La mediazione familiare nel contesto legale (2a Parte)
(Seconda parte) Un buon mediatore familiare si adopera per mantenere adulti e responsabili i genitori in ogni fase della mediazione, capaci di prevedere le possibili conseguenze delle proprie azioni ma anche, di percepire la pertinenza di principi morali, sociali o legali a quelle date conseguenze, a prescindere dalla decisione che si prenderà di conformarsi ad essi o meno.
Il mediatore familiare dovrà dunque richiedere a se stesso e ai genitori con cui lavora la massima autonomia e indipendenza perché gli accordi presi in mediazione familiare in una materia tanto delicata come un progetto di ridefinizione delle relazioni familiari postseparazione non può che essere il frutto di una libera e consapevole scelta, senza vinti né vincitori, senza sopraffazioni né umiliazioni.
E’ perciò importante la formazione del mediatore familiare, che dovrebbe essere consapevole della propria vulnerabilità
emotiva, per riconoscere, accettare e affrontare eventuali difficoltà psicologiche personali in una materia tanto coinvolgente come una crisi familiare. La conoscenza degli agenti stressogeni presenti nel lavoro di mediazione familiare e la capacità di identificare le conseguenze dello stress, fornisce al mediatore familiare gli strumenti per scoprire e controllare atteggiamenti personali e sociali non adattivi. La percezione dello stress subìto amplifica il grado di consapevolezza acquisibile intorno al modo di essere nel lavoro. Porre attenzione ai risvolti psicologici dell’agire proprio e altrui diviene un’occasione di riflessione e confronto con se stessi.
Dialogo immaginario con il legislatore
Nelle recenti proposte di legge in materia di separazione e divorzio l’obiettivo ovviamente condivisibile di tutela di minori vittime dell’alta conflittualità tra genitori in separazione, viene perseguito in maniera sostanzialmente coercitiva, intrusiva e autoritaria. Senza che si mettano in atto parallelamente efficaci azioni positive in termini di politiche sociali e culturali per le famiglie, finalizzate a sensibilizzare e costruire dal basso una consapevolezza tra i cittadini, la cultura della cogenitorialità e della responsabilità nei confronti dei figli, ogni atto legislativo che intimi di seguire la via della condivisione ai genitori in conflitto rischia di generare ulteriori contrasti a danno dei figli e degli stessi genitori.
La via prefigurata da gran parte delle proposte di legge comporta il rischio della burocratizzazione delle relazioni affettive, della ulteriore deresponsabilizzazione, infantilizzazione, passivizzazione e patologizzazione degli adulti, messi sotto la tutela di una pletora di giudici, avvocati, assistenti sociali, psicologi, pedagogisti e sedicenti mediatori, da cui i genitori dovrebbero passare e ripassare per confezionare il loro affidamento congiunto obbligatorio. Esattamente il contrario di quello che serve a un bambino: poter contare su genitori autonomi e responsabili. Esattamente il contrario di quanto una buona mediazione dovrebbe cercare di ottenere.
Chiunque abbia un minimo di esperienza di mediazione familiare sa che il problema non sono tanto gli accordi o i provvedimenti, ma l’effettiva esecuzione e la durata nel tempo delle misure prese e prescritte. Per questo occorrerebbe consenso e un margine di intesa reale e autentica tra le parti. Un affidamento congiunto imposto e subìto, si traduce in uno stillicidio quotidiano di microconflittualità, nella paralisi decisionale o nel trionfo della legge del più forte tra i genitori.
L’invio d’ufficio della coppia genitoriale in conflitto a servizi variamente denominati al fine di costruire l’affidamento congiunto è il passaggio più ambiguo e gravido di pericolosi equivoci. Gli esiti più realistici di una istituzionalizzazione del passaggio dei genitori in separazione presso i vari servizi psicosocio-pedagogici prefigurati, non possono che essere accordi assunti formalmente ma non maturati e, dunque, destinati a non essere rispettati, oppure provvedimenti scaturiti di fatto dalle indicazioni contenute nelle relazioni degli operatori.
Quest’ultima eventualità implica un grave rischio: il processo decisionale si sposterebbe massicciamente in seno ai servizi, dove il conflitto sarebbe di fatto trattato senza quelle garanzie che sono, o dovrebbero, essere assicurate a tutti i cittadini dal sistema legale. Continuo a pensare che il processo decisionale dovrebbe vedere protagonisti, dunque responsabili, i due genitori che, se opportuno, dovrebbero essere aiutati a dialogare da un mediatore competente il cui intervento integra e facilita il compito degli avvocati e dei magistrati. Il mediatore assicura ai due genitori uno spazio di dialogo, la sua competenza nel facilitare il dialogo stesso, si astiene dall’entrare nel merito dei temi in discussione, mantiene un’assoluta riservatezza nei confronti di chiunque su quanto avviene in mediazione, ma è interesse dei genitori stessi che quanto da loro liberamente deciso in mediazione non sia privato delle garanzie che solo il sistema legale, attraverso i loro avvocati e il magistrato, può assicurare.
Quando il sistema legale, in questa materia, cede il passo ai servizi, il conflitto – non solo quello genitoriale e affettivo date le strette connessioni tra affidamento, assegno di mantenimento, assegnazione della casa coniugale, ecc. – viene restituito ricomposto o valutato all’autorità giudiziaria. Così i cittadini, sempre più invasi e controllati nelle proprie scelte di vita dallo Stato nelle sue diverse articolazioni, non potranno più contare sulla piena assunzione di responsabilità decisionale personale né su quella del giudice che, in una società ancora gravemene iniqua come la nostra, ha ancora molti torti da raddrizzare. In cambio, si fa per dire, quegli stessi cittadini dovranno consegnare le loro vicende più intime a operatori sulla cui preparazione e formazione specifica a un compito tanto delicato, nulla si dice nei progetti di legge, che, comunque vada, alla fine dovranno riferime al giudice.
Com’è noto, alcuni dei progetti di legge sono ispirati e sostenuti dalle associazioni di padri separati. Ad alcune di queste associazioni va riconosciuto il merito di aver fatto di tutto per recuperare valore e legittimazione al ruolo paterno e aver contrastato efficacemente alcuni pregiudizi anti-paterni correnti nelle aule giudiziarie. Chi vi parla ha fatto del suo meglio per sostenere i padri in questa giusta battaglia. Va però detto che si corre il rischio, non voluto dalle migliori di queste associazioni, di introdurre un punto di vista troppo maschile, nel senso deteriore del termine, con conseguenze deleterie per gli interessi dei figli e degli stessi genitori.
A proposito di “interesse dei bambini”, un/a bambino/a non ha proprio nulla da guadagnare dall’imposizione di meccanismi che, appellandosi al suo astratto ed esclusivo interesse, pongano i suoi genitori sotto tutela per il solo fatto di essere in conflitto tra loro, e altro non sono che forme di punizione, coercizione, deresponsabilizzazione, intrusione, espropriazione. Quando la rappresentanza degli interessi del/la bambino/a è sottratta a sua madre e a suo padre insieme, e assunta così massicciamente dalle istituzioni, rischia di perdere ciò che più conta: l’autonomia e l’autorevolezza dei suoi genitori.
Le regole deIla cura
Ricordo qui tre momenti fondamentali indicati da D.Winnicott come base dello sviluppo infantile che qualunque “collettività”, attraverso i suoi educatori, in famiglia e a scuola, dovrebbe considerare insostituibili per garantire lo sviluppo equilibrato del/la bambino/a: holding (accoglimento, accettazione), handling (cura, accudimento), object presenting (introduzione al mondo, promozione delle capacità).
Questi momenti sono l’uno propedeutico all’altro e interdipendenti, nel senso che, ad esempio, non si ha buona cura senza accoglimento e non si promuovono efficacemente le capacità del bambino se questi non è accettato, accolto e curato. Quando queste fasi (abbondantemente sovrapposte le une alle altre) e che nel loro insieme potrebbero dare un contenuto all’abusata parola “amore”, non sono rispettate non si ha educazione ma, nel peggiore dei casi, la negazione dell’educazione: la sinecura, il disinteresse, l’abbandono. E, aggiungo, non si ha alcuna relazione di aiuto.
Due domande
L’attuale istituto dell’affidamento – effettivamente inadeguato, almeno nella sua applicazione – riposa sul concetto di potestà parentale e di esercizio esclusivo o congiunto della stessa: perché non spostare l’attenzione dall’idea di potes-tà-potere-possesso al concetto di comune responsabilità genitoriate, meglio definita nei diritti e nei doveri che comporta?
E’ possibile introdurre nella procedura dei dispositivi che incentivino e premino la ricerca e il rispetto da parte dei genitori di accordi equilibrati e condivisi, rinunciando all’automatismo e alla coattività, attivando nel contempo, a livello di politiche sociali e culturali, interventi a sostegno della genitorialità e della responsabilità di cura?
Terza domanda su Re Salomone e l’udienza presidenziale
Non è il caso che tutti noi, magistrati, avvocati, cittadini, riflettiamo sulle opportunità che potrebbe offrire un’udienza presidenziale ben condotta? Io credo che un giudice autorevole ed esperto potrebbe riempire di contenuti e prospettive pacifiche e costruttive il rito della comparizione presidenziale. Un tale giudice è ancora ascoltato con attenzione e rispetto e potrebbe prospettare ai genitori e ai loro avvocati i vantaggi derivanti dal far pervenire sul suo tavolo, prima che si avvii il procedimento davanti al giudice istruttore, una proposta di regolamentazione delle relazioni post-separazione elaborata in comune da padre e madre. Questo, ovviamente, è ben altra cosa rispetto al rituale invito alla, conciliazione, punta alla responsabilizzazione dei genitori e avrebbe come ulteriore effetto un alleggerimento del carico emotivo che grava su magistrati e avvocati quando si decide in maniera superficiale e affrettata del destino di figli e genitori.
Nel noto passo dell’Antico Testamento (1 Re, Cap. 3, 16-27), Salomone ha reso giustizia
con il paradosso, minacciando di adottare una soluzione assurda. Vorrei che il giudice dell’udienza presidenziale evitasse di essere “salomonico”, minacciando di dividere esattamente a metà, lavandosi le mani delle ragioni dei contendenti. L’assurdità di una soluzione flfty-fifty o, comunque di un ingiusto compromesso, è tale che solo chi è accecato dal proprio interesse, dall’ira, dal rancore, dalla vendetta, può accettarla. Salomone lo sa e aspetta.
La sua è una giustizia che viene resa in presenza di tutte le parti coinvolte, neonato compreso. E’ un fatto che del leggendario giudizio di Salomone si conoscono decine di versioni diverse nel contenuto e nell’ambientazione. Alcune versioni sono certamente anteriori all’Antico Testamento. Da millenni, dunque, si favoleggia di un uomo giusto che muove le coscienze, esibendo al tempo stesso la propria potenza decisionale e la propria impotenza a comprendere come le cose stanno realmente.
La Giustizia è tradizionalmente rappresentata con la spada nella mano destra e la bilancia nella sinistra. Almeno quando è in questione il destino della famiglia e dei figli, sarebbe bene che la mano destra della Giustizia restasse a riposo. Ricordava Franco Fornari che “prendere una decisione” significa sempre “de-caedere”, tagliare, scegliere una cosa e non un’altra. Quest’ultima è in qualche modo perduta e dunque ogni scelta comporta anche una perdita, un lutto. Per di più la scelta diventa particolarmente luttuosa quando è impossibile prevedere cosa avverrà in base alla decisione presa. L’incertezza sull’esito delle proprie decisioni provoca angoscia.
In tema di separazione e divorzio, le previsioni circa le conseguenze di una decisione e quindi la funzione di ridurre l’ansia decisionale, sono spesso un compito che il giudice attribuisce al perito, al consulente, al giudice onorario del Tribunale per i Minorenni o al componente privato del Tribunale ordinario. Spesso questi specialisti non si sottraggono al gravoso onere di fungere da aruspici, mentre meglio farebbero se aiutassero il magistrato a comprendere i fatti oggetto del giudizio, a usare la bilancia e non la spada. Anch’essi tentano di sfuggire all’ansia decisionale ricorrendo alla rassicurazione dei propri riferimenti teorici preferiti, all’oggettività dei test o al conformismo di ciò che è pacifico, assodato, come quando forniscono una veste scientifica ai più vieti stereotipi e pregiudizi della comune opinione in materia di relazioni familiari e di interesse del bambino.
La mediazione familiare, Araba Fenice del legislatore
Sul punto specifico della mediazione familiare, le attuali proposte di legge sono quanto mai generiche e superficiali. Mi chiedo quale sia la ragione per cui, in sede di redazione dei progetti, non siano stati consultati quei singoli e quelle associazioni che hanno maggiore esperienza in materia.
1) Manca una definizione.
Eccone una: la mediazione familiare è un percorso per la riorganizzazione delle relazioni familiari, in vista o in seguito alla separazione o al divorzio. In un contesto strutturato, il mediatore, come terzo neutrale e con una formazione specifica, sollecitato dalle parti, nella garanzia del segreto professionale e in autonomia dall’ambito giudiziario, si adopera affinché padre e madre elaborino in prima persona un programma di separazione soddisfacente per sé e per i figli, in cui possano esercitare la comune responsabilità genitoriale.
2) La mediazione familiare è introdotta in chiave autoritaria a supporto dell’intervento giudiziario e non delle risorse genitoriali.
Molto importante è invece che la proposta della mediazione sia l’articolazione di una più ampia offerta di sostegno alle risorse e alle competenze genitoriali, che si situi, cioè, all’interno di un intervento più complessivo di sostegno alla vita quotidiana, alla normalità dell’esperienza della crisi come eventualità fisiologica del vivere. La mediazione dovrebbe, dunque, essere iscritta e contribuire a fondarla, nella cultura e nell’etica della responsabilità e della scelta.
3) La funzione assegnata dalle proposte di legge alla mediazione familiare è sostanzialmente la medesima già oggi svolta dai servizi psicosociali territoriali o dai Consulenti di ufficio dei Tribunali.
La mediazione familiare, da intendersi non già come strumento ancillare al sistema legale, ma posta all’interno delle politiche sociali per le famiglie, in tanto sarà uno strumento utile e innovativo in quanto la si ponga fuori da una logica istituzionale datata e rigida, che considera il cittadino utente di prestazioni e bisognoso di interventi specialistici, per lo più riparatori, o di controllo sociale più o meno dissimulato. La mediazione familiare nel servizio pubblico deve offrire ai cittadini che attraversano la crisi separativa un tempo, un luogo e un interlocutore qualificato che promuovano la loro attivazione responsabile nel processo decisionale che li impegna a favore dei figli.
4) I progetti di legge, prefigurando come obbligatorio il passaggio al servizio di mediazione familiare e come obbligatoria la relazione al magistrato da parte del mediatore, addirittura indicando sanzioni per chi vi si sottraesse, di fatto trasformano la mediazione familiare, nata come strumento di autoresponsabilizzazione genitoriale, in un dispositivo di controllo e di compressione dei diritti, compreso quello di difesa.
Ogni forma di automatismo e prescrizione coatta della mediazione vanificherebbe il potenziale di azione preventiva sul disagio infantile prodotto dal conflitto genitoriale, in quanto neutralizzerebbe in partenza il messaggio forte che l’offerta e l’esperienza della mediazione propone ai genitori in conflitto: la piena assunzione di responsabilità, il rigetto di ogni delega o rappresentanza istituzionale nel processo decisionale a favore dei figli, la scelta e la concreta praticabilità di un sodalizio genitoriale a fronte dello scioglimento della coppia coniugale. L’invio alla mediazione familiare da parte del magistrato deve essere subordinato all’accordo delle parti e non prefigurare in alcun modo l’obbligo per il mediatore di riferire al magistrato, affinché uno strumento di pace come la mediazione non si trasformi in strumento bellico, al di là delle intenzioni del magistrato stesso.
5) La subordinazione dell’approccio relazionale e della comunicazione, tipico della mediazione familiare, al quadro giudiziario, implicito nelle proposte di legge, comporta il rischio di un paradosso: da una parte il contesto, solo apparentemente extragiudiziario, in cui dovrebbe svolgersi il tentativo di mediazione familiare, impedirebbe la messa in campo di un’effettiva e autentica collaborazione tra genitori; dall’altra, il trattamento del conflitto si sposterebbe fuori dalle garanzie del contraddittorio che il processo assicura.
Porre il centro di gravità della proposta di mediazione familiare nelle politiche sociali e, concretamente, nei servizi pubblici rivolti alle famiglie, significa individuare nella turbolenta traformazione delle relazioni economiche e affettive il nodo centrale della crisi separativa e nella prevenzione del disagio infantile il fine di un intervento sociale in questa materia. Il punto di vista e l’intervento del sistema legale non è affatto sottovalutato. Anzi la chiarificazione dei differenti ambiti e delle differenti competenze operata attraverso la collocazione della mediazione familiare in area psico-sociale prefigura una prospettiva maggiormente garantista per gli utenti. Al bisogno sociale di trovare sostegno, come genitori, alla crisi affettiva, personale e familiare, si offre una risposta sociale, specificatamente finalizzata al ripensamento e alla riorganizzazione del rapporto genitori-figli.
Resta intatta e maggiormente visibile la finzione di garanzia che in questa materia spetta al sistema legale, ai giudici e agli avvocati che in questo sistema operano.
L’ipotesi di far confluire nella figura del mediatore, proveniente indifferentemente dall’area psico-sociale o dall’area giuridica, il compito di presiedere all’elaborazione di tutte le decisioni connesse alla separazione, dalle questioni affettive a quelle patrimoniali, contiene un grave rischio di prevaricazione dei bisogni e dei diritti di adulti e bambini.
Non ho preclusioni di principio sul fatto che gli avvocati possano diventare buoni mediatori familiari mettendo al servizio della mediazione familiare la loro sensibilità, la loro esperienza di lavoro a contatto con il conflitto e le loro abilità di comunicatori sempre che, nel momento in cui decidono di diventare mediatori familiari, accettino di colmare una lacuna che sanno bene essere presente negli studi di giurisprudenza, corso di studi gravemente carente di discipline psicologiche.
Rifarsi ad esperienze straniere per sostenere che l’avvocato può ben fare il mediatore familiare, fa parte, mi spiace dirlo, di quel pregiudizio, corrente tra alcuni nuovi fan della mediazione familiare, che considera il nostro Paese un fanalino di coda del movimento internazionale di promozione della mediazione, considerazione che poteva essere fondata qualche anno fa, ma che oggi va modificata sulla base di esperienze italiane, serie e originali, nel campo della mediazione familiare, di quella comunitaria,
di quella penale. Ritengo che la richiesta di alcuni avvocati di essere formati alla mediazione familiare vada presa in seria considerazione e studiata insieme, con attenzione, tenendo presente la specificità dell’iter formativo dell’avvocato italiano e individuando le necessarie integrazioni di quell’iter da introdurre negli eventuali corsi destinati agli avvocati.
Per il momento, alcune tra le più collaudate esperienze italiane insegnano che appare più proficuo stabilire rapporti di collaborazione e sinergia tra le diverse istanze (servizio di mediazione familiare, avvocati, magistrati, servizi territoriali) all’insegna del rispetto delle reciproche autonomie e specificità.
6) Coerentemente con la vaghezza sulla mediazione familiare, nelle proposte di legge nulla si dice sulla formazione e sulla deontologia del mediatore familiare.
La mediazione familiare in materia di separazione e divorzio è di routine negli Stati Uniti e in Canada, in forte espansione in Europa. Anche in Italia si assiste al proliferare di iniziative in questo campo. Ma, a parte alcune esperienze collaudate e consolidate, frutto di faticoso lavoro e continua riflessione sulla pratica, vedo il rischio concreto che la mediazione familiare si diffonda nel nostro Paese in modo improvvisato attraverso la riconversione disinvolta di competenze diverse – consulenza, psicoterapia, consulenza legale, ecc. – e non sostenuto da regole precise sulla formazione degli operatori, sulla loro deontologia, sulla correttezza metodologica e dei rapporti istituzionali, a tutela degli utenti.
I rappresentanti delle principali esperienze europee di mediazione familiare si sono riuniti negli anni scorsi in una commissione di studio che, nel 1992, ha prodotto la Charte européenne de la formation des médiateurs familiaux exer’ant dans les situations de divorce et separation. E’ un documento che fissa i criteri principali del profilo professionale, della formazione e della deontologia del mediatore familiare in campo europeo e che costituisce la piattaforma comune per la prassi e per le azioni nei confronti dei governi nazionali che puntano a normare la materia.
Un eventuale progetto di legge che introduca la mediazione familiare in Italia deve implicare o rinviare a un atto legislativo che, preliminarmente e prioritariamente all’avvio dell’intervento stesso, definisca con rigore il profilo professionale, la deontologia del mediatore familiare, nonché i criteri – durata, contenuti, modalità – della formazione. Occorre istituire una commissione nazionale che possa avvalersi di esperti riconosciuti di mediazione familiare e che individui e accrediti le scuole di formazione che rispondono ai requisiti previsti. Anche le norme transitorie dovrebbero essere agganciate alla verificabilità e correttezza della pratica e della formazione. Una buona scuola di mediazione familiare è solo quella che abilita all’esercizio della mediazione chi possa dimostrare una casistica consistente e correttamente gestita. Dovunque nel mondo vi sia una pratica consolidata di mediazione familiare, l’accreditamento del mediatore familiare passa preliminarmente e prioritariamente attraverso gli istituti di formazione. Pensando alla realtà italiana dove, accanto a esperienze operative serie e scrupolose, stanno nascendo come funghi operazioni spericolate e spregiudicate di riciclamento, temo che un intervento legislativo indeguato possa finire per avallare una pratica selvaggia della mediazione familiare, con danni enormi ai bambini, ai genitori e alla collettività.
Ovvero, come riuscire a trasformare in uno strumento di pace.
Seconda parte dell’intervento al Convegno “Famiglia in crisi: quali interventi?” A.I.A.R. (Assoc. Ital. Avvocati per la Famiglia e per i Minori) Milano, Palazzo di Giustizia, 13-14 giugno 1997.