La mediazione penale

Da circa sei mesi è funzionante presso i locali del Sead ( il servizio del Comune di Milano che si occupa di adolescenti in difficoltà) l ‘Ufficio per la Mediazione Penale per Minori. I dodici mediatori che costituiscono il personale dell’ ufficio sono operatori di vari servizi minorili o esperti che a vario titolo da anni si occupano di una nuova modalità di gestione dei conflitti. Il responsabile è Adolfo Ceretti, docente di criminologia noto per la modernità e la tensione del suo impegno sia teorico che operativo come giudice onorario presso il Tribunale Minorile di Milano.

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L’ufficio sta conducendo una sperimentazione che sarà triennale e offrirà un quadro delle potenzialita di questo nuovo strumento nel settore penale.
Preceduta da esperienze in ambito familiare e civile, la mediazione penale, da decenni praticata in Canada, in Austria, Germania, Francia e Inghilterra è stata curiosamente introdotta in Italia sotto lo stimolo di alcuni Tribunali per minori – Torino innanzitutto, poi Bari, Milano Trento.
Ma cosa sta avvenendo in pratica nelle stanze dell’Ufficio di Mediazione?
Alcune persone segnalate dalla Procura, ma anche dai giudici per le indagini preliminari o del dibattimento, usufruendo delle possibilità che il DPR 448 offre con gli artt. 9, 27 e 28, vengono invitate a parlare prima singolarmente con due mediatori. In un secondo tempo tra loro e i mediatori stessi in un incontro al quale si presentano reciprocamente come rei e vittime di un reato, ma dal quale altrettanto spesso escono con una visione dell’accaduto assolutamente nuova. I due attori del conflitto a volte si conoscevano da tempo prima che la loro relazione divenisse inaccettabile e forse violenta, altre volte l’unica occasione di incontro è data appunto dal fatto reato. In entrambi i casi i mediatori li invitano ad esprimersi circa l’accaduto, fissando delle semplici regole che permettono ad entrambi di “avere la parola”. I mediatori garantiscono il rispetto di questo spazio ma senza smorzare i toni, senza annacquare le emozioni che devono invece venire fuori in tutta la loro intensità. A poco a poco il flusso comunicativo che tende inizialmente a instaurarsi tra mediatore e mediato viene stimolato dal primo a incanalarsi in direzione dei mediati tra loro. Notando alcune somiglianze nelle motivazioni dei due o nella loro sofferenza, sondando aspetti quotidiani della loro vita , si riesce a poco a poco a far emergere la persona, nella sua complessità e ricchezza, lasciando via via in ombra la maschera, ad una sola dimensione, del “nemico”.
Riconosciuto l’altro, viene quasi spontanea l’idea di una riparazione, che può essere un gesto, una parola, così come qualcosa di più concreto e quantificabile con una fantasia e generosità nelle proposte che aggiungono conoscenza alla conoscenza.
Altrettanto spontanea arriva la comprensione e il superamento dall’altra parte.
I casi trattati finora dall’Ufficio non sono moltissimi, circa trenta, segnalati per reati non molto gravi, ma in situazioni di conflitto molto diversificate a volte tra minori, a volte tra un adulto e un minore, a volte tra gruppi contrapposti numericamente anche consistenti.
Alcune prudenti generalizzazioni possono essere fatte. Intanto gli adulti hanno spessissimo un ruolo determinante, gli stessi conflitti sembrano a volte utilizzare il minore per esprimersi, ma avere negli adulti la loro origine e purtroppo ancora in loro la maggior difficoltà a risolversi. Di fronte all’elasticità dei ragazzi l’intolleranza degli adulti è spesso lì a sbarrare la strada di un’evoluzione positiva del conflitto, lo stereotipo del giovane ” testa calda ” crolla miseramente lasciando il posto ad un’immagine di elasticità e maturità. Si direbbe che i giovani discutano molto tra loro sui canoni di un comportamento corretto o scorretto e sono più pronti a riconoscere le ragioni degli altri. Riconoscono inoltre più facilmente i loro desideri di vendetta e se li mettono in atto non li camuffano, non li raffinano, riuscendo perciò sia ad accettarli che a rinunciarvi.
Scarsa appare invece la conoscenza degli strumenti giuridici a tutela dei cittadini e le loro conseguenze. Molti si meravigliano che una querela o una denuncia abbiano un riscontro in Tribunale e non si gestiscano presso il Commissariato, altri son convinti di poter ritirare sempre tutte le accuse, indipendentemente dal tipo di reato che sostanziano, la maggior parte disconosce l’onere che comporta una denuncia, i doveri che gravano anche sul denunciante oltre che sul denunciato, a cominciare dalla testimonianza e finendo con le gravi conseguenze che a volte si mettono in moto e che vanno al di là della volontà stessa di chi denuncia. Si riceve una conferma della lontananza della giustizia, così come attualmente amministrata, dalle necessità e aspettative delle persone che vi ricorrono.
In confronto la mediazione, entrando nel merito dell’atto insieme agli attori della vicenda, riesce a coprire un vuoto, un senso di impotenza che chi percorre i sentieri tradizionali del ricorso alla giustizia, vive in pieno ed angosciosamente. Difficilmente chi è vittima di una offesa riesce a sentirsi tutelato dal ricorso alle forze dell’ ordine, che possono intervenire, ma non possono certo presidiare situazioni di ostilità più o meno latenti, episodi reiterati di cattiva educazione, di volgarità, pur potendo costituire proprio questo genere di cose l’ elemento premonitore di ben più gravi conseguenze. In questo senso un lavoro che Marco Bouchard, il magistrato torinese al quale si deve in buona parte la diffusione della conoscenza della mediazione in Italia sta conducendo con la questura di Torino per introdurre proprio questo strumento nei commissariati, è di estremo interesse e va a coprire un’ esigenza veramente sentita oltre che a contribuire ad una riqualificazione in senso sostanziale del ruolo del poliziotto.
Infine la sensazione che a fine mediazione, a dispetto della brevità e della economicità dell’intervento, qualcosa di molto importante rimanga e venga valorizzato: i1 senso dell’esperienza, la positività di utilizzarla in futuro per vivere meglio, per esprimersi di più, per captare con sufficiente anticipo la deteriorabilità di una situazione ed evitarlo.
Le ricerche pubblicate da paesi quali l’Austria e la Germania sugli esiti della mediazione mettono in correlazione questo strumento con un calo vertiginoso della recidiva. Questo dato non stupisce l’Ufficio di Mediazione, perché nell’attività di mediatore si ha chiara la sensazione che gli attori del conflitto imparino dal loro confronto a far proprie acquisizioni che permetteranno loro di “giocarsi” in modo diverso in situazioni relazionali simili a quelle che li hanno condotti a confliggere, la “vergogna ” provata di fronte alla vittima può lasciare un segno più evidente che una multa o un arresto, la comprensione di chi ha subìto rende peraltro dignitosa l’attività di riparazione, le dà uno spessore che la repressione in sé del fatto illecito in genere non comporta.
E’ evidente quale forte interesse susciti in campo penale minorile la mediazione di fronte a queste sensate speranze di incidere sui comportamenti dei ragazzi, in un momento in cui si è nell’affannosa
ricerca di modalità più convincenti, più economiche o perlomeno non inutilmente dispendiose come appaiono inesorabilmente essere la maggior parte delle risposte istituzionali.
Uno strumento quindi prezioso, seppur limitato (non tutti i conflitti sono mediabili), che rimanda ad una filosofia diversa del crimine e della stessa pena, e che promuove la pratica di gestire i conflitti rielaborandoli, superandoli, restituendoli al sociale al quale appartengono piuttosto che affidare la loro impossibile negazione all’emarginazione e alla reclusione, con il pericolo provato di amplificarli.