L’esperienza del limite nella professione dell’educatore

Cosa accade quando l’educatore sperimenta il fallimento, l’insuccesso, la fatica di una professione che lo porta a confrontarsi quotidianamente con situazioni di disagio e sofferenza

Il termine limite deriva dal latino limes, vocabolo utilizzato per indicare la frontiera, la linea di demarcazione, il confine oltre il quale non è lecito spingersi; così i Romani chiamavano le pietre che segnavano i confini – considerate sacre e dunque inamovibili, in quanto poste sotto la protezione di una divinità essa stessa chiamata Limite o Termine. Al contempo limes era la strada, il sentiero, la via che consentiva loro di penetrare nei territori di recente conquista o ancora da conquistare [1]. In questa seconda accezione, il termine si lega anche al latino limen, che indica la soglia, portando così insita, oltre all’idea di invalicabilità, anche quella di attraversamento, di possibilità di movimento [2].

Quello del limite resta, ad oggi, un tema ancora poco esplorato dalle scienze umane; solo di recente esso è divenuto oggetto di maggiore attenzione, anche grazie ad una crescente consapevolezza rispetto alla centralità di questa dimensione all’interno delle cosiddette professioni  “di cura” (si pensi, ad esempio, all’interesse per la sindrome del burn-out [3]).

Tale tematica verrà qui analizzata da una prospettiva prettamente pedagogica ed educativa, con particolare riferimento alla professione dell’educatore, il quale, presto o tardi, è chiamato a fare i conti con le due facce del limite brevemente introdotte: barriera e ingresso; limite insuperabile e limite da superare.

Per chi, come l’educatore, lavora in situazioni di estrema fragilità e delicatezza, è fondamentale che l’incontro-scontro con la propria limitatezza avvenga consapevolmente e sia accompagnato da quella capacità riflessiva che consente di fare della propria esperienza personale e soggettiva un’imprescindibile fonte di conoscenza. Questo nella convinzione che “per guardare ai vissuti degli altri è indispensabile avere consapevolezza dei propri” [4]: l’educatore deve avere chiara l’importanza di lavorare innanzitutto su se stesso prima ancora che con l’altro, il che significa fondamentalmente imparare a conoscersi, scoprendo i propri molteplici volti – quelli positivi ma anche e soprattutto quelli etichettati come negativi, indegni – allo scopo di riconciliarsi con essi, reintegrando nella propria esperienza umana e professionale la dimensione del limite. L’obiettivo deve essere quello di imparare a vivere i limiti personali non come una mancanza o una colpa, ma piuttosto come luogo di autenticità, oltre che di possibile miglioramento. Compito, questo, tutt’altro che semplice; vivere in una società interamente impostata sull’idea che “vai bene” solo se fai il bravo, se hai successo, se spicchi fra i tanti comporta non pochi problemi: per rispondere a questa domanda di perfezione (e meritare dunque affetto, stima e considerazione sociali), si vive costantemente “sotto la presenza di un giudice implacabile” [5], apprendendo fin dalla più tenera età come mascherare le proprie zone d’ombra e tutto ciò che in sé è indice di debolezza e fragilità.

L’instaurarsi di questi meccanismi, perlopiù inconsapevoli, porta inevitabilmente a sperimentare sofferenza nel momento in cui il limite emerge con tutta la sua forza: si tratta di un’esperienza fortemente destabilizzante, che mette in crisi la propria immagine di sé, rendendo pericolosamente concreto il rischio di “rompersi” [6]. Di fronte a una difficoltà di queste proporzioni, non stupisce che la reazione più frequente sia la fuga, che porta ad ignorare il proprio sentire e a comportarsi come se niente fosse. In un disperato tentativo di difesa, si creano corazze e si erigono barriere che tuttavia, frapponendosi fra sé e gli altri, finiscono per intaccare la capacità di relazionarsi autenticamente.

Lo scenario delineato chiama direttamente in causa l’educatore, figura intrinsecamente fragile in quanto inserita in una quotidianità lavorativa fatta, per l’appunto, di relazioni; “limitato” in quanto essere umano e in quanto professionista dell’aiuto che si confronta quotidianamente con circostanze e storie di vita che lo mettono duramente alla prova, non è infrequente che l’educatore sperimenti un senso di inadeguatezza e impotenza, di fallimento e sconfitta: in alcune situazioni – uno sbaglio, un percorso di recupero fallito, una scelta dell’utente non condivisa – la sua fragilità riemerge prepotentemente.

Il rischio, di fronte a questo tipo di situazione, è proprio quello di fuggire, non autorizzandosi a sentire e dire la propria fragilità [7]; è importante invece che l’educatore comprenda e accetti che il suo percorso è un continuo “errare”, fatto di successi, ma anche necessariamente di errori, insicurezze, sentimenti negativi, e che ciascuno di questi elementi è fondamentale per costruire e riaggiustare in itinere la prassi lavorativa. L’errore, allora, non è sbagliare, quanto piuttosto illudersi che i sentimenti possano essere cancellati semplicemente ignorandoli, negandosi così la possibilità di riconoscerne l’influenza sui propri comportamenti, scelte e relazioni e di farne oggetto – accanto ai propri sbagli e alle proprie insufficienze – di riflessione e apprendimento continui.

Emerge chiaramente, alla luce di quanto detto, l’esigenza di una riflessione costante sugli interventi educativi realizzati e sui loro effetti (positivi e negativi), sui sentimenti, le fatiche, i successi e gli insuccessi, in modo che ogni singolo aspetto della professione possa divenire fonte di crescita personale e professionale. Questo atteggiamento – meglio noto come “cura di sé” [8] – implica avere un occhio di riguardo per i risvolti emotivi della professione, allo scopo di acquisire sempre più dimestichezza nel muoversi all’interno dei propri “paesaggi interiori” [9], ed è il presupposto fondamentale per potersi prendere cura degli altri.

Gli strumenti professionali che l’educatore ha a disposizione per prendersi cura di sé sono molteplici: dalla supervisione professionale alla formazione permanente; da percorsi di autoconoscenza ed autoanalisi (attraverso la scrittura, la psicologia, …) a occasioni di confronto anche esterne al contesto lavorativo. Ma concretamente come può avvenire questa riconciliazione con la dimensione del limite nella quotidianità del professionista dell’aiuto? A. Augelli [10] individua le tappe principali di questo percorso di assunzione e riconoscimento del limite – che in fondo altro non è se non un cammino di autoanalisi e conoscenza personale:

imparare a nominare le emozioni: dare loro un nome sottende la capacità di riconoscerle e di distinguerle le une dalle altre, attribuendo loro confini ben precisi e ridimensionando quelle negative che, ignorate, apparirebbero totalizzanti;
accettare ciò che si prova: ciò non significa rassegnarsi passivamente a determinate difficoltà, paure o emozioni, ma accogliere vissuti generalmente etichettati come inaccettabili come parti di sé, degne di ascolto e attenzione al pari (e forse più!) delle altre;
comunicare e condividere i propri vissuti emotivi: compiere questo percorso in solitudine può essere deleterio; ci si ritrova soli davanti a un enorme bagaglio di imperfezioni che non si sa come affrontare. La condivisione, al contrario, consente, dandosi forza vicendevolmente, di guardare ai propri vissuti emotivi con maggiore distacco e da nuove prospettive, rompendo quel circolo vizioso per cui il limite diventa necessariamente mancanza;
esercitare una scelta: quali limiti riservano uno spazio di intervento – e possono dunque essere, se non superati, perlomeno spostati – e quali invece impongono di arrestarsi e rispettare la propria umana limitatezza? L’educatore è chiamato, di volta in volta, ad effettuare una scelta “tra lo slancio del superamento e la prudenza dell’accettazione” [11], ma questo è possibile solo a patto di accettare di affrontare il limite e lasciarsene interrogare, per comprendere come esso possa essere “lavorato” e modificato.

Da quanto sottolineato emerge come il riconoscimento della propria limitatezza – lungi dal divenire pretesto per l’immobilità o per un atteggiamento di passiva rassegnazione nei confronti degli eventi – implichi la capacità di mettersi continuamente in discussione, di guardare in faccia le proprie debolezze e fragilità e interrogarsi su come queste possano essere sfruttate. Ciò che si vuole suggerire è che il limite, invece che essere vissuto come un peso, può essere fruttuosamente utilizzato, divenendo risorsa del lavoro educativo in almeno tre sensi:

“la nostra umanità è la chiave di accesso all’umanità altrui” [12]: riconoscere la propria umanità – e con essa la possibilità della sofferenza e del fallimento nella propria vita – è l’unico vero modo per farsi vicini a chi soffre e, dunque, relazionarsi autenticamente. È infatti solo a partire dalla capacità di stare serenamente con se stessi, accettando la propria piccolezza e le proprie insufficienze, che l’educatore può sviluppare un atteggiamento di autentica compassione (dal latino cum e patior, “patire con” l’altro) nei confronti dell’altrui fragilità;
“a volte un limite o un fallimento ci dicono su cosa dobbiamo lavorare” [13]: il limite è un efficace strumento di individuazione di quegli aspetti del nostro lavoro e della nostra personalità suscettibili di miglioramento. Ancora una volta il problema non è sbagliare, quanto piuttosto “non trovare alcun valore nel fallimento” [14];
sviluppare un atteggiamento di “autentica disponibilità all’esistenza” [15]: l’assunzione del limite impone una rinnovata visione del mondo e delle cose, a partire dalla presa di coscienza che non è possibile tenere sempre tutto sotto controllo. Ciò significa vivere la progettazione educativa non come un qualcosa di definito a priori, di stabilito dall’alto per poi essere calato sull’utente, ma come un evolversi continuo, aperto alle possibilità e ai mutamenti determinati da una molteplicità di variabili – prima fra tutte la presenza dell’utente, con le sue caratteristiche, scelte, visioni del mondo.

In conclusione, l’educatore è chiamato a ricollocare se stesso in relazione al limite, affrancandosi da modalità relazionali distorte e da obiettivi irrealizzabili. L’invito è a rendersi protagonisti di un percorso di vera e propria educazione al limite (qui si è fatto particolare riferimento a quello proposto da Augelli), che potrà poi essere esteso all’utente, affinché egli senta come importante e concreta la prospettiva di un cambiamento, ma allo stesso tempo sappia anche amare la propria limitatezza, in quanto massima espressione della sua umanità. L’educatore è chiamato, in definitiva, a far sì che i limiti – prima percepiti come una mancanza e guardati con vergogna – diventino il punto di forza a partire dal quale ridefinire la propria identità e costruire relazioni autentiche.

* laureata in Educatore Sociale e Culturale presso la Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione dell’Università di Bologna.

Bibliografia

And
reoli V., L’uomo di vetro. La forza della fragilità, Milano, Rizzoli, 2008, disponibile su http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/andreoli_uomodivetro1.htm

Augelli A., “Tonalità emotive e paesaggi interiori nell’esperienza educativa”, Animazione Sociale, Agosto/Settembre, 2007, pp. 57-63, disponibile su http://www.animazionesociale.it/

Ead., “La consapevolezza del limite”, Note di pastorale giovanile, Maggio, 2009, pp. 79-84, disponibile su http://www.notedipastoralegiovanile.it/

Bertolini P., L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, Scandicci, La Nuova Italia, 2002

Contini M., Figure di felicità. Orizzonti di senso, Scandicci, La Nuova Italia, 1988

Iori V., a cura di, Quando i sentimenti interrogano l’esistenza. Orientamenti fenomenologici nel lavoro educativo e di cura, Milano, Guerini Studio, 2006

Ead., a cura di, Quaderno della vita emotiva. Strumenti per il lavoro di cura, Milano, Franco Angeli, 2009

Iori V., Augelli A., Bruzzone D., Musi E., Ripartire dall’esperienza. Direzioni di senso nel lavoro sociale, Milano, Franco Angeli, 2010

Peter R., L’imperfezione nel Vangelo. Per un cammino personale di libertà, Assisi, Cittadella Editrice, 1998

Id., Onora il tuo limite. Fondamenti filosofici della Terapia dell’Imperfezione, Assisi, Cittadella Editrice, 1997

Note

1) Wikipedia, alla voce Limes romano, consultato in data 24/03/13 (http://it.wikipedia.org/wiki/Limes_romano)

2) V. Iori, a cura di, Quaderno della vita emotiva. Strumenti per il lavoro di cura, Milano, Franco Angeli, 2009, p. 156; V. Iori , A. Augelli, D. Bruzzone, E. Musi, Ripartire dall’esperienza. Direzioni di senso nel lavoro sociale, Milano, Franco Angeli, 2010, pp. 56-57

3) Il termine burn-out (in italiano “cortocircuitato”) è utilizzato per indicare una sindrome da affaticamento ed esaurimento psicofisico che colpisce in particolar modo coloro che, a vario titolo, lavorano a stretto contatto con la sofferenza.

4) V. Iori, op. cit., p. 43

5) R. Peter, Onora il tuo limite. Fondamenti filosofici della Terapia dell’Imperfezione, Assisi, Cittadella Editrice, 1997, p. 8

6) V. Iori, op. cit., p. 149

7) V. Iori, A. Augelli, D. Bruzzone, E. Musi, op. cit.

8) Per un approfondimento del paradigma pedagogico della “cura di sé” si vedano, ad esempio, i testi di D. Demetrio (con particolare riferimento al “metodo autobiografico”).

9) A. Augelli, “Tonalità emotive e paesaggi interiori nell’esperienza educativa”, Animazione Sociale, Agosto/Settembre, 2007, p. 57

10)V. Iori, op. cit., pp. 54-68

11) Ivi, p. 158

12) Ivi, p. 120

13) M. Contini, Figure di felicità. Orizzonti di senso, Scandicci, La Nuova Italia, 1988, p. 63

14) R. Peter, L’imperfezione nel Vangelo. Per un cammino personale di libertà, Assisi, Cittadella Editrice, 1998, p. 129

15) M. Contini, op. cit., p. 177