La psichiatria del Novecento

All’origine della psichiatria contemporanea

L’evento che meglio si presta a essere posto simbolicamente all’origine della psichiatria contemporanea è la pubblicazione, nel 1911, del volume Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie, dello psichiatra svizzero Eugen Bleuler. In quest’opera Bleuler da un lato raccoglie la ricca e complessa eredità della psichiatria positivista del secondo Ottocento, dall’altro delinea una concezione della malattia mentale, e in particolare della schizofrenia, che contiene un elemento di grandissima attualità.

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Nella Premessa a Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie, in sede di ringraziamenti, egli scrive: “Il concetto di dementia praecox è interamente kraepeliniano. Anche il raggruppamento e la distinzione dei singoli sintomi sono quasi unicamente opera di Kraepelin. Appesantirei troppo il discorso segnalando tutti i suoi meriti punto per punto. Lo dico una volta per tutte. Gran parte del saggio, l’ampliamento dei confini della patologia, altro non è che l’applicazione delle idee di Freud alla dementia praecox.. Penso che sarà senz’altro chiaro per ogni lettore quanto devo a questo autore, anche se non lo menzionerò sempre”1.
Accingendosi ad affrontare il tema cruciale della schizofrenia, Bleuler si colloca dunque tra Kraepelin e Freud. Il senso di questa collocazione apparentemente paradossale comincerà a chiarirsi esaminando rapidamente la sua originale concezione della schizofrenia. Per definire questa patologia egli utilizza un criterio sintomatologico, distinguendo due livelli: il livello dei sintomi fondamentali e quello dei sintomi secondari o accessori.
I sintomi fondamentali sono, con ogni probabilità, la conseguenza diretta e psichicamente non elaborata di un danno cerebrale sconosciuto. Essi configurano il disturbo di base della schizofrenia, e il loro carattere comune è la scissione (Spaltung) dell’attività psichica in tutti i suoi aspetti, intellettuali e affettivi2.
Il principale sintomo fondamentale è la perdita più o meno massiccia delle connessioni tra gli elementi del pensiero. Ciò comporta un profondo disorientamento intellettuale: il paziente non è più in grado di usare il pensiero per capire la realtà, per fronteggiarla, per adattarvisi. Questo stato di cose apre la strada ai sintomi fondamentali di natura affettiva, il più importante dei quali è l’autismo.
“L’autismo – scrive Bleuler – è la diretta conseguenza della scissione schizofrenica del pensiero. Quando esegue delle operazioni logiche, il soggetto sano tende a consultare il materiale che ha a disposizione, indipendentemente dalle valenze affettive. Il rilassamento schizofrenico della logica porta invece all’esclusione di tutte quelle associazioni che si contrappongono ad un complesso a sfondo emotivo. In questo modo può essere soddisfatto senza problemi il bisogno, che non manca mai, di sostituire con la fantasia una realtà insufficiente. I prodotti della fantasia possono contraddire la realtà ma nel cervello del malato non entrano in conflitto, anzi, si conciliano con i suoi bisogni affettivi”3.
La scissione del pensiero e la conseguente chiusura autistica formano il terreno su cui maturano i sintomi secondari, come le allucinazioni, i deliri, le condotte bizzarre. Il paziente reagisce alla propria incapacità di confrontarsi adeguatamente con la realtà, producendo delle attività psichiche mediante le quali soddisfa allucinatoriamente i suoi più profondi bisogni pulsionali e affettivi. Il tema dei sintomi secondari ci introduce al versante freudiano del pensiero di Bleuler. La sua ricchissima analisi della sintomatologia secondaria della schizofrenia è infatti caratterizzata da un uso sistematico di concetti di derivazione psicoanalitica: lavoro dell’inconscio, pulsione, sessualità, autoerotismo, complesso. Ma il tratto che rinvia nel modo più profondo all’opera di Freud risiede nella ricerca del significato dei sintomi secondari, i quali vengono pertanto considerati come il risultato di un’attività psichica finalistica e non come il prodotto grezzo di un’alterazione cerebrale.

La psichiatria del Novecento fino alla scoperta degli psicofarmaci

Ponendosi tra Kraepelin e Freud, Bleuler ha cercato di sanare una frattura che a quasi un secolo di distanza dalla pubblicazione di Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie continua a dividere il mondo della psichiatria, il quale tuttora oscilla tra Kraepelin e Freud, tra biologia e psicologia, tra cervello e mente, tra psicofarmaci e psicoterapia. Occorre anzi aggiungere che dopo il 1911 le linee di pensiero rappresentate paradigmaticamente da Kraepelin e Freud si sono sempre più allontanate e isolate l’una dall’altra. Faremo ora uno schematico resoconto dei principali sviluppi.
Dai primi anni del secolo la psicoanalisi, attraverso il lavoro di Freud e dei suoi successori, da un lato ha arricchito e raffinato sempre di più il proprio edificio teorico e tecnico, dall’altro ha rafforzato la propria presenza sia nella psichiatria sia in generale nel mondo della cultura.
Questo sviluppo si è accompagnato, d’altra parte, a una progressiva differenziazione dell’universo psicoanalitico in orientamenti spesso fortemente in contrasto. Il processo di diversificazione si è realizzato sia all’esterno dell’ortodossia freudiana – con Jung, Adler, Reich, Lacan – sia all’interno, in particolare con la scuola inglese di Melanie Klein e quella americana di Heinz Hartmann.
Nei decenni centrali del nostro secolo la psichiatria a orientamento psicologico o comunque antiorganicistico registra uno sviluppo molto ricco anche al di fuori dell’universo psicoanalitico. Sorgono nuove tendenze e nuove scuole di pensiero: psichiatria fenomenologica, sociale, comportamentista, cognitiva, sistemica e altre ancora. Ogni scuola propone la sua personale interpretazione della malattia mentale e la sua tecnica psicoterapeutica. Sono anni di grande entusiasmo e il destino della psichiatria sembra intimamente legato alla realizzazione di tecniche psicologiche di cura sempre più efficaci.
Nel fronte della psichiatria a orientamento biologico gli umori sono assai meno entusiastici e per molto tempo si assiste a una condizione d’impasse. Ottimi risultati si raggiungono nell’ambito delle malattie mentali a sicura eziologia organica, restano invece completamente infruttuosi i pur ingenti tentativi di rintracciare le lesioni organiche delle patologie più squisitamente psichiatriche, come la schizofrenia, la psicosi maniaco-depressiva, la paranoia, i gravi disturbi di personalità. Quanto alla ricerca di terapie fisiche, la situazione è, se possibile, ancora più fosca. Se si fa eccezione per le terapie convulsivanti, e in particolare per l’elettroshock, messo a punto negli anni Trenta dagli psichiatri italiani Ugo Cerletti e Lucio Bini, i rimedi fisici che la psichiatria può offrire fino a tutti gli anni Quaranta sono decisamente poveri e non molto diversi da quelli disponibili già all’inizio del secolo.
La situazione muta tuttavia bruscamente negli anni Cinquanta. Nel giro di pochi anni vengono prodotti e commercializzati alcuni importantissimi farmaci che sono ancora alla base dell’odierna psicofarmacologia. Nel 1952 viene sintetizzata la cloropromazina che inaugura la serie dei neurolettici o antipsicotici. L’anno successivo appare il primo antidepressivo: l’iproniazide, seguito quattro anni dopo dall’imipramina, il primo antidepressivo a struttura triciclica. Il 1960, infine, è l’anno delle benzodiazepine, ossia dei tranquillanti minori o ansiolitici. La prima molecola prodotta è il clordiazepossido (librium); due anni dopo è la volta del diazepan (valium).
E’ fuori di dubbio che gli psicofarmaci non hanno risolto né il mistero né il dramma individuale e sociale della malattia mentale. E’ pero altrettanto indubbio che essi hanno profondamente modificato il volto della psichiatria a sostanziale vantaggio dei malati. Va ricordato per esempio che la disponibilità degli psicofarmaci ha notevolmente contribuito, naturalmente insieme a fattori di altra natura, al processo di radicale riforma dei manicomi e delle istituzioni psichiatriche, un processo che a partire dagli anni Sessanta ha coinvolto in un modo o nell’altro tutta la psichiatria occidentale. In questo quadro gli psicofarmaci,
e in particolare i neurolettici, hanno consentito di por fine alla pratica, intrinsecamente iatrogena, delle lunghe degenze manicomiali. Come è noto, in Italia il processo di riforma è tardivamente confluito nella famosa legge 180 del 1978, la quale notoriamente non ha certo risolto tutti i problemi, e ne ha anzi creati di nuovi, ma almeno ha azzerato una situazione di intollerabile arretratezza4.

Il panorama contemporaneo

Cominciamo da alcuni dati positivi. Nell’ambito della psichiatria a orientamento biologico stiamo assistendo in questi anni a un continuo arricchimento della ricerca psicofarmacologica. I progressi si svolgono in due direzioni. La prima coinvolge direttamente la pratica clinica e consiste nella produzione di farmaci sempre più specifici e con effetti sempre più mirati sulla particolare sintomatologia del paziente. La seconda direzione di sviluppo deriva dai vertiginosi successi dell’indagine neuroscientifica, soprattutto nel campo dei mediatori cerebrali e dei sistemi recettoriali; dal punto di vista psicofarmacologico tutto ciò comporta una sempre più approfondita conoscenza dei meccanismi biologici di azione delle molecole psicoattive, con importanti vantaggi sia rispetto all’efficacia del farmaco sia in ordine alla previsione e al controllo degli effetti indesiderati.
Anche sul fronte della psicoterapia si devono registrare molti elementi positivi. Un primo elemento è di natura sociale. Negli ultimi anni la psicoterapia è entrata formalmente nelle istituzioni pubbliche e fa ormai parte integrante, anche in Italia, di ogni servizio ben organizzato di salute mentale. In passato, viceversa, i trattamenti psicoterapeutici erano per lo più limitati alla sfera privata con la conseguente esclusione di una grossa fascia della popolazione.
Un secondo fatto positivo è di ordine statistico: è ormai un dato incontrovertibile che, in rapporto a un’ampia gamma di patologie psichiche, anche molto gravi, i trattamenti psicologici conseguono risultati soddisfacenti e talora ottimi. Un terzo elemento positivo è la mentalità concreta e pragmatica che sta cominciando ad affermarsi nel mondo della psicoterapia, soppiantando gradualmente gli atteggiamenti fideistici che hanno negativamente caratterizzato per molto tempo questa disciplina. E’ all’ordine del giorno per esempio il tentativo di mettere a punto dei criteri empirici di natura quantitativa mediante i quali controllare con rigorosa obiettività le caratteristiche e la stessa efficacia di un trattamento psicoterapeutico. La ricerca in questo campo è molto attiva in tutto il mondo e anche in Italia sta cominciando a prendere piede.
Vi è infine un ulteriore dato positivo che ha però anche un risvolto inquietante: è la presenza sul “mercato” di un altissimo numero di orientamenti psicoterapeutici, i quali divergono sostanzialmente l’uno dall’altro nei presupposti teorici, nelle tecniche di cura e perfino negli obiettivi terapeutici. Una così ampia varietà di posizione è senz’altro un indice positivo che testimonia del grande fervore di studi e di iniziative che hanno luogo in questo campo. Ma è anche un fenomeno problematico che ci fa gettare un primo sguardo sulla frammentazione e la confusione che regnano attualmente nel mondo della psichiatria. Lo stato di confusa frammentazione appare poi ancor più eclatante e drammatico se consideriamo la lacerazione che, come ai tempi di Bleuler, ancora divide la psichiatria tra interpretazioni biologiche e interpretazioni psicologiche o psicosociali della malattia mentale. Da tutto ciò si può evincere una conclusione interessante: diversamente da altri rami della medicina e della scienza, la psichiatria non è una disciplina unitaria. Vi sono tante psichiatrie, non una sola. Ciò significa che non esiste un sapere comune di base – un paradigma, direbbe Kuhn5 – condiviso dall’intera comunità scientifica e professionale. Molti ritengono che questo sia una situazione transitoria destinata a essere superata col crescere della conoscenza. Io credo al contrario che si tratti di uno stato di cose ineluttabile che scaturisce dall’oggetto stesso di questa disciplina: la sofferenza della mente. Il punto è che la mente, malata o sana che sia, si offre per sua natura a essere rappresentata, pensata e trattata in differenti modi, ognuno dei quali ha la sua ragion d’essere.
Questa inevitabile divisione del sapere psichiatrico non implica, tuttavia, o almeno non dovrebbe necessariamente implicare la confusione e la conflittualità che si riscontrano nei fatti. Sul piano concreto l’aspetto cruciale della questione è rappresentato naturalmente dal rapporto tra approcci farmacologici e approcci psicologici. Il principale traguardo della psichiatria del futuro consiste, a mio parere, in una reale e razionale collaborazione tra queste due modalità non solo di curare ma anche di pensare la malattia mentale. Ma una collaborazione reale e razionale – ossia una collaborazione non puramente burocratica – richiede da parte degli operatori una disponibilità mentale che in concreto s’incontra veramente di rado. Il dialogo è ostacolato dal carattere rigido e spesso fideistico dei modello teorico-pratico che ogni operatore interiorizza a partire dalla propria formazione. Per uno psichiatra di formazione biologica è difficile accettare l’idea che una psicoterapia possa dare qualcosa di più di un sostegno morale. Per i più intransigenti la psicoterapia serve tutt’al più a migliorare la compliance verso la terapia farmacologica. Per lo psichiatra di formazione psicodinamica, come anche per molti psicologi clinici, è invece difficile accettare l’idea che un farmaco possa svolgere qualcosa di più di un’azione puramente palliativa. Lo psicoterapeuta, inoltre, vive spesso la terapia farmacologica come una sorta di sabotaggio del proprio lavoro.
I fatti dimostrano tuttavia che entrambi questi atteggiamenti sono sbagliati. La psichiatria del futuro dovrà dunque cimentarsi con un problema assai arduo che ha due aspetti. Un aspetto teorico relativo all’esigenza di costruire un paradigma della malattia mentale e della sua cura, nella quale il cervello e la mente siano entrambi rappresentati. All’inizio del secolo Bleuler tentò precisamente questa via, e per questo lo abbiamo collocato all’origine della psichiatria contemporanea. Ma da allora non sono stati fatti molti passi in avanti. L’altro aspetto è pratico e riguarda sia la formazione scientifica e professionale dei futuri operatori, sia l’organizzazione dei servizi che si occupano di salute mentale. L’obiettivo è di creare negli operatori – psichiatri, psicologi, infermieri – un atteggiamento mentale più aperto verso le conoscenze e le pratiche altrui, e quindi più disposto alla collaborazione.

Note bibliografiche
1 Bleuler E., Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1985, p.25 (ed. or. 1911).
2 Il concetto di scissione è connesso al nuovo nome, schizofrenia, che Bleuler attribuisce alla patologia che Kraepelin in precedenza denominava dementia praecox. Il termine schizofrenia è un neologismo di origine greca che etimologicamente significa scissione della mente (schìzein, scindere; phrén, mente). Ora ciò che, secondo Bleuler, caratterizza in modo essenziale la schizofrenia è precisamente la scissione dell’attività psichica. Egli scrive: “Chiamo schizofrenia la demenza praecox perché, come spero di dimostrare, una delle sue caratteristiche più importanti è la scissione delle diverse funzioni psichiche” (Ivi, p. 31).
3 Ivi, pp. 226-227.
4 Basti dire che la legge 180 ha rappresentato in Italia il primo importante provvedimento legislativo in materia psichiatrica dopo la legge manicomiale promulgata nel 1904 sulla scorta di una concezione del manicomio e della malattia mentale che risaliva alla prima metà del XIX secolo.
5 Kuhn T.S., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1969, (ed. or. 1962).