La nostalgia necessaria

Riflessioni intorno alla filosoficità del sapere educativo

Il pensiero di un uomo è innanzitutto la sua nostalgia

(A. Camus, Il mito di Sisifo)

“I cieli non sono umani e la vita sopra di me e sotto di me e dentro di me neppure (…)

I cieli non sono umani eppure io quella volta ero ancora umano (…)

I cieli non sono umani, ma c’è qualcosa forse più di questi cieli,

la compassione e l’amore di cui mi sono ormai dimenticato e che ho dimenticato (…)

I cieli non sono umani, e io ne ho abbastanza”

(B. Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa)

Un doveroso pre-ambolo

La pedagogia, nel corso del Novecento, in un clima di estrema vivacità teorica, si è ripetutamente interrogata intorno alla sua identità. Rispetto alla domanda: “chi sono io?”, in un’atmosfera che vedeva, da una parte, i nostalgici del filosofico, e, dall’altra, gli avventurieri della scienza, le risposte hanno finito per esaurirsi insieme a quel secolo breve che ne è stato testimone.

Riproporre oggi il tema della nostalgia, del ritorno alla filosoficità, generalità e fondatività del sapere per l’educazione apparirà quanto mai intempestivo.

L’azzardo del riproporre come non chiusa la questione identitaria della pedagogia, in questa stagione dell’umanità dove, non solo l’educazione è stata da più parti liquidata come un’antropotecnica superata[1], ma l’uomo stesso appare un retaggio anacronistico, un ricordo cha ha i colori della penna di Philip Dick, trova una sua plausibilità, almeno nella prospettiva di chi scrive queste note, nella necessità di ritornare, con il sentimento kunderiano dell’ignoranza, all’essenza, al cuore epistemologico del sapere del dover essere.

Lo scossone epistemologico che ha investito la pedagogia è stato, sempre negli ultimi anni, una sorta di premessa tacita ed implicita da cui muovere per dirigersi, con non poca rapidità, verso questioni apparentemente più contemporanee e non nel senso agambiano dell’inattualità[2].

Attraverso un gesto di adesione, che non sempre ha saputo servirsi di quella distanza necessaria capace di restituire
il fascio di tenebra di un tempo[3], la sua teoretica ineffabilità,  la pedagogia ha posto entro il suo gioco teorico una serie di temi e motivi pop (neuropedagogia etc.),  finendo per trascurare questioni la cui irrisoluzione mina la possibilità stessa che essa possa esprimersi rispetto a questioni scientifiche in senso forte.

 Se, da una parte, le trasformazioni scientifiche conducono quasi inevitabilmente ad una riproblematizzazione dello statuto e delle categorie  di confine disciplinare, dall’altra, ciò che oggi prende piede è un naturalismo spinto, tenuto a battesimo da una civiltà scientista e tecnicista[4],  impegnato ad annullare qualunque confine fra scienza e filosofia mediante una colonizzazione dei campi di ricerca e una risoluzione su base deterministica (prevalentemente lungo una linea neuroscientifica) delle domande fondamentali dell’uomo e sull’uomo. Ciò che si sta imponendo, quasi tacitamente, è la riduzionistica convinzione che il cervello, novello oracolo che parla per immagini, sia in grado di fornire le rispose a molte delle secche concettuali con cui la filosofia e la pedagogia si sono misurate per secoli.

Una sorta d’ingenuità ha consentito che la pedagogia cedesse alle moine della scienza e, come un moderno Giufà dei saperi,  rinunciando all’ascesi teoretica, alla ‘bella morte nella teoria’[5],  questa ha finito per credere che l’unica legittimazione possibile dei suoi percorsi euristici passasse necessariamente attraverso l’adozione epistemologica da parte del paradigma scientifico-tecnologico[6].

La pedagogia è stata vittima di una sorta di svantaggio epistemologico e di pregiudizio laddove ha assunto e difeso la centralità della teoria, di quella teoria che finisce per apparire ai moderni come un concetto privativo. Nel rivendicare la filosoficità dei suoi percorsi, essa ha rinunciato apparentemente alla perentorietà degli scopi pratici[7] che le è originariamente connaturata. Sarà forse in nome anche di questa visione privativa della dimensione teorica che la pedagogia non ha accolto tacitamente, a differenza di tutte le altre scienze umane, come efficacemente argomentato da Maria Teresa Moscato, la filosofia come sua  ‘matrice arcaica’. Spesso la pedagogia  ha posto e pone la questione come  aperta, come una ‘ferita mal cicatrizzata’.  Ripetutamente è torna, con  una sorta di ciclicità, a interrogarsi sulla sua identità (filosofia/scienza) in termini di polarità irrisolta[8].

Se è indiscutibile, da una parte, come ha ricordato un pedagogista di indubbio rigore come Alberto Granese, che : “ I problemi educativi e formativi (…) eccedono il campo delle discipline filosofiche e scientifiche, sia dal punto di vista esplicativo che da quello delle determinazioni e delle decisioni” [9], dall’altra, è proprio alla luce di queste zone della ricerca così nuovamente rischiarate dalla potenza del complesso tecnoscientifico e dal neuroriduzionismo che finisce per non apparire un azzardo ritornare sulla vessata questione dell’identità della pedagogia.

In origine fu il meraviglioso: la filosoficità del pedagogico

Scrivere nell’anno 2012 sull’origine filosofica del sapere educativo ha in sé qualcosa di volutamente vintage. È come voler  imporsi un’ascesi, un’acrobazia apparentemente inutile, eppur necessaria. Mi si obietterà il già detto, il ricorrere a temi e parole sovraesposte, consumate, ma in un tempo in cui la tendenza è abitare gli spazi della scienza in senso forte per poter conservare una presunta dignità disciplinare, ben vengano queste obiezioni, giacché il filo rosso di queste riflessioni, come già anticipato nel preambolo di questo scritto, è la nostalgia, un kunderiano ‘desiderio di ritornare’, di ripercorrere la storia bella e povera di una disciplina (G. Acone), persuasi che il passato sia ‘la sostanza di cui è fatto il tempo’ (J. L. Borges), che il futuro abbia “un cuore antico” (C. Levi) e che la filosofia aristotelicamente nasca dalla meraviglia[10], dallo stupore innanzi al mondo e al suo darsi. Ed è proprio questa capacità di meravigliarsi ‘di fronte a ciò che sgomenta’[11], di lasciarsi colpire dal problema[12] in senso autentico, di subire l’affezione di questo pathos[13],  che la mitografia tecnologica ha finito per cancellare attraverso l’idea di un controllo, una mappatura costante del possibile.

Recuperare l’origine del sapere pedagogico, il suo essere una filosofia applicata (S. Hessen[14]),  se è anche un tentativo di reincantare[15] il mondo, riponendo nella sua grammatica creativa il motivo della meraviglia, risponde soprattutto all’esigenza di rimettere il tema dell’angosciato terrore all’interno di una narrazione che sia ancora capace di misurarsi con l’idea del portare alla luce il mondo e il timore che questo sguardo (teoria) porta con sé, senza cedere all’idea che questo sia tecnicamente controllabile o che basti individuare l’amigdala come sede cerebrale delle nostre paure per liberare il campo dall’idea limite dell’illimite.

Ritornare nostalgicamente a porre la questione dell’educabilità entro i sentieri del filosofico, nel tempo della messa in crisi della balia della vita (Kierkegaard), non equivale solo a rimarcare la bertiniana scelta pedagogica inevitabile, quella che concerne i fini  e il piano dell’esperienza[16],a riconoscere aconianamente la  globalità pluridimensionale e polisemica dell’educazione umana[17] o, ancora, a rilevare la metariflessività della filosofia dell’educazione[18], ma risponde soprattutto al bisogno di reintrodurre una visione paidetica capace di porsi come sintesi efficace, intersezione di zeitgeist, stimmung e bildung[19]. È questo concetto/costrutto/paradigma dilatato, dagli orizzonti plurimi e sfumati, questo  ‘fine per eccellenza’, per citare Volpicelli, che non può essere trascurato da qualunque discorso che abbia in sé  tensione umanizzante.

Non si tratta di disconoscere il ruolo della scienza, la funzione censoria dell’osservazione, il suo essere il tribunale dell’immaginazione teorica[20], né si tratta di  porre in discussione  la dialogicità (G. Minichiello[21]), lo strabismo epistemologico necessario dello sguardo  pedagogico,  ciò che si tenta di preservare  è la legittima aspirazione alla generalità del sapere educativo. Questa difesa non può non comportare l’impegno a contenere  la tendenza a ritenere come privo di senso, destinato all’insignificanza, tutto quanto eccede l’empiria e oltrepassa la scienza.

L’orizzonte storico-culturale non contiene la pluridimensionalità dei processi educativi che fanno necessariamente appello al configurarsi di un orizzonte di senso capace di porre una dimensione fondamentale, insieme assiologica e teleologica, entro cui l’educazione possa darsi nella sua pienezza e non come mera dinamica istruttiva, socializzante o, peggio ancora, di adattamento[22]. È nella relazione circolarmente virtuosa che si istituisce tra questi orizzonti, nella possibilità che l’orizzonte di senso possa innestarsi sull’orizzonte storico-culturale per promuovere e veicolare una crescita significativa e un’attribuzione di significato all’esperienza, e non solo dei soggetti in formazione, ma dello stesso spirito di un tempo, che si gioca la vera sfida educativa/paidetica.

Non si getta in avanti, pro-getta, un’idea di uomo e di educabilità fuori da una cornice filosofica capace di proiettare un raggio teorico su quell’orizzonte della pensabilità possibile così spesso diviso tra la costellazione di significati, valori e senso propri dell’educazione, da una parte, e la galassia scinetifico-tecnologica dell’istruzione[23], dall’altra.

La parola della pedagogia, come quella filosofica, è sempre seconda, la sua voce riflessa, giacché : “solo per il carattere derivato del suo dire (…) è in grado di fare esperienza indiretta, obliqua, della sua origine, di quel limite che ri-flette il limite originario dell’autocoscienza ri-flessa” [24], essa, ancora come la filosofia, “ripete, ad un secondo livello, l’originaria riflessione dell’autocoscienza” [25]. Ed è proprio in nome di  questa distanza dalla vita, come argomenta Vitiello, che la filosofia, e noi diremo per estensione la pedagogia (o almeno la pedagogia così come noi la intendiamo), “può riconoscere con il suo limite il limite originario (…) dell’auotocoscienza” [26].  Se “l’autocoscienza è la vita che raggiunge la propria certezza” [27], come ha icasticamente scritto Giuseppe Acone nel 1973,  in termini precipuamente pedagogici, non possiamo non riconoscere come Hegel richiami “gli uomini all’immane fatica del concetto: ad un Assoluto non dato ma facentesi nella ricchezza delle determinazioni e delle articolazioni multiformi e nel dramma delle alienazioni irrisolte all’interno del suo stesso cammino” [28].

L’appello hegeliano è a un’educazione come mediazione faticosa[29] e compito della pedagogia oggi è riattualizzare la portata di questo volgere verso e andare oltre.

Quando la performatività della scienza sembra essere la direzione obbligata e qualsiasi forma residuale di teleologia/assiologia uno scomodo rottame metafisico, richiamare una mediazione su grandi narrazioni storico-filosofiche è tentativo di riappropriarsi, di custodire/superare (Aufhebung) la totalità perduta e di non dimenticare, come sottolineato da Eric Weil, che la scienza è esente da valori e che, diversamente, la vita è guidata da valori [30].

Tecnoscienze e neuroriduzionismo: una lettura pedagogica

Quando Jacques Maritain, in un’opera assai intesa,  La filosofia morale[31], colse la portata del sanculottismo epistemologico cartesiano e l’inevitabile conseguenza che ne sarebbe derivata, la riduzione della filosofia a portinaia del Museo della scienza, eravamo bel lontani dall’idea, che aveva preso forma solo negli schizzi letterari della fantascienza, che la scienza, attraverso un’alleanza, non troppo celibe, con la tecnica-tecnologia, sarebbe giunta non solo a confermare l’inattualità filosofica, ma a dar forma a programmi di ricerca capaci di inverare tecnicamente l’angelismo di cui Maritain tacciò Cartesio[32].

Se il Novecento ha  edificato e alimentato il suo dibattito epistemologico introno alle ‘moderne distinzioni categoriali’ del sapere (fenomeni naturali/fenomeni storici; scienza/filosofia; natura/cultura; prescrittivo/descrittivo etc.) e la conseguente naturalizzazione dello stesso, la  caduta  di queste distinzioni  ha condotto alla nascita delle tecnoscienze, quella famiglia “di discipline e di programmi di ricerca che, pur mantenendo la stretta correlazione tra scienza e tecnica tipica delle scienza naturali si rivolgono sistematicamente a un oggetto riservato un tempo alle sole scienze umane, tanto da costituirne la base vera e propria: l’insieme delle facoltà specifiche che definiscono l’umanità dell’uomo”[33] . Questa nascita  spazza via l’antica distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito e la connessa ricerca di un’autonomia di quest’ultime, affidando la domanda fondamentale sullo statuto ontologico dell’uomo, attraverso un non troppo mascherato determinismo biologico,  ad un riduzionistico programma di tecnicizzazione[34] teso a ridurre la complessità ermeneutica del mondo attraverso la costruzione di ambienti[35]. La tecnica, come abilmente mostra De Carolis, giunge ad investire le stesse forme di vita, prendendo di mira come suo bersaglio non più le prestazioni, ma bensì le facoltà che delimitano e definiscono l’umanità dell’uomo, contravvenendo così al divieto del ‘programma tecnoscientifico globale’ della Nova Atlantis baconiana di sottoporre a ‘manipolazione tecnica i sensi e le facoltà dell’uomo’[36].

Ponendosi lungo questa scorciatoia, l’uomo finisce per misurarsi con il rischio estremo di percepirsi come nuda vita a disposizione dell’apparato tecnico che non pone limite al suo anomico e autonomo sviluppo. Scrive a questo proposito il bioeticista Adriano Pessina: “ L’autonomia della tecnologia contemporanea (a differenza dell’eteronomia della tecnica in quanto tale) è riconoscibile come un fatto, e cioè come tendenza all’autoreferenzialità del processo tecnologico. Le esigenze intrinseche, sistemiche, delle tecnoscienze tendono, infatti, a depotenziare le finalità estrinseche, quelle cioè in grado di governare e limitare lo sviluppo della ricerca, perché esse seguono il modello dell’autoaccrescimento e non riconoscono altra ‘legge’ se non quella dello sviluppo. L’anomia (in senso morale) delle tecnoscienze deriva dalla loro capacità d’imporsi come linguaggio universale del progresso, sia perché usano il linguaggio delle scienze, sia perché i problemi tecnologici vengono risolti con soluzioni che si impongono universalmente ed omogeneamente. (…) Il fatto che le tecnoscienze siano autonome non significa che questa autonomia costituisca di per sé un valore: per poterlo affermare, infatti, occorre proprio elaborare una riflessione che non faccia più uso del modello pratico-teorico della tecnoscienza stessa. Il dinamismo delle tecnoscienze, che marca continue distanze dalle elaborazioni della filosofia, della teologia e della cultura cosiddetta ‘umanistica’, che di fatto si presentano come forme di sapere che aspirano più alla permanenza che al divenire, tende a proporsi come sistema pratico-teorico in grado di inglobare anche le concezioni della vita, della storia e dell’uomo da cui pure è sorto. Di fatto, lo sviluppo tecnoscientifico non soltanto propone, ma impone nuovi stili di vita e perciò un vero e proprio ethos” [37].

La lunga citazione si presta agevolmente a far comprendere quale sia la pericolosità di un apparato autoreferenzialmente ripiegato e anomicamente ispirato. Le conseguenze pedagogiche sono evidenti e, ovviamente, non s’infrangono solo su di un mero piano epistemologico.  In un clima di neuro-riduzionismo maniacale[38], la questione che s’impone con sempre maggior urgenza, non è la mera rivendicazione di uno spazio disciplinare; non si tratta di difendere una dimora scientifica, ma la stessa idea di uomo. Nel momento in cui l’idea pedagogica della perfettibilità, per lungo tempo affidata alla fatica educativa, viene sostituita da un’idea di ottimizzazione  delle prestazioni e delle facoltà (De Carolis, Acone[39]), appaltata  all’apparato biotecnologico, ciò che viene a mancare non è soltanto uno spazio proprio, autonomo di teorizzazione, ma la possibilità stessa che la pedagogia possa ancora pensare l’uomo e la sua educabilità.

Eredi della fine di tutte le grandi narrazioni, ci troviamo in bilico, come sottolineato da Giuseppe Acone, tra “tendenze post-umaniste su basi tecnoscientifiche e neuroscintifiche” e “un esigenzialismo di tipo onto-metafisico politico, utopico, giuridico, etico, pedagogico che ripropone la tradizione umanistica e riscrive dentro di essa continuamente una centralità della persona ritenuta una bardatura retorica in maniera più o meno riflessa” [40].

Cercare di riproporre nostalgicamente i vecchi sentieri della filosofia e la centralità della persona, non riducibile a nuda vita, non risponde solo ad una mera esigenza epistemologica, ma è un richiamo necessario al nostro essere ancora umani in un tempo in cui la scienza e il suo virgulto, la tecnologia,  si impongono come ultima narrazione. Perché: “la negazione della persona, come fondamento istitutore di linguaggio etico, giuridico e pedagogico –  scrive il pedagogista Acone –  fa sì che salti al tempo stesso qualsiasi istanza che dia al linguaggio educativo la sua unica linfa vitale: il suo essere intreccio di relazione (amore) e di senso” [41].

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[1]Cfr. P. Sloterdijk, Non siamo stati ancora salvati,  trad. it. Bompiani, Milano, 2004; ID, Devi cambiare la tua vita ,trad. it. Raffaello Cortina, Milano, 2010

[2]“È davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo” (G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma, 2008)

[3]G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, cit.

[4]“Una civiltà scientista e tecnicista è quella che ha accettato, come condizione base del suo modello di accostamento conoscitivo e di intervento operativo sulla realtà, la neutralizzazione de soggetto, ossia dell’uomo. Come potremmo quindi pensare che essa possa esprimere dei valori, che possa dare un senso alla stessa storia e al suo destino? Solo l’uomo si propone dei fini, persegue dei valori, esprime dei significati, si pone dei ‘perché’ e, in particolare, solo tenendo conto di lui è possibile rispondere ai ‘perché’ che riguardano la stessa scienza e tecnica” (E. Agazzi, Il bene, il male e la scienza. Le dimensioni etiche dell’impresa scientifico-tecnologica, Rusconi, Milano, 1992, p. 96

[5]Cfr. P. Sloterdijk, Stato di morte apparente. Filosofia e scienza come esercizio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2011.

[6]Cfr. G. Acone, Razionalità filosofica e razionalità scientifico-tecnologica in pedagogia, in G. Sola (a cura di), Epistemologia pedagogica, Bompiani, Milano, 2002.

[7]“Ciò che nella scienza moderna si chiama teoria non ha nulla da fare con quel guardare e sapere con il quale il greco contemplava e accettava l’ordine del mondo. La teoria nel senso moderno è un mezzo di costruzione, mediante il quale si riuniscono esperienze diverse e si rende possibile il loro dominio (…) Nell’uso moderno il concetto di teorico è quasi un concetto privativo. Qualcosa è teorico quando non possiede la perentorietà determinante degli scopi pratici. Per converso, le teorie che qui si formulano sono dominate dall’idea della costruzione, cioè la stessa conoscenza teorica viene pensata in base alla possibilità di dominare liberamente l’ente, e non come un fine in sé, bensì come mezzo. La teoria in senso antico è invece qualcosa di tutt’affatto diverso. Essa non indica solo la contemplazione dell’ordine esistente come tale, ma implica anzi la partecipazione a questo ordine stesso nella sua totalità” (H. G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. Bompiani, Milano, 2001 (XIII Ed.), pp. 519-520

[8]Cfr. M. T. Moscato, La filosofia dell’educazione fra esigenze e impliciti, in G. Vico (a cura di), Pedagogia generale e filosofia dell’educazione, Vita e Pensiero, Milano, 2006, pp.177-195

[9]A. Granese, La conversazione educativa. Eclisse o rinnovamento della ragione pedagogica, Armando, Roma, 2008, p.31

[10]Cfr. Aristotele, La metafisica, Utet, Torino, 1974

[11]Cfr. E. Severino, La filosofia contemporanea, Rizzoli, Milano, 1998

[12]Come scrisse Merleau-Ponty nel 1953, nell’ambito della lezione inaugurale al College de France, Elogio della filosofia, “la filosofia ci risveglia a ciò che l’esistenza del mondo e la nostra hanno di problematico in sé, al punto di distoglierci per sempre dal cercare una soluzione, come diceva Bergson, ‘nel quaderno del maestro’” (M. Merleau-Ponty, Elogio della filosofia, trad. it. Editori Riuniti, Roma, 1999, p. 51)

[13]Cfr. Platone, Teeteto, Laterza, Bari, 2006

[14]Cfr. S. Hessen, Fondamenti filosofici della pedagogia, Avio, Roma, 1956; ID., Difesa della pedagogia, Avio, Roma, 1958

[15]Cfr.G. Acone, L’identità difficile della pedagogia tra complessità e postmodernità, in Pedagogia e Vita, vol. 1, La Scuola, Brescia, 2005

[16] “La filosofia dell’educazione non sta né prima né dopo i vari saperi dell’educazione, non li precede o produce né li sintetizza, bensì li accompagna nella loro crescita ‘magmatica’ (inquieta, polimorfa, tensionale) e vi agisce come un’ombra, un bisturi, una corrente. Come un’ombra: poiché li segue con la sua riflessività, ne legge i contorni, ne evidenzia la forma e pertanto li regola e li controlla. Come un bisturi, poiché analizza, disseziona ecc. i tessuti del discorso pedagogico, la sua struttura anatomica, ma anche quella fisiologica (per così dire). Come una corrente: poiché conduce, incanala, orienta, svolgendo un’azione di coordinamento e di confluenza. Un’azione triplice, contrassegnata dallo statuto critico e dalla funzione regolativa”(F. Cambi, Manuale di filosofia dell’educazione, Laterza, Bari, 2000,p. 21).

[17]Cfr. G. Acone, La filosofia e l’educazione, in AA.VV., Filosofia e filosofia di, La Scuola, Brescia, 1992, pp. 133-142

[18]Cfr. G. M. Bertin, Educazione alla ragione. Lezioni di pedagogia generale, Armando, Roma, 1995

[19]Cfr. G. Acone, La paideia introvabile. Lo sguardo pedagogico sulla post-modernità, La Scuola, Brescia, 2004

[20]Cfr. D. Antiseri – B. M. Bellerate – F. Selvaggi, Epistemologia e ricerca pedagogica, LAS, Roma, 1976

[21]Cfr. G. Minichiello, Il doppio pensiero. Razionalità e analogia nel discorso pedagogico, Morano, Napoli, 1994; ID, L’epistemologia pedagogica: stato dell’arte, Pensa, Lecce, 2006

[22]Cfr. G. Acone, Declino dell’educazione e tramonto d’epoca, La Scuola, Brescia, 1994; G. Acone, La paideia introvabile. Lo sguardo pedagogico sulla post-modernità, cit.

[23]Un’analisi attenta volta ad esplorare la ‘zona grigia’ dell’aut aut pedagogia/scienze dell’educazione è contenuta nel saggio di. G. Acone, Spazi e territori della ricerca teorica contemporanea. Spunti di antropologia, metodologia, teleologia pedagogica, in G. Acone (a cura di), Esplorazioni teoriche in pedagogia. Orizzonti, figure, ambiti, Edisud, Salerno, 2006, pp. 13-60

[24]V. Vitiello, La voce riflessa. Logica ed etica della contraddizione, Lanfranchi, Milano, 1994, p. 13. Scrive ancora Vitiello: “In una pagina della Fenomenologia dello spirito Hegel descrive la nascita dell’autocoscienza dalla lotta per la vita e per la morte. Ora tutto il mondo animale è attraversato e dominato da questa lotta. Eppure solo in un vivente questa lotta porta a quella separazione dalla vita, che non è la morte biologia, bensì l’autocoscienza riflessa, la separazione da tutti i rapporti vitali immanenti. (…) La separazione dalla vita è
la nascita del mondo e del tempo” (pp.10-11)

[25]V. Vitiello, La voce riflessa. Logica ed etica della contraddizione, cit.,  p. 13

[26] Ibidem

[27] G. Acone, La concezione dell’uomo e l’educazione in Hegel e Marx, Beta, Salerno, 1973, p. 33

[28] G. Acone, La concezione dell’uomo e l’educazione in Hegel e Marx, cit., p. 24

[29] Ibidem

[30] Cfr. E. Weil, Educazione e istruzione. Scienza e discipline umanistiche oggi, trad. it. Guerini, Milano, 1998

[31] Cfr. J. Maritain, La filosofia morale, trad. it. Morcelliana, Brescia, 1999

[32] Cfr. J. Maritain, I tre riformatori. Lutero, Cartesio, Rousseau, trad. it. Morcelliana, Brescia, 1964

[33] cfr. M. De Carolis, La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Bollati Boringhieri, Torino, 2004; AA.VV.,La natura umana. Forme di vita, DeriveApprodi, Roma, 1/2004

[34] “La tecnicizzazione agisce sempre sulle forme di vita nel loro complesso. Anche l’evoluzione sociale che, a suo tempo, ha trasformato una parte degli operai e dei contadini dell’Occidente in tecnici dell’industria e dell’agricoltura (e la rimanente parte, per lo più, in emarginati) ne ha mutato, evidentemente, l’intera forma di vita. La rappresentazione di questo processo limitava però l’intervento tecnico alla sola dimensione produttiva, supponendo che le altre dimensioni – quella etica, esistenziale, biologica ecc. – si adeguassero in modo spontaneo al nuovo assetto strutturale. Come si è appena visto, è dubbio fino a che punto questa rappresentazione rispecchiasse la realtà e fino a che punto contribuisse invece a costruire un modello fittizio, in cui la «società» figura come pseudosoggetto tautologico della propria autoriproduzione. È certo, in ogni caso, che il tipo d’intervento tecnico associato alle tecnoscienze umane non è ormai più raffigurabile in questo schema, perché apertamente rivolto ad aspetti basilari della vita umana, non confinabili nella sfera produttiva a meno di non intendere quest’ultima in un’accezione talmente dilatata da farla coincidere, in pratica, con la vita nel suo insieme. Il caso della medicina performativa, in cui la tecnica interviene direttamente sui processi biologici primari, ci ha già dato un esempio di tale espansione nell’ambito dell’ingegneria biologica. Che però anche nell’ambito cognitivo la tecnicizzazione travalichi senz’altro la dimensione strettamente produttiva, lo illustra forse più di ogni altra cosa la centralità che ha acquisito in questa sfera il modello di prassi per tradizione più lontano dalla produttività, vale a dire il gioco”. (M. De Carolis, La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., pp. 222-223)

[35] Scrive De Carolis: “la distinzione tra mondo e ambiente si presenta – più che come un confine ontologico tra l’uomo e le altre specie – come una differenza tra due modalità di elaborazione dell’informazione: una, in cui il flusso informativo è già selezionato in modo da distinguere il segnale dal rumore; l’altra, in cui questa selezione basilare deve ancora aver luogo e può quindi essere impostata, caso per caso, in modo sperimentale e provvisorio” (M. De Carolis, La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 56)

[36] Cfr. M. De Carolis, La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit.

[37] A. Pessina, L’uomo e la tecnica: annotazioni filosofiche, in M. L. Di Pietro – E. Sgreccia (a cura di), Biotecnologie e futuro dell’uomo, Vita e Pensiero, Milano, 2003, p. 9

[38] Cfr. P. Legrenzi, C. Umilità, Neuro-mania, Il Mulino, Bologna 2009

[39] Cfr. G. Acone, I sentieri interrotti dell’educazione tra innovazione e tradizione, in AA.VV. Quaderni del Dipartimento 2008-09, vol. I, ed. Pensa, Lecce, 2009, pp. 19-26; ID, Paradigma umanistico, paradigma scientifico-tecnologico e tendenze nichilistiche negli approcci teorici della pedagogia contemporanea, in E. Frauenfelder – F. Santoianni (a cura di), A mente aperta. Ambienti di apprendimento, contesti di formazione, Pisanti, Napoli, 2009, pp. 227-246; ID, Educare oggi. Tra umanesimo, post-umanesimo e neoumanesimo, in AA.VV. Quaderni del Dipartimento 2009-10, vol. II, I Semestre,  ed. Pensa, Lecce, 2010, pp. 17-25; ID, La narrazione persona/educazione nell’orizzonte culturale della deriva scientista, in AA.VV. Identità e diversità nell’orizzonte educativo. Studi in onore di Giuseppe Vico, Vita e Pensiero, Milano, 2010, pp. 41-51; ID, Le deriva decostruzionista e la persona come orizzonte di senso, in AA.VV.,  Persona e educazione. Studi in onore di Sira Serenella Macchietti Armando, Roma, 2010, pp. 179-185; ID., Le vicissitudini della persona nella cultura pedagogica contemporanea italiana e il concetto di libertà educativa, in L. Caimi (a cura di), Autorità e libertà. Tra coscienza personale, vita civile e processi educativi, Vita e Pensiero, Milano, 2011 pp.329-335

[40] G. Acone, La narrazione persona/educazione nell’orizzonte culturale della deriva scientista, in AA.VV. Identità e diversità nell’orizzonte educativo. Studi in onore di Giuseppe Vico, Vita e Pensiero, Milano, 2010, p. 43

[41] G. Acone, La narrazione persona/educazione nell’orizzonte culturale della deriva scientista, cit., p. 49