La scrittura come riparazione

La scrittura di sé ha molto da dire allo psicoanalista perché l’elemento autobiografico, l’impronta della soggettività, contrassegna la psicoanalisi fin dalle origini sia a livello storico che a livello strutturale; la psicoanalisi è nata attraverso l’autoanalisi di Freud che ha illustrato per la prima volta questo lavoro di scavo interiore e scientifico nelle Lettere all’amico berlinese Fliess (Lettere a Wilhelm Fliess 1887- 1904).

Anche L’interpretazione dei sogni(1899), l’opera fondamentale con cui si inaugura la psicoanalisi alla scienza, mantiene molti di questi elementi soggettivi e personali. Nella prefazione alla seconda edizione del 1908 Freud sottolinea questo aspetto e afferma come sia per lui impossibile occultare queste tracce autobiografiche legate soprattutto alla morte del padre.

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D’altra parte, si potrebbe parlare di un’autobiografia disseminata nel corpus delle opere freudiane, dai Ricordi di copertura (1899) alla Psicopatologia della vita quotidiana (1901), fino al Disturbo della memoria del 1936.
Anche come prassi terapeutica la psicoanalisi passa attraverso la dimensione soggettiva del racconto: non è solo il paziente che parla e che racconta, c’è anche l’elemento della scrittura del terapeuta, il quale scrive, e delle storie che a volte “si leggono come si leggono romanzi” secondo una nota affermazione di Freud.
La psicoanalisi del resto, è una scienza un po’ paradossale il cui statuto è spesso stato contestato proprio perché si tratta di un sapere che parte dal presupposto di un soggetto lacerato, scisso, quindi tutte le sicurezze cartesiane vengono messe in crisi La soggettività in psicoanalisi ha un rilievo da un punto di vista epistemologico, in quanto contrassegna il rapporto soggetto oggetto. Il paziente in analisi non è mai infatti un oggetto passivo, al contrario: contribuisce, agisce, interloquisce, in una relazione di transfert e controtransfert che è fondamentale.
A questo elemento soggettivante e autobiografico della psicoanalisi, cui non è estranea una sorta di impronta di letterarietà, fa da riscontro l’interesse dei letterati, degli scrittori, dei poeti per la psicologia del profondo. Come Freud ha notato molte volte, sono proprio gli artisti e gli scrittori che devono essere considerati i veri scopritori dell’inconscio. Autori come Proust, Kafka, Svevo dimostrano nelle loro opere una familiarità e una competenza nel campo psicologico veramente eccezionali. Questa vocazione degli scrittori per la psicologia si manifesta soprattutto negli scritti autobiografici e ciò ribadisce una volta di più il legame fra autobiografia e psicoanalisi.
Ma anche da un punto di vista più eminentemente teorico, la psicoanalisi ha qualcosa da dirci circa il bisogno di scrivere dell’uomo e, richiamandoci a Freud, possiamo distinguere al meno due diverse prospettive che si intrecciano. La prima, enunciata da Freud nel saggio del 1907, Il poeta e la fantasia, parte dal presupposto che l’uomo ricorra alla dimensione del racconto (e in generale dell’immaginazione) per appagare quei desideri che la realtà tende invece a frustrare, inventandosi una realtà più bella e più gratificante. Questa concezione dell’appagamento sostitutivo è all’origine di uno dei filoni fondamentali delle ricerche psicoanalitiche sull’arte, che spesso ha però riduttivamente coinciso con l’interesse per l’elemento meramente patografico. In verità Freud ha sempre sottolineato come questo bisogno di correggere la realtà e inventarsi una vita più bella non sia solo da ricercare nelle private frustrazioni che appartengono alla storia dei singoli artisti ma è qualche cosa di connaturato all’uomo. Il quale, dice Freud, avrebbe avuto bisogno di vivere più vite ed è costretto a viverne una sola; in questo senso la letteratura, il teatro e la scrittura possono aiutarlo a ritrovare quella “pluralità di vite” di cui ciascu- no di noi sente l’esigenza.
La seconda prospettiva ci riconduce all’idea che la scrittura, o in genere altre forme di espressione artistica, nascano da un’esigenza di difesa: si scrive per cercare di elaborare un trauma, un affetto, un dolore, un senso di angoscia, di paura. Si tratta quindi di una Scritturi come riparazione, titolo di un mio libro in cui ho analizzato questa prospettiva (Laterza 1994).
La scrittura diventa cioè un modo per elaborare un lutto, una perdita drammatica – come quella legata alla morte di una persona – ma anche, in senso più lato, una perdita che riguarda il sé. Il lutto può essere quindi considerato come uno dei meccanismi di difesa fondamentali, come una specie di modello o paradigma di ogni elaborazione psichica. Il lavoro del lutto consiste essenzialmente in un disinvestimento: tutta la Libido che è rimasta fissata all’oggetto amato e perduto deve tornare nella disponibilità dell’Io ed è questo un “lavoro” estremamente doloroso che procede in maniera lenta e graduale. Solo in questo modo l’lo può produrre nuovi investimenti, può tornare a vivere, ad amare.
Il lavoro del lutto inizia però solo quando la perdita viene realizzata e accettata. Il primo gradino è quindi l’accettazione. Il paradosso del lavoro del lutto, per usare un’espressione di Proust, è che si guarisce da una sofferenza a patto di sperimentarla pienamente. Fuga, negazione, oblìo, sono intralci al percorso. Il dolore è funzionale al lavoro del lutto. Veicolo di questo dolore e, al tempo stesso, strumento per il suo superamento è il ricordo. Chi è in lutto non può fare a meno di ricordare tutto ciò che riguarda l’oggetto della perdita. Ebbene la scrittura può rappresentare un mezzo privilegiato di questo percorso. La memoria, con i suoi frazionamenti, le sue sequenze e intermittenze (si pensi ancora una volta alla lezione di Proust) costruisce delle sponde, dei contenimenti al libero fluire del nostro dolore. E la scrittura della memoria raddoppia e consolida questa funzione di elaborazione e oggettivazione. Quello che possiamo dunque definire il lavoro della scrittura agisce a tre livelli: funzionale, contenutistico, e stilistico- formale.

Il livello funzionale

Per quanto riguarda il primo livello, che ho definito funzionale, la capacità riparativa della scrittura sembra soprattutto collegata a quel piacere di scrivere di cui esistono svariate testimonianze e che è essenziale all’economia della riparazione in quanto contribuisce ad alleviarne e a temperarne le asprezze. Esso deriva a sua volta dall’appagamento di quel “bisogno di espressione” che precede ogni esigenza di comunicazione ed è sostanzialmente indipendente dal contenuti.
La scrittura comporta innanzitutto un sollievo che deriva all’apparato psichico dalla scarica psicomotoria legata alla pura materialità del gesto grafico. Solo in un secondo momento essa rispecchia e ripete le funzioni della concettualizzazione e della verbalizzazione che costituiscono un articolato processo di incanalamento e di imbrigliamento della tensione psichica. In questo senso la scrittura ha lo scopo di materializzare e contenere un eccesso di tensione, contribuendo a metabolizzare e, per così dire, psichicizzare l’esperienza traumatica.

Il livello dei contenuti

Per quanto riguarda più propriamente la riparazione connessa ai contenuti traumatici, possiamo distinguere due diversi meccanismi che agiscono in modo complementare; in termini freudiani possiamo parlare di abreazione collegata alla scarica emozionale proveniente dall’evocazione dell’evento traumatico; e di un lavoro del lutto in senso proprio, relativo alla descrizione minuta e particolareggiata del fatto traumatico, che mediante la scrittura viene ripetuto attraverso un processo lento e puntuale di elaborazione psichica, dove l’affetto risulta parcellizzato e neutralizzato in ogni sua diversa componente. Un perfetto corrispettivo di questa funzione lo troviamo nella scrittura del diario, cioè quella tendenza alla ripetizione, che si esprime attraverso un ritmo lento e protratto. Questa scrittura sembra infatti rispecchiare direttamente quasi senza mediazione, come allo stato primitivo, i percorsi di quello che Freud definisce %l lungo e graduale processo del lavoro dei lutto”.

Il livello stilistico-formale

Per quanto riguarda questo terzo livello, il processo riparativo è sostanzialmente legato al rispetto di determinate regole e norme di carattere ampiamente estetico.
Da una parte lo sforzo connesso alla ricerca
delle parole più efficaci sottrae energia al dolore, creando un automatico effetto di distanza psichica, che contribuisce all’oggettivazione dell’esperienza. D’altra parte il problema della forma si iscrive naturalmente nell’orizzzonte della comunicazione: si tratta di riuscire a rendere partecipe della nostra esperienza il lettore attraverso la ricerca di una forma e uno stile, di un equivalente adeguato a quell’esperienza che cerchiamo di descrivere e che ci riguarda così da vicino.
Il senso di verità e di autenticità delle nostre esperienze più private può essere trasmesso agli altri solo attraverso una rielaborazione di carattere retorico-formale che coincide con una sorta di riscrittura e reinvenzione dell’esperienza stessa.
Il processo della scrittura comporta, una sorta di sdoppiamento tra l’io che vive e l’io che scrive, tra l’io passivo che subisce l’esperienza traumatica e l’io attivo che la elabora e la controlla, attraverso un processo di simbolizzazione. Questo sdoppiamento è tale anche nel senso che all’interno del processo di scrittura viene attivata e percepita dall’Io che scrive una sorta di istanza osservativa.
Questo meccanismo, da un lato presiede alla coscienza dell’illusività insita in ogni atto di rappresentazione e duplicazione della realtà, che corrisponde a un’intrinseca derubricazione e neutralizzazione della realtà stessa, la quale, per quanto traumatica, viene vissuta come fittizia; dall’altro consente uno spostamento dell’investimento psichico dall’Io a quello “spettatore imparziale” (come lo chiama Freud), che osserva i fatti senza esserne direttamente coinvolto e protegge così l’Io dalle offese della realtà. Questa istanza osservativa sta all’origine e in fondo coincide con il Super-io, in relazione al quale il processo di scrittura si compie. Le funzioni del Super-io sono molteplici: può fungere da regista sia psichico che stilistico del processo di rappresentazione. Esso infatti non solo regola e controlla l’emozione – consentendo l’oggettivazione dell’esperienza traumatica trasformata in una semplice rappresentazione – ma innesca anche una specie di transfert già a partire dal livelli più elementari di scrittura. Il Superio assume oggettivamente un compito di mediazione tra le pulsioni interne, private del soggetto e le esigenze istituzionali del mondo esterno che per quanto riguarda la scrittura sono espresse da norme e precetti stilistici. In questo senso il Super-io controlla e dirige anche i processi formali, per ottenere quell’avallo di cui l’Io ha bisogno. Un avallo tuttavia che non agisce solo a livello formale ma pure affettivo. E’ noto che anche nella scrittura più privata, come quella del diario, esiste sempre un destinatario privilegiato che ha attributi che stanno a metà tra la realtà e l’idealità, un destinatario reale, cioè, che viene investito anche del carattere simbolico di un Super-io positivo ( il “padre”, il maestro, l’amico stimato). E’ questa specie di Super-io in carne ed ossa che consente di innescare qualcosa che assomiglia a un transfert. Quanto più dunque questo Super-io diventa simbolico, tanto più la scrittura si avvicina a uno statuto letterario: ecco che, anche da questo punto di vista, a partire da premesse puramente psicologiche, essa tende a diventare letteratura.

Autobiografia e riparazione

Abbiamo visto che il modello più esplicito di scrittura come riparazione lo si trova in quella che ho chiamato la “scrittura privata dell’io”; c’è una naturale tendenza di questa scrittura a rovesciarsi in letteratura, innescando dinamiche di tipo transferale. Semplificando e forzando un po’ i termini della questione, ci troviamo di fronte a due possibili opzioni: quella che trasforma la scrittura privata dell’io in vera e propria autobiografia e quella che la trasforma in romanzo (autobiografico). Sempre a livello schematico, possiamo individuare una duplice serie di motivi alla base del carattere riparativo dell’autobiografia propriamente detta:
1. Innanzi tutto esso è dovuto al fatto che l’autobiografia comprende e in un certo senso enfatizza tutti gli elementi riparativi della scrittura privata dell’io (abreazione, ripetizione, finzione … tipici della scrittura del ricordo).
In essa inoltre gioca un ruolo particolarmente importante il rapporto con l’altro: l’autobiografia è infatti espressamente rivolta a un pubblico. Ma se nel caso del diario, a prescindere dal suo carattere segreto, si poteva comunque parlare di un “destinatario privato”, di esso si può ancora parlare nel caso dell’autobiografia e del romanzo in generale, nel senso che per l’autore, dietro a un pubblico anonimo, si nasconde sempre anche una persona precisa…
2. Determinanti nell’autobiografia sono però anche la radicalità e la solennità del suo gesto retrospettivo che mira a ridare senso e significato a tutto ciò che si è vissuto. E’ un compito importante, che matura attraverso un progetto molto impegnativo e che si sviluppa in un ampio arco di tempo: è un lavoro lungo scrivere un’autobiografia… Inoltre, chi scrive un’autobiografia è come se pensasse che solo ciò che viene scritto ha un senso. Scrivere è un modo per sottrarre la propria vita al caso e dare significato anche al proprio dolore, alla propria malattia, all’impressione di avere sprecato la propria esistenza… Illuminante è la testimonianza di Zeno ne Le confessioni del vegliardo, dove dice che gli sembra di avere vissuto solo la vita che ha descritto perché raccontandola la vita si idealizza. E questo è vero anche nel senso che il ricordo e la scrittura rendono più intense, più vere, più autentiche le nostre emozioni. Ma in questa radicalità sta anche in parte il limite dell’autobiografia e la sua tendenza a rovesciarsi in romanzo (autobiografico). Proprio perché abbiamo una sola vita da raccontare, l’autobiografia acquista una grande solennità, ma nello stesso tempo ciò ne sancisce il limite: l’uomo vorrebbe avere mille vite non solo da vivere, ma almeno da raccontare. E ciò glielo consente appunto il romanzo. Inoltre il ‘romanzo’, e in particolare quello autobiografico, proprio in quanto espressamente romanzo, cioè finzione, permette di esprimere gli eventi e i sentimenti più privati e segreti in modo più diretto e autentico perché agisce quella coscienza dell’illusività che funziona come una sorta di negazione preventiva. Allora, da questo punto di vista, il romanzo autobiografico può essere più autobiografico della stessa autobiografia che, presentandosi come verità e non come finzione, attiva tutta una serie di difese e resistenze, di cui psicologi e critici sono ben consapevoli.