La relazione di aiuto nelle comunità per minori
All’interno di una comunità terapeutica che accoglie bambini vittime di maltrattamenti e abusi gli educatori sono, per una parte fondamentale, gli autori e gli attori dei cambiamenti e delle modifiche favorevoli verso la salute che pensiamo di promuovere dentro i bambini.
‘Dentro’, nel senso che il processo educativo fa in modo che i comportamenti esterni dei bambini abbiano un divenire accettabile, orientato alla normalità, ma che soprattutto avvenga una trasformazione di enorme rilevanza: una trasformazione culturale.
E questa credo che sia la pretesa di tutti coloro che oggi nel nostro paese si occupano di minori: in realtà un obiettivo che, quando ben costruito, orientato, sostenuto, motivato, tanto connettivamente quanto emotivamente, può essere raggiunto. Perché si tratta di un obiettivo culturale? Oggi ci occupiamo sostanzialmente di bambini vittime di traumi, cioè di bambini che hanno avuto nella loro vita reale esperienze particolarmente dannose, minacciose per la loro integrità personale e sociale, per la loro individualità. Soprattutto dannose per quell’area molto intima e segreta della loro vita che è l’esperienza della loro relazione parentale.
La cultura e la scienza clinica li definiscono “bambini traumatizzati”, cioè bambini che non hanno costruito solo all’interno della mente un disagio, ma che hanno dentro di sé un profondo disagio strettamente collegabile ad eventi reali dannosi.
Il primo rilievo della teoria del trauma, che peraltro non è nata nel nostro paese ma si è sviluppata in modo serio negli Stati Uniti a seguito degli studi che gli psichiatri avevano condotto sui reduci del Vietnam, ci dice che la prima condizione per portare sollievo e aiuto a un bambino o una persona in generale che porti dentro di sé gli esiti di un trauma è quella di operare un’azione interruttiva sugli eventi traumatizzanti stessi. Questa azione interruttiva si traduce dunque anche in un cambiamento nella vita reale.
Per questo diviene un cambiamento culturale che parte da una cultura orientata fatalmente nel senso della violenza, della trascuratezza, del non rispetto dei diritti, e va verso la protezione, verso la tutela dell’identità della persona. Si tratta di percorsi molto complicati, per seguire i quali è necessario organizzare contesti di vita dove i bambini traumatizzati possano fare esperienze positive opposte rispetto a quelle negative vissute.
Proprio perché parliamo di esperienze concrete di vita, la terapia psicologica deve contare sull’aiuto degli educatori inseriti in una comunità, per i casi più gravi e, nel caso di bambini meno danneggiati deve appoggiarsi al lavoro domiciliare di educatori esperti che compensano l’incompetenza parziale dei genitori.
Quali sono, dunque, il ruolo, la funzione e l’immagine dell’educatore? Nella persona dell’educatore coesistono aspetti professionali multipli, non ultima anche una competenza di tipo clinico, che si sintetizzano in compiti ricchi di impegni e di fatiche.
Se pensiamo al ‘viaggio’ come metafora dell’aiuto ai bambini traumatizzati, mantenendo la stessa metafora, possiamo dire di sapere solo dove l’aiuto comincia, ma non sempre dove porterà. Buoni compagni per i bambini, cioè buoni educatori e, per questi ultimi, buoni supervisori, che li consiglino, li supportino e stiano loro vicino con fiducia, stima e anche con affetto, visto che ci si muove in contesti dove la prima frantumazione è quella dell’affettività e della relazione.
Credo che sia poi importante avere estrema attidudine razionale, realismo critico, progettualità parziale da verificarsi continuamente, crudezza nel vedere gli insuccessi e i limiti e, infine, una competenza soprattutto relazionale.
Proprio in questo aspetto, infatti, si celano le fatiche emotive e psicologiche, i rischi che l’educatore stesso corre nel suo lavoro. Un compito gravoso spesso più per coloro che vivono la frantumazione nell’intervento educativo, che non permette la costanza del divenire e la comprensione riflessiva.
In che cosa consiste, dunque, la comprensione relazionale che chiediamo all’educatore? Deve innanzitutto essere consapevole che le reazioni emotive del bambino non sono in realtà a lui dirette, ma hanno radici lontane: la rabbia contro chi lo ha danneggiato. La comprensione di questo meccanismo, che è la competenza clinica più raffinata e profonda, è allo stesso tempo la sua più potente risorsa. l’estraneità dell’educatore rispetto al trauma permette, infatti, l’aiuto al bambino ed è essenziale per l’instaurarsi di una nuova fiducia verso gli adulti, verso il mondo esterno.
Ugualmente è essenziale costruire relazioni di vicinanza in empatica comprensione e anche di affettività, ma di estremo rispetto, che non siano invadenti, né invasive, ma rispettose della diversità della
sofferenza dei bambini.
La capacità di osservazione relazionale ci deve impedire di confonderci nella disperazione e nella sofferenza.
I bambini devono potersi relazionare con un adulto forte, ma non insensibile, non anaffettivo, per poter esprimere la sofferenza in una dimensione umanizzata. In questo senso la competenza dell’educatore deve essere continuamente vivificata da nuovo sapere e da risorse emozionali.
E’ importante che si individuino contesti di riflessione, di scambio, di aiuto e di supporto per gli aspetti emotivi e di sofferenza che da questo lavoro inevitabilmente provengono. Risulta dunque opportuno che vi sia una rete integrata di intervento e di aiuto, perché la disperazione non sia violentemente buttata sull’educatore singolo. Le leggi, che sono un contenitore fondamentale, vanno viste senza sospetto e comprese bene, perché sono il nostro importante aiuto.
*psicoterapeuta, responsabile del CAF (Centro Aiuto alla Famiglia) – Milano