La scuola e il teatro secondo Ottavia Piccolo

 

Il punto di vista di un’attrice del teatro “dei grandi” … in tutti i sensi

 

 

Dopo aver pubblicato vari pezzi sul teatro, sul rapporto scuola-teatro e sul valore pedagogico del teatro, questa volta ci sembrava opportuno fare parlare finalmente chi il teatro lo fa e lo vive dal suo interno, cioè un attore. Visto che sul numero scorso avevamo riferito dell’Istituto di sperimentazione e diffusione del Teatro per i ragazzi di Padova, siamo andati a intervistare Ottavia Piccolo, da un anno direttore artistico del Festival nazionale del Teatro che, promosso dallo stesso istituto, e diventato una tradizione, si tiene ogni autunno nel capoluogo veneto.

Romana, da diciotto anni a Milano, un figlio di 23 anni, Ottavia Piccolo è un’istituzione del teatro e del cinema italiani. La sua è una carriera che senza esagerare si potrebbe dire clamorosa: dopo il debutto in teatro a dieci anni in Anna dei Miracoli, con la regia di Squarzina, ha proseguito la sua carriera diretta da registi del calibro di Visconti e di Strelher, senza trascurare, più tardi, nemmeno la televisione. Eppure, Ottavia Piccolo, nonostante porti con sé oltre tre decenni di storia del palcoscenico, è un’attrice, e prima ancora una donna, giovane, che trasmette una vitalità eccezionale e grande entusiasmo. Completamente lontana da qualsiasi atteggiamento da star, confessa che rispetto a qualche anno fa, si permette di dire di no a qualche ruolo e si concede molte più vacanze. Ma come mai un’attrice famosa, “arrivata” e amata dal grande pubblico ha deciso di occuparsi di teatro per ragazzi?

«Molti – ci dice Ottavia Piccolo – sia tra gli attori che tra il pubblico, pensano che il teatro per ragazzi sia un teatro minore, dove affluiscono quei professionisti che non hanno fortuna nel teatro tradizionale, quello per adulti. Credo che questo sia un grosso errore, perché il teatro per ragazzi è un teatro del tutto indipendente, con la sua dignità, adatto ad essere interpretato da bravi professionisti, anche perché i giovanissimi sono un pubblico sensibile, attento ed esigente. Quando
mi hanno offerto di occuparmi del Festival internazionale di Padova, sono stata ben felice di accettare, anche perché per me si trattava di un’esperienza nuova, sia come attrice che come spettatrice. Fin da bambina, infatti, mi sono stati affidati ruoli nel teatro “dei grandi”».

Come ha vissuto allora l’essere una giovane attrice e qual era il suo rapporto con il teatro da spettatrice?

«Sono diventata attrice per caso. Non c’era tradizione nella mia famiglia: mi sono trovata coinvolta in un mondo nel quale mi sono sentita subito bene. Sono diventata attrice prima di essere spettatrice: il mio primo spettacolo dalla platea l’ho visto qualche anno dopo aver incominciato a lavorare. A poco a poco il teatro è divenuto una scelta totalizzante che mi ha insegnato la vita: ancora bambina non mi sono mancati i momenti di gioco, grazie all’aiuto della mamma. Subito dopo, gli attori, la gente del teatro, sono diventati anche i miei amici. L’ambiente teatrale ha una particolarità in questo senso: è intragenerazionale, non esistono le età, i giovani, i vecchi; esistono le persone che si frequentano e si confrontano».

Come si è comportata, a sua volta, da mamma? Qual è il rapporto che suo figlio ha con il teatro?

«Non è un attore, ma un musicista, si è diplomato al conservatorio. Il teatro fa parte della vita della nostra famiglia. Quando mio figlio era piccolo, me lo portavo nelle tournée estive; ma d’inverno, perché era più complicato e rischioso, lo lasciavo con la nonna. Devo dire che il suo amore per il teatro è nato naturalmente. A questo proposito, mi ricordo un episodio particolare. Una volta la nonna portò mio figlio a messa: io non ce l’avevo mai portato. Quando la nonna gli disse «devi stare in silenzio», lui rispose «sì, ho capito, come in teatro!». Questo aneddoto dà l’idea di come il teatro si sia intrecciato alla nostra vita in modo del tutto spontaneo».

Che cosa pensa del teatro a scuola? Può essere uno strumento didattico, oppure, come sostiene qualcuno, la scuola trasmette modalità di approccio in qualche modo sbagliate che finiscono per allontanare i bambini dal teatro?

«Mi sono accorta, frequentando le scuole, dell’ignoranza che imperversa soprattutto tra molti insegnanti. Magari fanno recitare i bambini e li portano a teatro, ma in modo del tutto impositivo e spesso episodico. Certo, qualche insegnante è più sensibile. L’azione dell’Istituto di diffusione del Teatro è un esempio corretto di avvicinamento della scuola al palcoscenico: agiscono sul territorio in modo costante e continuativo, così il teatro diventa una scelta. In Italia esistono 700 compagnie che dichiarano di fare teatro per ragazzi, ma spesso la qualità è scarsa, perché non ci sono regole precise, ma tanta confusione. Naturalmente, esistono operatori bravissimi che fanno cose egrege. Uno degli obiettivi a Padova è arrivare a eliminare la distinzione tra teatro per adulti e teatro per ragazzi, almeno dal punto di vista della qualità dell’offerta, che deve essere sempre alta, davanti a qualsiasi pubblico: i bimbi di oggi saranno gli adulti di domani».

Secondo lei, qual è la causa dell’approccio sbagliato trasmesso dalla scuola?

«Credo che le modalità di approccio siano sbagliate alla loro base: si presenta il teatro come fatto di cultura, come un qualcosa che deve essere imparato a memoria come una poesia. Questo allontana più che mai i ragazzi. Credo, invece, in un approccio emozionale al teatro, che è espressione si sé, rappresentazione dei pensieri e degli impulsi umani, modo di autoconoscersi e di raccontarsi. In questo senso, sono contraria alle improvvisazioni, al fare teatro a tutti i costi, perché può essere più negativo che positivo, lasciando un’idea e delle sensazioni sbagliate, non corrispondenti a quello che il teatro è o può essere».

Qual è il suo punto di vista sulla televisione?

«Credo che di per sé non sia né buona né cattiva. Va maneggiata con cura da adulti responsabili: i figli vanno educati all’uso della televisione e, soprattutto, non vanno lasciati mai soli. Inoltre, siamo noi genitori a dover dare per primi l’esempio di come la televisione va utilizzata, magari non mangiando con questa accesa o non standoci troppo davanti, guardando cose che non abbiamo scelto, ma che, in qualche modo, lasciamo che ci piombino dentro casa».

Dai suoi inizi ad oggi quali sono i cambiamenti più evidenti che ha potuto vivere nel mondo del teatro?

«Io ho conosciuto il teatro più tradizionale, quello delle cosiddette “compagnie di giro”. Quando ho incominciato, i teatri stabili erano legati in qualche modo a un teatro più politico. Ho visto morire il teatro degli attori e consolidarsi il teatro di regia. In questi ultimissimi anni mi sembra che vi sia la tendenza da parte degli attori a riappropriarsi di un loro ruolo, ma io, personalmente, mi sento legata al teatro di regia. D’altra parte, è innegabile che è finita un’epoca: ora noi attori siamo meno legati al regista, anche perché mancano nuove figure di grande rilievo. Anche il pubblico è cambiato: al teatro chiediamo quelle emozioni che non riusciamo più ad avere dalla televisione. Le richieste di oggi sono sicuramente diverse da quelle di qualche decennio fa. Forse il teatro di domani dovrà riunire tutte le forme e i generi di arte, la musica, la danza. E’ singolare pensare come un concerto di musica rock sia molto più vicino ad una tragedia greca così come veniva rappresentata in età classica, di come venga rappresentata nel teatro tradizionale di oggi. Penso che il teatro si debba aggiornare perché i giovani ci vadano, cessando di essere anacronistico. Vanno ripensati i codici comunicativi ed espressivi. Bisogna accettare, poi, che il teatro è un fenomeno di élite, non di un’élite di ricchi, ma di gente che lo sceglie consapevolmente».