sopravvivenza, ma piuttosto come bisogno primario dell’uomo che permette, se soddisfatto in modo adeguato, il processo di separazione e di identificazione, sviluppando sicurezza e fiducia in sé stesso.
L’attaccamento è un reciproco processo carico di emozioni che richiede la partecipazione attiva della coppia madre-bambino. Si può dire che l’accettazione di un bambino con problemi comporta il superamento di un periodo più o meno lungo, della madre, del padre e della coppia, in cui vissuti antichi come sogni e fantasie devono essere elaborati e trasformati in nuovi vissuti, in nuovi modi di essere e di relazionarsi.
Anche se il bambino va riabilitato precocemente, bisogna tenere sotto controllo il desiderio della normalità che nel genitore può indurre comportamenti persecutori da accanimento terapeutico e bloccare la crescita affettiva del piccolo. La presa in carico precoce deve essere associata al sostegno della famiglia, per affrontare i primi problemi educativi ed affettivi, le paure e le ansie e per programmare obbiettivi da raggiungere nel tempo, secondo i ritmi e i limiti del bambino. L’obiettivo è quello di portare i genitori ad identificare il figlio con un individuo che ha diritto alla sua vita, alla sua intimità, ai suoi desideri, che ha diritto ad essere, prima di tutto, un bambino, poi un adolescente, di crescere malgrado i suoi limiti e poi di essere rispettato nella età adulta come uomo.
La terapia, nella sua articolazione di fisioterapia, psicomotricità, logopedia, programmi educativi e didattici, dovrebbe essere proposta in un clima emotivamente favorevole per essere accettata dai genitori, i quali devono sentirsi responsabili e collaboranti nel recupero del figlio; questo avviene però se l’istituzione accoglie i problemi dei genitori come parte dell’handicap da recuperare.
Nella quotidianità, frequentemente medici e terapisti assistono, spesso impotenti, al rifiuto dei genitori che esprimono la loro delusione dovuta ad esperienze negative o che non hanno risposto alle loro aspettative.
Chi fa parte dell’istituzione non può farsi travolgere e coinvolgere da comportamenti rifiutanti o aggressivi ma deve fare il possibile per aiutare i genitori ad affrontare il problema, evidenziando i potenziali da recuperare più che la negatività del deficit o i loro comportamenti distruttivi che aumentano le difficoltà
per una buona collaborazione.
Le terapie che vengono offerte dalle istituzioni sia pubbliche che private dovrebbero offrire garanzie per rassicurare i genitori: una vera presa in carico del soggetto, regole come la continuità della terapia e della figura del terapista, rispetto degli orari e del tempo delle sedute;
cartelle cliniche completate dall’osservazione psicomotoria del soggetto per meglio valutare la sua globalità di potenziali, deficit e difficoltà a prescindere dalla patologia; un progetto terapeutico contenente obbiettivi a breve e a lungo termine e le loro verifiche.
La presa in carico da parte dell’istituzione non significa avere il “monopolio” del soggetto: i genitori, e soprattutto quelli più freddi e rifiutanti, hanno il diritto di sapere l’evoluzione della terapia, le sue difficoltà, gli obbiettivi raggiunti e le fasi negative. L’informazione e la collaborazione con i genitori richiede non solo professionalità e preparazione ma anche rispetto dei ruoli. Non dimentichiamo che la famiglia si è modificata, che le donne sono meno preparate, non tanto al ruolo di madre, ma ad accudire un bimbo piccolo e che non sono e non saranno mai pronte all'”evento” di un figlio diverso; un buon recupero, anche nei casi più gravi, deve partire dal mettere in relazione due esseri che non riescono a conoscersi in un reciproco rapporto di amore e di fiducia.
Forse tutti dovremmo dire la preghiera degli aborigeni australiani:
“Signore concedi la serenità di accettare le cose che non possono cambiare, il coraggio di cambiare quello che si può cambiare e la saggezza di distinguere le une dalle altre.”

Relazione presentata al Convegno F.I.S.Co.P. Roma
Gennaio 1998.