La formazione e le culture delle dimensioni sociali di coppia…

 

Le tappe  del processo formativo secondo  la psico- sociologia

 

 

La corrente di pensiero psicosociale può essere considerata la capostipite della formazione nelle organizzazioni. Infatti la psicosociologia parte dall’analisi del rapporto che l’individuo instaura con il suo ambiente sociale non solo dal punto di vista dell’influenza che più o meno esercita, ma cercando di comprendere le dinaminche psichiche che sottostanno a questo rapporto.

La psicosociologia focalizza la propria attenzione sul rapporto che si determina tra l’individuo e l’altro, inteso quest’ultimo come singolo, come gruppo, come organizzazione. Quindi, la necessità di progettare e condurre un’attività di formazione ha le finalità di risultare pienamente congruente da un lato con le caratteristiche dell’organizzazione nella sua globalità e dall’altro con quelli che sono i valori documentati dall’ambiente esterno.

Inoltre la formazione deve fare i conti con l’insieme delle operazioni di cui si compone il compito o i compiti presenti nell’organizzazione e con l’individuazione dei comportamenti richiesti per l’efficace esecuzione di tali mansioni.

Le persone coinvolte nel progetto formativo dovranno in ultima analisi dimostrare caratteristiche di flessibilità e di capacità tali da soddisfare le prestazioni e i comportamenti di lavoro sostenuti, opportuni al raggiungimento degli obiettivi fissati.

Fare un’analisi dei bisogni vuol dire raccogliere dati e informazioni rispetto ai cambiamenti che la formazione dovrà attuare sempre con il coinvolgimento delle persone interessate alla loro stessa formazione. Lo scarto che la formazione deve colmare è fra i bisogni percepiti dagli individui e i bisogni percepiti e definitidall’organizzazione (fig. 1).

Possiamo inquadrare la formazione come l’uscita dal caso dell’esperienza, distinguendola da una parte dall’addestramento e dall’informazione e dall’altra dalla psicoterapia.

Nella psicosociologia dell’educazione degli adulti, noi troviamo che l’informazione viene definita come un “sapere”, l’addestramento come un “saper fare”, la formazione personale come un “essere”, la formazione alla relazione come un “saper essere”, la capacità di trasmettere come un “saper far fare”.

La formazione riguarda il soggetto a livello del sé nel sapere e nel sentirsi essere con se stesso e con gli altri.

La formazione è una richiesta di maggiore e migliore professionalità e, in questo senso, la domanda non è diversa da quella di informazione; la differenza tra formazione e informazione consiste nelle finalità ultime che coinvolgono la persona. La prima aumenta la qualità delle potenzialità umane, la seconda aumenta la quantità delle conoscenze teoriche e pratiche.

Per quanto riguarda il confronto tra la formazione e la psicoterapia, possiamo asserire che entrambe riguardano la sfera del saper essere, identica è la qualità della domanda, ma molto diversa in termini quantitativi è, invece, l’intensità del conflitto interno. L’Io di chi presenta una domanda di psicoterapia è di solito danneggiato più profondamente dal conflitto interno rispetto all’Io di chi domanda formazione.

Fuori dal campo clinico-medico, psicoterapia e formazione finiscono con l’essere stretti parenti, confinanti col grande campo dell’educazione, con la quale condividono la consapevolezza della realtà relazionale che sottende tutte le tecniche, le metodologie, le didattiche, le procedure e i dispositivi suoi propri.

Quindi la formazione si propone lo sviluppo complessivo delle potenzialità e l’aumento delle capacità psichiche con particolare riferimento alla sfera emotiva e conseguentemente al cambiamento del comportamento come apprendimento di nuovi atteggiamenti.

Possiamo senz’altro dire che la formazione oggi ha fatto passi in avanti, anche se spesso dobbiamo rilevare che una certa moda ancora prevalente nello spirito della cultura di coppia, in cui opera, l’organizzazione Tayloristica , fissa lo scopo deIla formazione nel miglioramento delle capacità individuali ovvero in un miglior “essere” dell’individuo.

Stanno, invece, prendendo piede nell’educazione degli adulti metodologie d’intervento formativo che permettono un collegamento fra l’individuo ed il sociale cioè dal concetto di “in gruppo”, a quello “di gruppo”.

D’altra parte la formazione è strettamente correlata con il cambiamento, infatti una formazione senza cambiamento provoca delusioni e frustrazioni, ed un cambiamento senza formazione diventa manipolazione.

Formare non si traduce nel dire come si fa una certa cosa, ma nello stimolare a farla, cioè non nell’imparare qualcosa, ma nell’imparare ad imparare (learning to learn).

La formazione rappresenta dunque una disciplina di frontiera i cui confini sono difficilmente delineabili in maniera netta, allo stesso tempo proprio questa sua collocazione è una fonte di ricchezza inestimabile.

Fare formazione significa, dunque, dare una forma ad un qualcosa sviluppando capacità, affinando sensibilità, correggendo comportamenti, trasmettendo e/o acquisendo elementi estetici, etici e culturali.

Tuttavia, le attività di formazione non possono avere luogo se non c’è un luogo della formazione, cioè, se non c’è quello spazio ben definito che sono le organizzazioni.

Intendiamo qui per organizzazione: un insieme di processi attraverso cui organi, apparati e strutture, si sviluppano, si differenziano e si coordinano, così da costituire un organismo.

Se teniamo conto del fatto che i partecipanti alle iniziative di formazione sono tutte figure professionali diverse, si può ulteriormente contestualizzare la formazione in un’ottica di cambiamento organizzativo.
Più precisamente la formazione per le sue finalità educative, per il corpus delle conoscenze che la compongono, costituisce un momento di grande importanza strategica.

In altri termini il tipo di formazione alla quale facciamo riferimento è rivolto allo sviluppo delle risorse umane e allo sviluppo organizzativo, centrato, quindi, sul cambiamento e sull’adattamento dell’organizzazione ai nuovi bisogni interni od esterni ad essa.

La qualità della formazione dipende dalle capacità relazionali di un insieme di tre fattori che possiamo schematizzare nella maniera seguente (fig. 2).

Il coinvolgimento della direzione in tutte le fasi dell’intervento formativo deve essere costante e convinto, in quanto il tipo di impegno della direzione ci dà indirettamente un’idea del tipo di cultura organizzativa prevalente nell’organizzazione stessa.

Il formatore, dopo aver chiarito a monte una serie di aspetti sul tipo di intervento che andrà a fare, deve mettere in atto una serie di iniziative che possano poi garantire il successo dell’intervento stesso.

I partecipanti, che sono gli utenti dell’intervento formativo, devono conoscere i motivi dell’intervento, così da evitare atteggiamenti quali il rifiuto dell’iniziativa, o il sentirsi esclusi da un qualcosa che altri hanno deciso.

Se da una parte è fondamentale, dunque, accertarsi della reale esigenza di formazione, dall’altra è necessario che i partecipanti siano motivati a partecipare alle iniziative di formazione stabilite.

Si evita in questo modo di trattare i partecipanti come “pezzi di una macchina” (metafora della macchina), oppure come parti di un “organismo” che bisogna rimettere a posto (metafora dell’organismo).

Il territorio della formazione in questi anni si è molto allargato, e non sempre a questa espansione ha corrisposto una chiarezza di intenti.

Attualmente la formazione si posiziona in una fase intermedia tra individuale e sociale, nella quale prevalgono giudizi di tipo estetico (la formazione è bella/brutta), oppure di tipo etico (la formazione è buona/cattiva).

La sfida per i prossimi anni sarà il passaggio da una formazione di questo tipo ad una di tipo culturale, dove il tipo di giudizio prevalente è di verità.

In altri termini la sfida è rappresentata dal passaggio da criteri di totalità e negazione a criteri di possibilità. La formazione, cioè, deve rappresentare una modalità differente di risolvere i problemi delle organizzazioni, una possibilità, appunto.

Per quanto riguarda l’apprendimento nella formazione occorre tenere presente tre elementi:

1) La formazione entra nell’ambito dei processi di apprendimento e come tale segue la curva del l’apprendimento (fig. 3).

Una volta superato l’apprendimento primario si entra in una fase, detta plateau, di automatizzazione e successivamente si entra nel l’apprendimento secondario.

In questa curva i tempi sono di tre tipi:

a) nell’apprendimento primario tutto sembra facilmente assimilabile;

b) nella seconda fase tutto sembra più difficile, non assimilabile (subentra la frustrazione, un individuo pensa di non arrivare mai allo scopo desiderato)

c) nella terza fase (assimilata l’automatizzazione) tutto diventa più facile.

 

2) Ogni programma di formazione deve chiarire le seguenti quattro variabili:

a) gli scopi di base della formazione, cioè aver chiaro ciò che si vuol fare,

b) gli obiettivi: avere delle scadenze;

c) i contenuti della formazione; politica aziendale, storia dei lavoro, controllo dei costi, conflitti, valutazione dei meriti, ecc.

d) i metodi e le tecniche formative; riunioni, lezioni, tavole rotonde.

 

3) I formatori: non si tratta di un ruolo puramente nozionistico-informativo, ma si toccano punti in cui tutti si trovano collocati. Per cui i formatori devono avere una preparazione sia teorica che personale su di “sé”. Cioè una preparazione sul contenuti e sui processi.

I metodi di formazione per gli adulti si dividono in:

– Metodi basati sull’apprendimento: riguardano la pedagogia del modello e della differenza imperniato sul sapere e sul saper fare.

– Metodi basati sulla presa di coscienza: riguardano i cambiamenti ai tre livelli del sapere, del saper fare, del saper essere con una inevitabile appropriazione da parte del partecipante.

Tra i metodi che si basano sulla presa di coscienza, possiamo distinguere quelli in cui i partecipanti alla formazione possono:

a) interpretare se stessi nel proprio ruolo: es. brainstorming, gruppi.

b) interpretare se stessi nel ruolo di un altro: es. casi, role – playling, psicodrammi, sociodrammi.

Entrambi questi metodi, più che alla realizzazione di un saper fare efficace, mirano all’evoluzione degli atteggiamenti dei partecipanti.

I principali atteggiamenti così individuati sono:

a) gli atteggiamenti verso se stessi;

b) gli atteggiamenti verso l’autorità;

c) gli atteggianienti verso il gruppo;

d) gli atteggianienti verso l’organizzazione.

I principi generali dei metodi basati sulla presa di coscienza sono:

a) creazione di un ambiente attivo di formazione;

b) importanza degli scambi tra i partecipanti;

c) analisi delle condotte vissute nel gruppo;

d) esistenza di un processo evolutivo. I diversi orientamenti dei metodi basati sulla presa di coscienza sono:

a) il gruppo non strutturato;

b) il gruppo semistrutturato;

c) il gruppo strutturato;

La formazione ha il compito di educare all’esclusione, cioè alla capacità di saper star fuori da un gruppo pur conservando la fiducia di potervi entrare ed inoltre di sperimentare la sicurezza, così i membri del gruppo di formazione in altre occasioni non proveranno più ansia, ma solo insicurezza (fig. 4).

In psicologia ormai non si segue più la tradizionale contraddizione tra individuo e società, ma si parla di livelli di funzionamento sociale. Cioè, non si fa più riferimento solo alla dimensione schematica della contrapposizione individuo-società, ma si riconosce il livello di conoscenza in cui si è. C’è, infatti, una tendenza a ricercare i livelli di funzionamento sociale riconoscendo situazioni in via di evoluzione che suggeriscono nuove idee e nuove tecniche d’intervento. Si possono, quindi, definire i livelli di funzionamento sociale come i modi tramite i quali gli individui si mettono in relazione con altri individui allo scopo di ottenerne vantaggi. I rapporti tra individuo ed individui possono essere di tre tipi:

1) rapporto di coppia o interpersonale, in cui l’individuo è in relazione con altri singoli individui;

2) rapporto di gruppo, in cui l’individuo è in relazione con il gruppo;

3) rapporto di collettivo, in cui l’individuo è in relazione con un ente collettivo che non esiste di per sé, ma che esiste come la somma dei gruppi che lo compongono (collettivo, quindi, inteso come gruppo di gruppi).

A loro volta questi tre tipi di rapporto sociale sono la matrice da cui si sviluppano altrettante culture dello stare insieme:

1) cultura di coppia;

2) cultura di gruppo;

3) cultura di collettivo.

Si può quindi apprendere una cultura di coppia, una cultura di gruppo, una cultura dell’organizzazione e del collettivo.

La cultura di coppia comporta il servirsi di riferimenti morali e culturali che vedono: i conflitti tra uomo e uomo da eliminare in quanto patologici; l’organizzazione intesa come parcellizzazione; l’esistenza del detto “o con me o contro di me”; un solo modo per conoscere, il cambiamento come irreparabile danno della stabilità, avere le proprie idee essere tutto d’un pezzo, l’oggettivo come qualcosa di buono, il soggettivo come qualcosa di cattivo, di pericoloso, di magico ed ascientifico; il provvisorio come qualcosa da combattere; l’obbedienza, la dipendenza, la quantità di potere, il tempo presente, la fedeltà come valori.

La cultura di gruppo vede una leadership differenziata secondo le risorse di ciascuno, i conflitti accettabili come risorse, tentandone una condivisione; il potere umano come qualcosa di buono, conoscibile, cambiabile e capace di provocare cambiamenti secondo il detto “per me e non contro di te”; polidimensionalità del tempo con prevalenza del futuro; l’emozione come sintomo e metodo di cambiamento; l’oggettivo ed il soggettivo come qualità umane da usare e far coesistere; il dissenso, la coesione di gruppo, il consumo ed il cambiamento come valori.

La cultura del collettivo o dell’organizzazione vede la leadership usata a seconda delle esigenze dell’organizzazione; i conflitti intesi come emozioni collettive che aumentano o diminuiscono la coesione dei gruppi; le coalizioni tra gruppi come valore, il potere in funzione degli scopi ed usato per aumentare l’efficienza del collettivo; il cambiamento raggiunto
attraverso continue mediazioni; l’organizzazione in funzione dei suoi scopi, dove l’efficienza dipende dal risultato massimo con il costo minimo; un buon equilibrio fra accumulo e consumo, fra produzione e benessere, come valore e scopo dell’organizzazione. Il passaggio dalla cultura di coppia a quella di gruppo è definito “INTERFACIE A”, mentre iI passaggio dalla cultura di gruppo a quella dell’organizzazione è definito “INTERFACIE B” (fig. 5).

A tale proposito il compito della formazione è di permettere un passaggio da una cultura all’altra attraverso l’apprendimento dell’Interfacie A e dell’Interfacie B determinando quindi un cambiamento reale della persona.

L’Interfacie A provoca, negli individui che la vivono, fenomeni molto caratteristici in quanto corrisponde al passaggio dai comportamenti individualistici a quelli sociali. Quindi, quando da una cultura di coppia si vuole entrare in una cultura di gruppo si passa attraverso tre ordini di fenomeni. Essi sono le difese di gruppo, gli episodi di gruppo ed i fenomeni di gruppo che caratterizzano appunto l’Interfacie A.

Il primo tipo di fenomenologia che si incontra, o fase delle difese, è essenzialmente dovuta all’angoscia determinata dal gruppo. Le difese maggiormente usate sono:

– l’appaiamento, che si configura come dialogo costante tra due individui del gruppo;

– la fuga, che può essere nel passato, in avanti, nell’amore, nella virtù;

– lo spostamento nel conflitto, ossia l’allontanamento del conflitto stesso lontano da una eventuale incidenza sulla realtà;

– la formazione dei sottogruppi, ossia la formazione di gruppi nel gruppo.

Il secondo tipo di fenomenologia, che rappresenta la parte centrale dell’Interfacie A, è rappresentato dagli episodi di gruppo. Questi sono costituiti da momenti di stasi, come, ad esempio, la capacità di saper o non sapere gestire il silenzio. Di solito il grado di accettazione dei silenzio è proporzionale al grado di socializzazione esistente in un gruppo. Vale a dire che quanto più un individuo si sente in gruppo, tanto più sopporta il silenzio.

Altri episodi di gruppo sono:

– le condensazioni, ossia improvvisi sbocchi di problemi personali ed affettivi. La solidarietà verso queste confidenze agevola il sentimento di gruppo ed il passaggio attraverso l’Interfacie A;

– la risonanza, ossia il modo in cui un individuo segue la lunghezza d’onda dei problemi di un altro individuo;

– il transfert, ossia il trasferimento nel gruppo di precedenti esperienze personali relative a persone o a situazioni significative del proprio passato;

– la leadership, la richiesta di un capo fisso senza circolarità.

II terzo tipo di fenomenologia, nel quale ci si imbatte, infine è dato dal fenomeni di gruppo, per i quali si può fare riferimento:

– alla socializzazione del linguaggio, che consiste nell’uso spontaneo del “noi” da parte dei membri del gruppo;

– alla catena di associazioni, che consiste nel trasferire in sede di gruppo libere associazioni che vengono riprese da più persone;

– al capro espiatorio, che consiste nella fissazione del l’aggressività sul soggetto più idoneo a riceverla,

– alla sala degli specchi, che consiste nel rispecchiarsi di ciascun individuo appartenente ad un gruppo negli altri suoi membri che gli servono allo stesso tempo da controllo e da schema di riferimento;

– alla leadership non fissa ma circolante, che consiste nel riconoscimento da parte del gruppo di avere al suo interno almeno tre tipi di leadership distribuite tra gerarchia, competenza tecnico-funzionale e capacità socio-affettiva;

– all’accettazione delle differenze, che consiste nel riconoscimento delle devianze e nel raggiungimento del pluralismo.

Alla luce di quanto fin esposto, si può dire che nella cultura di coppia l’oggetto d’amore è l’altro individuo, mentre nella cultura di gruppo l’oggetto d’amore è il gruppo stesso. Quando il passaggio dall’una cultura all’altra non avviene è perché le difese di gruppo sono così forti da non consentirlo. In concreto significa che si è di fronte ad un insieme di persone che non sfruttano le potenzialità che la dimensione gruppale potrebbe dare loro.

Come abbiamo detto la volontà di passare da una cultura di gruppo ad una di collettivo viene definita Interfacie B o collettivizzazione. L’Interfacie B è caratterizzata da:

1) difese di collettivo;

2) episodi di collettivo;

3) fenomeni di collettivo.

Le difese in questo caso sono determinate dal fenomeni della cultura di gruppo che hanno determinato una appartenenza ormai rassicurante. Andare ad esplorare la dimensione collettiva provoca sentimenti minaccianti che si riconoscono negli alibi strutturalisti: il sistema è fatto così e non è cambiabile; negli alibi intimistici: l’uomo è fatto così e quindi imperfetto. La coesione rappresenta una difesa dell’ansia di spezzettamento data dal gruppo e quindi, a maggior valore viene assunta come difesa dalla minaccia di una dimensione plurale ancor più vasta quale è quella del collettivo. L’illusione gruppale tende a negare differenze e conflitti all’interno del gruppo e ad esportare all’esterno, cioè sul collettivo, tali differenze e tali conflitti.

Perché si possa passare ai fenomeni di collettivo avviene che c’è una situazione temporale, caratterizzata da episodi di collettivo, in cui si sviluppano la dinamica dei conflitti e delle coalizioni. Questa dinamica è già di per sé momento di sviluppo in quanto prepara il terreno a sentinienti di gradevolezza e di utilità propri dell’appartenenza alla dimensione organizzativa.

I fenomeni della cultura dei collettivo, e quindi il conseguente comportamento collettivo, si riconosce nella capacità di avere sentimenti di appartenenza variabili e non fissi nel tempo, la presenza della leadership di gruppo sugli altri gruppi che compongono l’organizzazione, le coalizioni fra gruppi variabili nel tempo.

Quindi riassumendo due momenti importanti della formazione sono la socializzazione e la collettivizzazione.

La socializzazione, vista come passaggio da una cultura di coppia ad una cultura di gruppo, avviene allorché gli individui decidono di abbandonare la sicurezza offerta loro dal rapporto diadico e di affrontare il rischio del confronto con la pluralità del reale.

La collettivizzazione, vista come passaggio da una cultura di gruppo ad una cultura di collettivo, avviene quando gli individui decidono di abbandonare resistenze legate alla coesione di gruppo e all’illusione gruppale.

 

*Psicologo,

psicoterapeuta esperto

di formazione e di sviluppo

delle risorse umane

– Specialista in relazioni

industriali e del lavoro –

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