Le identità inventate

Alcune riflessioni sulla formazione degli educatori sociali in ambienti fluidi.

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Derive

Abito in un quartiere della Vecchia Milano, poco distante dal Naviglio, luogo simbolo della storia e dell’evoluzione di questa città. Quando mi trasferii nella zona, mi colpì la presenza di sedie, disposte negli angoli dei molti piccoli negozi che popolavano le strade.
Sedie in salumeria? Un’immagine strana, per chi – come me – è abituato a fare la spesa in maniera frettolosa, con la mente occupata dai pensieri del lavoro.
Quelle sedie, (destinate ad accogliere gli anziani nell’attesa, ma anche gli amici e i professionisti del pettegolezzo e dello sport) mi segnalavano che in quegli esercizi non si produceva solo uno scambio di merci. In quei luoghi era possibile sospendere per qualche attimo gli affanni della giornata, per partecipare ad uno scambio umano fatto di racconti, di battute, di chiacchiere.
Ora che il mio quartiere è apparso sulle prime pagine di tutti i giornali e sulle aperture dei TG, grazie agli scontri fra gruppi di cittadini residenti e alcuni cittadini stranieri, rifletto sulla scomparsa delle sedie, conseguenza anche della chiusura e della trasformazione di molti di quei negozi.
Non è ragionevole ipotizzare una qualche relazione fra i due fatti. Ho però l’impressione che la sparizione delle sedie – che ha preceduto di molti anni i famosi episodi – sia stato un piccolo, ma espressivo, sintomo dello sfilacciarsi delle relazioni e della vita del quartiere.
I rioni della Baia del Re, della Via Spaventa, della Via Meda, stanno modificando la loro fisionomia, il loro tessuto, la loro identità. Una trasformazione a cui andrà ascritta anche la cronaca dei conflitti e degli atti d’insofferenza che ha visto scendere per strada numerose persone.
Leggendo gli articoli, seguendo le dichiarazioni di cittadini, amministratori, politici, ascoltando le descrizioni televisive di quei giorni, sono rimasto colpito nello scoprire che queste zone appartengono alla periferia della città. Posso assicurare che Piazza del Duomo dista da Via Spaventa venti minuti di tram – senza traffico – e venticinque minuti di bicicletta. L’attributo “periferico” non è dunque una caratteristica spaziale, ma, probabilmente, l’interpretazione di una lontananza d’altro genere. Suggerisce quasi l’immagine di una deriva. I giornalisti, gli amministratori, gli stessi cittadini, esprimono con il termine “periferia” la percezione di un movimento in atto, un allontanamento da qualcosa di solido e sicuro, una specie di naufragio. Un sentimento che deve aver attraversato anche la mente di quei miei agitati concittadini che sono scesi in strada con l’ardimentoso proposito di salvarsi dai marosi delle “ondate migratorie”.

Multicultura e intercultura

L’OFAJ (Ufficio Franco Tedesco per la Gioventù) nato nel 1961, è una delle prime istituzioni sovranazionali europee. Né francese, né tedesco, è finanziato in parti uguali dai due paesi e gode di una notevole autonomia. E’ una delle più accreditate sedi europee per lo studio della dimensione interculturale. I suoi studi e le sue iniziative sono diretti a individuare le strategie per gli educatori dei giovani in un’Europa multiculturale. I fondamenti teorici delle sue ricerche operano una distinzione rilevante fra il concetto di multiculturalità e quello d’interculturalità. La prima è una situazione di convivenza territoriale, data dal fatto che – per un’infinità di ragioni – consistenti gruppi di individui appartenenti a una cultura si trovano a contatto con consistenti gruppi di persone appartenenti a una o più culture. La dimensione interculturale si produce all’interno della situazione multiculturale allorché alcuni elementi – simbolici, linguistici, comportamentali, istituzionali – si modificano e giungono a creare delle nuove produzioni, diverse dalle precedenti, ma in relazione con gli elementi che le hanno generate e da questi elementi fortemente influenzate.
La dimensione interculturale richiede una lavorazione, è una conquista d’ordine superiore, un atto fortemente creativo, che sospende (senza negarli) i legami con il primitivo gruppo di appartenenza, per reinventarli. La situazione interculturale è fortemente favorita quando nascono vincoli e interessi collettivi d’altro tipo rispetto alle appartenenze precedenti, siano queste etniche, di genere, di censo.
La dimensione interculturale non è – di per sé – una condizione felice.
Essa è fortemente esposta, facilmente conflittuale, perchè legata alle dinamiche dei riferimenti d’origine. Essa porta le persone a interrogarsi sulla propria dimensione identitaria. E – come si sa – l’identità è un po’ come il fegato: si percepisce solo quando fa un po’ male. La dimensione interculturale è esposta a sensi di colpa, a vissuti di tradimento; allo stesso modo essa può assumere connotati di desiderio esotico e trasgressivo perchè legittima la rottura di ordinamenti insoddisfacenti e soffocanti.

Legami civili

I legami sociali e culturali sono vincoli dalla natura particolare. Già Sigmund Freud ci metteva in guardia verso le componenti irrazionali e primitive contenute nel legame collettivo. E’ noto che egli nutriva riserve e sospetti nei confronti dell’evoluzione culturale. La cultura è, a suo parere, un veicolo necessario e ineludibile per l’aggregazione umana e lo sviluppo civile, che però comportava una quota, non indifferente, di aumento costante del carico di angoscia e – diremmo oggi – di stress. I meccanismi psichici alla base dei legami degli individui nella civiltà rivelano, a un’attenta analisi psicanalitica, la loro analogia con le modalità del pensiero infantile e psicotico.
Le fondamenta dell’identità culturale sono situate nell’elaborazione operata in età precoce di pulsioni narcisistiche. Freud sottolinea la natura compensatoria dell’identità culturale. Le ferite narcisistiche provocate all’Io, dai rimproveri e dagli ammonimenti provenienti dai genitori e da tutta la schiera dei loro sostituti (educatori, maestri, pubblica opinione…), promuovono lo spostamento dei desideri di onnipotenza infantile verso una costruzione immaginaria e ideale, costruita per imitazione, cui l’Io ritiene di somigliare. “A quest’Io ideale si rivolge ora quell’amore di sé di cui l’Io reale ha goduto nell’infanzia” (Freud [1914]: 48).
Questa dinamica rende particolarmente salde le identificazioni nelle caratteristiche della comunità di appartenenza e, oltre ad assumere una funzione di “normalizzazione libidica” delle pulsioni amorose e narcisistiche, provoca la nascita e la condivisione di ideali collettivi.
Ideali che a loro volta divengono causa di scissioni e inimicizie fra ambiti sociali e nazionali, data la loro componente erotico-narcisista- delirante. “Nella palese avversione e ripugnanza per l’estraneo con cui siamo a contatto è avvertibile l’espressione di un amore per noi medesimi, di un narcisismo che tende all’autoaffermazione e si comporta come se la mera presenza di uno scostamento dalla propria linea di sviluppo implicasse una critica a questa e un invito a modificarla” (Freud [1921]: 33).
A nulla valgono i proclami alla ragionevolezza. L’esame della realtà è sempre destinato a soccombere se non comprende la natura libidica del sociocentrismo. L’unica forza che può allentare seriamente i legami collettivi è un desiderio pulsionale contrastante. Primo fra tutti: l’esperienza amorosa. Tradizionale antagonista delle relazioni sociali, l’amore – quello concreto, corporeo, istintuale – mina i legami collettivi e pertanto viene da questi temuto, regolamentato, ordinato.
Anche le ricerche della psicologia sociale mettono in evidenza la complessità della percezione di sé in termini culturali. L’etnocentrismo si costituisce in stati di vita molti precoci, in fasi del pensiero in cui la “valutazione precede la comprensione”. A sette anni la maggior parte dei bambini possiede un concetto di nazione rudimentale accompagnato da una preferenza molto cristallizzata verso il proprio paese. Lo psicologo Tajfel – la cui opera vuole fornire un contributo scientifico alla lotta e alla comprensione dei fenomeni del razzismo e dell’antisemitismo – mette in luce i processi di categorizzazione
operanti nelle percezioni sociali. Egli elabora un modello concettuale per evidenziare i continui mutamenti nelle relazioni fra gruppi. In sintesi mostra come la percezione di sé e degli altri possa essere basata su categorizzazioni interpersonali o categorizzazioni intergruppo. E’ possibile immaginare una sorta di continuum al cui estremo sta un comportamento “genuinamente” interpersonale e all’estremo opposto un comportamento intergruppo.
Va notato che il primo estremo è solo ipotetico in quanto non sono possibili esempi reali. “E’ impossibile immaginare un incontro sociale tra due persone che non venga influenzato, almeno in minimo grado, dalle attribuzioni di soggetti a una varietà di categorie sociali nei cui confronti – nella mente di coloro che interagiscono – non esistano almeno delle aspettative generali” (Tajfel [81]: 362). Mentre per l’estremo intergruppo è possibile un esempio: “l’equipaggio di un aereo da combattimento che sta bombardando un obiettivo della popolazione nemica” (Tajfel [81]: 362).
Più ci avviciniamo all’estremo intergruppo maggiore sarà la tendenza a trattare i membri del gruppo come elementi indifferenziati di un’unica categoria.
Anche la teoria di Tajfel mette in evidenza che i proclami e gli appelli alla solidarietà, alla ragione, all’evidenza percettiva, hanno scarso gioco nel contrastare le tendenze alla categorizzazione. Anzi spesso la logica dei proclami, basata su concetti universali, su categorie generali, su principi morali, sposta i processi di categorizzazione verso il versante intergruppo, che è il versante in cui hanno buon gioco i pregiudizi e gli stereotipi. Il pregiudizio può essere contrastato solo spingendo le relazioni sul versante della concreta percezione interpersonale, ma questa operazione non sempre è possibile perchè influenzata dalle rappresentazioni dei movimenti sociali in corso.
Il lavoro formativo sulla dimensione interculturale richiede dunque la messa fra parentesi di atteggiamenti moralistici e declamatori, richiede anche, per certi versi, la sospensione della fiducia incondizionata nelle capacità dell’intelletto. E’ necessaria l’attivazione di un altro tipo di ragione: una ragione meno superegoica, che non propone modelli ideali o ordinamenti normativi, ma accetta contraddizioni, paradossi e precarietà della dimensione interculturale. Un pensiero che riesce a cogliere e a dare voce alle ragioni contenute negli affetti, nelle emozioni, nelle paure e nei desideri, che la situazione multiculturale può suscitare.
Un pensiero che, prima ancora di proporre l’accettazione della differenza, si accetta differente, si fa esplorativo, dialogico, discorsivo.

Distanza e prossimità

Ho avuto il piacere di far parte di un’équipe internazionale che ha realizzato un progetto di ricerca sulla relazione fra l’identità personale e quella culturale. Il gruppo dei ricercatori, oltre alle competenze professionali (pedagogiche, psicologiche, storiche, artistiche), metteva a disposizione una discreta dose di sensibilità alle derive identitarie; era composto infatti da persone che a vario titolo – familiare, professionale, abitativo – si trovavano in una situazione esistenziale multiculturale.
Il progetto è nato nel quadro degli studi dell’OFAJ ed è stato coordinato dalla Cattedra Europea Jean Monnet dell’Università di Amburgo. Fra gli scopi del lavoro, quello di fornire strategie, metodologie, riflessioni per la formazione degli operatori socioeducativi. Oltre alla facoltà di pedagogia sociale di Amburgo, hanno partecipato al progetto la facoltà di professioni sociali di Lille e la scuola regionale per operatori sociali del Comune di Milano in cui insegno. Una presentazione parziale dei contenuti è apparsa in Italia sulla rivista Arti Terapie (n. 2/95, n. 3/95, n. 2/98); la presentazione conclusiva della ricerca avrà luogo in Luglio, a Parigi, in occasione del VII convegno dell’Associazione per la Ricerca Interculturale dedicato ai “Saperi interculturali”.
L’orizzonte scientifico del percorso d’indagine è ispirato alle teorie dello psicologo sociale francese Jacques Demorgon. Per Demorgon gli esseri umani si servono di tre operazioni fondamentali per affrontare realtà quali culture, istituzioni, persone: generalizzazione, particolarizzazione, singolarizzazione.
La generalizzazione consente di “stabilire delle caratteristiche comuni fra diversi elementi”, la particolarizzazione consente di “stabilire delle differenziazioni raffinate fra i vari elementi”, la singolarizzazione ci permette di “scoprire ogni elemento come un sistema evolutivo complesso” in relazione costante con le componenti interne e esterne al sistema.
Esempi di generalizzazione sono “i membri della famiglia”, la “gente del quartiere”, “parigini”, “francesi”, “l’umanità”.
Esempi di particolarizzazione: “rispettare i diritti di una minoranza etnica”, “scoprire in una classe differenti stili cognitivi”, “identificare le caratteristiche di un gruppo sanguineo”.
La singolarizzazione richiede entrambe le precedenti operazioni. Un esempio di un processo di singolarizzazione potrebbe essere quello di una persona che riflette sulla propria appartenenza culturale, che cerca di comprendere all’interno della propria storia gli elementi che lo hanno condotto a quell’adesione, s’interroga e mette in luce le conseguenze di quella relazione. La singolarizzazione richiede un vissuto (nozione di implicazione) e una presa di distanza in rapporto al proprio vissuto (nozione di distanziamento). Il processo di distanziamento necessita supporti di “rappresentazione simbolica” per stabilire e riconoscere legami – costruiti dai soggetti – fra storia personale e storia collettiva, legami che sono la base del divenire culturale.
Nella nostra ricerca questi supporti hanno fatto appello principalmente ai linguaggi estetici (scrittura autobiografica e poetica, scultura e pittura, rappresentazione teatrale). Questo perchè il segno artistico è un classico esempio di operazione di singolarizzazione. L’arte è un linguaggio che si rivolge a tutta l’umanità, ma che esalta la particolarità del suo creatore. Le opere d’arte sono contemporaneamente dentro e oltre una cultura. E’ riconoscibile nel segno estetico, il contesto culturale (la cui condivisione è necessaria per una totale comprensione dell’opera), la personalità dell’artista (che rende l’opera unica e irriproducibile), la possibilità di dialogo transculturale (che ci fa apprezzare le opere del passato e delle culture a noi più lontane). I laboratori artistici hanno permesso, agli studenti dei corsi per operatori sociali che hanno preso parte alla ricerca, di riconoscersi come creature e come creatori di cultura. Un esempio fra tutti quello di Martine, studentessa francese, che ha conosciuto l’Algeria – paese della sua famiglia – solo attraverso le rappresentazioni dei famigliari e dei media. Attraverso le sue produzioni ha osservato e raccontato il ruolo della storia dei suoi due paesi d’origine – Francia e Algeria – nelle relazioni stabilite all’interno della famiglia e nella percezione di sé

L’identità inventata

La dimensione interculturale mette in crisi il concetto di identità come l’abbiamo conosciuto finora in occidente: un modo di intendere la percezione di sé (ma anche della propria nazione, della propria comunità), costruita intorno a un “centro” a partire dal quale misurare le trasformazioni e le mutazioni del proprio stato.
Un’ idea sulla quale sono stati costruiti gli ideali nazionali che hanno concorso alla creazione di buona parte degli stati europei. Un’idea che plasma il sentimento di sé delle singole persone. Il risultato è una reificazione dell’identità, come se la rappresentazione di sé fosse una cosa che si può toccare, osservare senza modificare, conservare senza mutare. Sbarazzarsi di questa visone irrigidita, moralistica, monocentrica, dell’identità è uno dei compiti fondamentali, ma anche più complessi, della formazione all’interculturalità. Certo la conoscenza delle altre culture, dei modi di vivere diversi da noi, la scoperta di usi e costumi distanti dai nostri, sono momenti essenziali e indispensabili di apprendimento cognitivo e di valorizzazione culturale, in una situazione multiculturale. La cultura appare nella sua componente di costruzione simbolica collettiva e in quanto tale viene relativizzato il sociocentrismo e acquistano valore le differenze.
Ma in quel “noi”, in quel “nostri”, in quel “altre” rischia di celarsi un rinforzo del delirio d’onnipotenza narcisistico nascosto nella percezione culturale di sé. La cultura è un artificio, una costruzione simbolica, un’invenzione. Non per questo perde la sua importanza e la sua potenza. E’ un creazione collettiva in grado di influenzare e condizionare i comportamenti delle persone. L’acquisizione successiva, sulla via dell’interculturalità, è il riconoscimento dell’identità (della propria personale rappresentazione di sé) in termini di artificio e invenzione. Ciò
rende possibile lo svelamento del proprio contributo – consapevole e inconsapevole – alla costruzione culturale. Uno svelamento che può avvenire solo riflettendo sulla propria storia, riconoscendo la propria vita come quella di un sistema (biologico e simbolico) in continuo mutamento e evoluzione. L’osservazione del divenire della propria esistenza è più funzionale per l’acquisizione delle competenze interculturali, che uno studio neutro e cognitivo delle culture “altre”. Nella scoperta della mia evoluzione (personale, culturale, sentimentale…), scopro che io appartengo non a una, ma a molte culture. Una scoperta che si realizza grazie al vissuto di implicazione nella propria storia e alla distanza nei confronti della propria vita, da realizzare tramite rappresentazioni simboliche.
Nelle esperienze, nelle letture, negli ideali, nelle percezioni, negli incontri, negli eventi molteplici cui io cerco di attribuire un senso, un valore, un giudizio, un ricordo, apprendo che ciò che chiamo identità è questo tentativo di organizzare in un senso gli eventi della mia vita. Percepisco l’identità come un movimento, non come un oggetto. Un artificio che realizzo elaborando continuamente sensi e significati: aderendo agli ideali che la collettività mi propone, ma anche tradendo questi ideali. L’identità si mostra così nelle sue caratteristiche di progetto. Un progetto che fabbrica ipotesi – contraddittorie, decentrate, multiple – sulla propria origine e sul proprio futuro. Anche l’identità individuale va intesa e vissuta nei termini di una costruzione simbolica in continua evoluzione. Un artificio unico e irriproducibile da me costruito, ma non per questo irreale. Scoprirsi come “progetto della propria memoria”, non può essere un’esperienza meramente intellettuale. Richiede un’implicazione esistenziale, percettiva, vissuta. Si può realizzare solo attraverso produzioni concrete (artistiche, letterarie, autobiografiche, plastiche). Consente di avvicinare le “altre” culture e le “altre” persone comprendendole come sistemi di vita.
Sistemi irriducibilmente Altri, perchè creatori di esperienze diverse dalle mie, ma così simili a me in questo essere artefici, creature e creatori di universi culturali, con cui io entro in contatto.

Metafore

La chiarificazione dei fenomeni è spesso un problema di metafore. Le strutture linguistiche, sui cui sono basati i nostri ragionamenti, non sempre hanno la forma adatta a cogliere la realtà. La maggioranza delle nostre metafore mentali sono basate su concetti spaziali, con particolare riferimento alle relazioni fra solidi: vicinanza, distanza, inclusione …
I fenomeni delle società e delle rappresentazioni simboliche hanno però bisogno di metafore meno reificanti, più complesse di quelle della geometria topologica. Abbiamo visto che ciò che viene segnalato nell’immagine “periferia”, non è solo una distanza immobile, ma un movimento di un corpo in un ambiente fluido, movimento di “deriva”.
I cittadini che scendono in piazza contro gli immigrati dicono di temere l’inclusione, “l’integrazione”, ma ciò che temono è il naufragio delle loro vite, delle loro attività. Essi reclamano a gran voce “un centro”, che intervenga, che faccia ordine, che si avvicini al loro territorio, che non faccia perdere l’identità al quartiere.
Anche per loro è necessario sbarazzarsi di quel concetto di identità che abbiamo esaminato. L’identità non si difende mettendola in scatola e conservandola, ma facendosi artefici del mutamento, seguendo e governando il fluido mutare degli avvenimenti. Dal naufragio non ci si salva buttando a mare il Giona di turno. Parimenti, bisogna smettere di cercare un centro a cui richiedere doni.
Di qualsiasi natura siano questi doni: poliziotti, panchine, spazi gioco, servizi sociali. I cittadini del quartiere – i cittadini tutti – devono essere messi in grado di inventare strumenti per “progettare” l’identità del proprio territorio.
Chi li governa deve dare a queste persone – alle persone vere, quelle che concretamente abitano, vivono, si incontrano e si scontrano in un luogo – strumenti di navigazione, mezzi per portare il proprio contributo alla creazione delle identità e della qualità della vita del quartiere o della città.
Gli educatori sociali – quelli che non hanno nostalgia del centro, quelli che riconoscono la propria identità come un artificio, un’invenzione fatta di molteplici elementi – possono certo contribuire a diffondere l’idea che il miglior contributo al problema delle periferie sia l’eliminazione del centro.
Possono aiutare a costruire strumenti di partecipazione, di progettazione, di invenzione delle identità. Siano esse personali o territoriali: immerse comunque in ambienti fluidi in continuo mutamento.