La relazione terapeutica in un contesto difficile

Adolescenza, dal latino “adolescere”: crescere. E’ una fase di passaggio, un momento particolarmente delicato nel processo di sviluppo: è una tappa cruciale, posta a metà tra l’infanzia e l’età adulta,

in cui il nostro adolescente non è più un bambino ma non è ancora neanche un adulto.
Comprendere, quindi, questo periodo di transizione, mettere ordine in quello sconvolgimento psicofisico che solo gradualmente troverà (e non sempre!) soluzione, costituisce per lo psicologo clinico e per tutti coloro che lavorano con i ragazzi un’impresa non semplice.
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Ancora più arduo è dare una definizione a partire da un osservatorio così complesso come il carcere minorile. Ed è questa indeterminatezza, questa difficoltà a collocarlo/collocarsi in una dimensione temporale definita ciò che, a nostro avviso, costituisce l’essenza stessa della “crisi” che ogni adolescente attraversa e di cui spesso si sente parlare a proposito di questa età. Chi sono i nostri ragazzi, quelli cosiddetti “devianti”? Difficile fare una generalizzazione. Difficile anche pensare a loro semplicemente come ad autori di reato, senza cogliere gli aspetti di sofferenza e di disagio, personale e familiare, e talvolta la patologia, di cui il reato è solo un segnale, quello più eclatante.
Impulsività e aggressività sono elementi comuni a tutti i nostri ragazzi.
Il passaggio all’atto, inteso come tendenza immediata all’azione, che non lascia spazio ai processi di mediazione del pensiero, si configura spesso come modalità privilegiata di espressione dei conflitti e delle angosce. Va detto che, se da un lato tale modalità è piuttosto frequente e rappresenta una caratteristica tipica dell’età adolescenziale, dall’altro la sua ripetizione si connota spesso come manifestazione sintomatica di disturbi anche gravi (ad esempio: depressione, tossicomania, tentativi di suicidio, psicosi, psicopatia, ecc.). Si pensi poi alla aggressività che, all’interno di un carcere, diventa spesso auto-aggressività. Si tratta, in molti casi, di una vera e propria scarica motoria, risposta immediata ad una situazione di tensione, conflitto, frustrazione, unica risposta possibile laddove i processi cognitivi, scarsamente elaborati, non garantiscono un controllo adeguato. Da un punto di vista più prettamente psicopatologico è facile rilevare, a sostegno della scarica autoaggressiva (tagli, bruciature di sigarette, testate o pugni contro il muro sono le manifestazioni più frequenti), da un lato la prevalenza di immagini negative di sé, dall’altro la tendenza estrema del passaggio all’atto come modalità di lotta contro l’angoscia. E ancora: la ricerca di un limite del sé corporeo, l’impossibilità a rivolgere all’esterno l’aggressività in un contesto in cui questa è frenata o impedita, la ricerca di attenzione da parte dell’adulto, rappresentano ulteriori significati di una condotta rilevabile in situazioni di cosiddetto disagio ma, soprattutto, in quadri più francamente patologici.
L’angoscia, la sintomatologia depressiva, la facilità dell’agire e delle condotte autoaggressive, la dipendenza (dalle persone ma anche dalle sostanze), il repentino passaggio dall’idealizzazione (generalmente da un adulto al quale il ragazzo chiede una relazione esclusiva, di dipendenza) alla svalorizzazione (quando l’altro non risponde pienamente alle continue richieste affettive, mostrandosi così “non perfetto”), la scarsa autostima, sono elementi facilmente rilevabili nei nostri adolescenti. Sono caratteristiche che spesso portano a formulare una diagnosi psichiatrica di “sindrome borderline”, frequente ma certamente anche amplificata dalla situazione detentiva. Come dare, allora, una risposta all’interno del contesto carcerario? Si tratta, in ogni caso, di adolescenti che non hanno completato il processo di sviluppo, non sono riusciti a (o non hanno avuto la possibilità di) passare attraverso tutte le tappe evolutive necessarie per il raggiungimento di una reale autonomia. Per gli stranieri il tempo sembra essersi fermato al momento della partenza dal loro paese d’origine; per gli italiani il blocco evolutivo è ricollegabile alla precoce “adultizzazione” cioè all’attribuzione e all’assunzione di compiti e responsabilità non consoni all’adolescenza ma più adeguati all’età adulta. Ragazzi, tutti, che non hanno potuto contare su una “base sicura” familiare, su un sostegno ed un accudimento tali da consentire la graduale realizzazione del processo di crescita e di separazione.
Byng-Hall (1998) parla di “base familiare sicura” per indicare una rete affidabile di cura che fornisce ad ogni membro della famiglia quel senso di sicurezza necessario per consentirgli di esplorare il mondo e di evolvere. All’interno del carcere gli operatori (educatori, psicologi, agenti, ecc.) che lavorano con il singolo ragazzo possono diventare per lui figure di attaccamento temporaneo e fornirgli, per un certo tempo, una base sicura da cui partire per la ricerca di nuove soluzioni. Ma questo, però, rappresenta talvolta una distorsione del mandato sociale ed istituzionale, creando il paradosso di un’istituzione totale alla quale viene implicitamente chiesto di assumere una funzione terapeutica.
Paradossalmente il carcere diventa il contenitore di paure e di angosce, un luogo all’interno del quale si è puniti ma al contempo ci si sente anche protetti. Per gli adolescenti con gravi disturbi di personalità, troppo piccoli per i CPS e troppo grandi per la neuropsichiatria infantile, troppo difficili da gestire per le comunità ma troppo difficili anche per la propria famiglia (quando c’è), il carcere sembra essere, a volte, l’unico posto in cui poter stare. Forse perché qui loro sono obbligati a stare e noi ci sentiamo obbligati a prenderli in carico: loro non possono dire di no, noi, a volte, non sappiamo dire di no. E su questo sembrano incastrarsi bisogni reciproci, del ragazzo e dell’adulto. Ma con quale funzione? E con quale prospettiva o finalità per il singolo e per il gruppo all’interno del quale il ragazzo è inserito? I bisogni di sostegno e di contenimento sembrano qui trovare risposta. E’ l’incontro tra una richiesta impropria, dato il contesto, ed una risposta altrettanto impropria, sempre dato il contesto, che porta però al paradosso di un esito, almeno temporaneamente, positivo del controllo sintomatologico. Con il rischio che si sostanzi l’idea, dentro e fuori l’istituzione, che il carcere funziona anche per quei compiti ai quali non è deputato … Come può rispondere ad un’esigenza di cura e di terapia un contesto che, per sua definizione e per sue finalità, terapeutico non può essere? Eppure a volte succede … Succede forse perché viene accolta la dimensione affettiva implicita nella richiesta di aiuto che accompagna la patologia e questo, ricorsivamente, ha effetto sul sintomo. E succede forse perché l’autoreferenzialità propria dell’istituzione totale porta a sentire di potere/dovere prendere in carico qualsiasi situazione. Ma poi i ragazzi usciranno dal carcere … e l’inadeguatezza del contesto in cui si è ottenuto un risultato per certi versi “terapeutico”, ma soprattutto l’emergenza, all’interno della quale si è definito l’intervento, non consentono di prevedere gli esiti futuri. La sofferenza, per questi ragazzi, costituisce una sorta di “rumore di fondo”, come se fosse parte integrante della propria vita e ad essa ci si fosse abituati. Il paradosso in cui ci troviamo è che il posto peggiore (o perlomeno uno dei posti peggiori) in cui un ragazzo può stare, rischia di diventare l’unico posto in cui la sua sofferenza viene accolta e riconosciuta: è questa la differenza che i ragazzi con gravi problemi psicologici/psichiatrici spesso sperimentano tra il “dentro” e il “fuori”.
Ed è probabilmente su questa percezione che si costruisce il paradosso di un esito positivo. La dimensione drammatica è che alcuni di questi ragazzi sembrano essere disposti ad accettare la sofferenza implicita ed inevitabile all’interno di un carcere pur di ricevere quel minimo di ascolto e di attenzione che altrove non riescono ad avere. Sono i ragazzi che tornano, che dicono di preferire il carcere ad altre soluzioni. Ed è questo il momento in cui ci si rende conto di come tutte le risorse e le energie messe in campo non possono che scontrarsi con la realtà dell’impotenza e del fallimento. Qualsiasi intervento, per essere veramente efficace e dirsi veramente terapeutico deve portare al raggiungimento di una sufficiente autonomia. In questo, il carcere inevitabilmente fallisce, nella misura in cui crea una dipendenza che non prelude, tuttavia, alla rimessa in moto dell’antico processo di separazione-individuazione. Non può farlo, per sua stessa definizione, perché ciò è in contraddizione con la definizione stessa di “istituzione totale”.