Manicomio e Dipartimento di Salute Mentale

L’ospedale psichiatrico, a partire dalla maison des fous ottocentesca, si è sviluppato realizzando una sintesi di due forme diverse di potere, da un lato “un potere repressivo, che limita, che interdice, che si afferma come negazione e come esclusione, dall’altro un potere tutelare, dettagliato, regolare, previdente e dolce – così lo definisce Tocqueville in De la démocratie en Amerique – che attraversa le coscienze, che orienta, che produce, che si dispiega come affermazione e come investimento produttivo”2.

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Questa compresenza di protezione e repressione, di cura e costrizione ha intriso la teoria e la prassi psichiatrica da Pinel ed Esquirol in poi, in quanto area di convergenza di un mandato sociale, espresso in modo intrinseco in passato e in forma più subdola oggi (la tutela della collettività nelle sue diverse forme) e di un mandato istituzionale (la cura in passato; la prevenzione, la cura e la riabilitazione oggi). La difficoltà di elaborare queste posizioni si è concretizzata in posizioni socioiatriche o in asettici approcci tecnicistici, in cui il diniego ha consentito la coesistenza del manicomio e del DSM dove “ciascuno sa dell’altro” senza che ognuno influenzi l’altro. Questa “zona grigia” può configurarsi come una vulnerabilità del DSM in contesti in cui si ripropongano i due mandati.
Il DSM, così come non può eludere la questione della cronicizzazione e della cronicità dei nuovi utenti (e degli operatori), non può nemmeno sottrarsi dal fare i conti con l’OP e con le altre strutture in cui possono riprodursi meccanismi di segregazione (il carcere D. l.vo 230/99, case di riposo…); nelle righe che seguono vorrei sintetizzare come il DSM di Rovigo si è mosso per il superamento dell’OP locale.

IL CONTESTO

La Struttura
L’ospedale psichiatrico di Rovigo è una struttura aperta nel 1930 dopo traversie iniziate all’indomani dell’emanazione della legge del 1904.
Nella struttura erano ospiti dalle 600 alle 800 persone con picchi sopra le 900 negli anni ’50, a partire dal 1976 è iniziato un decremento che ha visto delle accelerazioni fra il 1978-80 e fra il 1985-86; successivamente il trend di riduzione è coinciso con i decessi.
Quando nel 1995, sotto la pressione del progetto obiettivo nazionale e della Legge Finanziaria, dopo la ridefinizione delle ULSS che ha accompagnato la 502/93, si è ripresa in mano la questione della dismissione dell’OP, ci si è trovati con una struttura in cui non risultava ricoverato nessun paziente (nessuno con lo “stato giuridico” di degente) ma in cui tuttavia erano presenti 231 persone.

I Degenti
All’inizio del 1995 erano presenti in O.P. 231 persone (117 uomini e 114 donne) di cui il 59% era ultrasessantenne. Gli utenti sono stati valutati prendendo in considerazione:
a) il quadro psicopatologico
b) il grado di disabilità
c) i bisogni assistenziali
Sono stati distinti due gruppi:
– il primo composto essenzialmente da insufficienti mentali di grado medio grave, schizofrenici con esiti residuali e forme autistiche gravi, insufficienti mentali di grado medio grave con psicosi d’innesto, anziani non autosufficienti.
Questo primo gruppo, caratterizzato da una marcata compromissione dell’autonomia personale, necessitava di una struttura in grado di farsi carico dei bisogni primari (es. Residenze Sanitarie Assistenziali o Case di Riposo).
– Il secondo gruppo composto essenzialmente da insufficienti mentali di grado lieve o medio-lieve e schizofrenici con sintomatologia psicotica in fase attiva.
Per questo gruppo era invece primario l’inserimento in strutture in cui fosse possibile il trattamento medico e l’intervento riabilitativo.

Gli Operatori
Nell’ospedale psichiatrico operavano 110 persone: 3 Medici, 1 Psicologo, 84 Infermieri, 1 Assistente Sociale, 2 Educatori, 10 Addetti all’assistenza, 14 Ausiliari Sociosanitari.
Tutte persone con una storia professionale molto diversa: da chi negli anni Settanta si era impegnato nelle sezioni di Psichiatria Democratica, a chi viveva qualsiasi ipotesi di cambiamento come una minaccia al proprio posto di lavoro e ad una tranquilla stabilità conquistata.

Il Processo di dismissione

La Filosofia

L’assunto di partenza era che la dismissione doveva inserirsi all’interno del più generale processo di riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica, dopo la fusione delle due precedenti Ulss in un’unica realtà aziendale; si costruiva così, all’interno della rete del DSM, una possibilità di accoglienza per le persone presenti in OP, lungo un percorso che si estende dalla casa del paziente alla casa di riposo attraverso i gruppi appartamento, le comunità alloggio, le comunità terapeutiche protette secondo l’età, le caratteristiche psicopatologiche e gli specifici bisogni assistenziali. Strutture comunque non destinate esclusivamente ad ex OP, per cui questi si sarebbero trovati a condividere con i pazienti del territorio le stesse opportunità, sia per quanto riguarda le strutture esistenti sia per quelle da attivare nell’ambito della dismissione. Coerentemente con la normativa, poi, il personale avrebbe dovuto essere recuperato per consentire un potenziamento del DSM e per permettere quindi una estensione della possibilità di presa in carico.

Il Gruppo di Progetto La dismissione, per il significato che assume e le ricadute che comporta, ha richiesto il coinvolgimento delle forze sociali (organizzazioni sindacali, volontariato, associazioni di familiari); questo per arrivare alla stesura di un progetto condiviso quanto più possibile sugli aspetti che riguardano i pazienti (scelta delle strutture, tipologia e localizzazione) e su quelli che riguardano gli operatori (assegnazione alle strutture, procedure di mobilità, formazione).

Le Strutture
Sulla scorta delle caratteristiche dei degenti sono state utilizzate:
– Case di Riposo per persone non autosufficienti: le 8 strutture coinvolte hanno accolto utenti in età avanzata con bisogni prioritariamente assistenziali.
– Residenze Sanitarie Assistenziali: riservate a persone che oltre alla scarsa autonomia presentavano notevoli bisogni assistenziali di tipo sanitario.
In entrambe queste tipologie si è proceduto ad un lavoro di preparazione nelle strutture attraverso incontri con il personale prima, l’inserimento di 2-3 persone per volta poi, garantendo la presenza di nostri operatori per il tempo necessario a sostenere il paziente nel < cambiamento; successivamente è stata mantenuta la continuità < attraverso visite da parte dell’infermiere e del medico.
– Strutture residenziali: comprendono più tipologie a seconda delle caratteristiche organizzative, come gruppi appartamento, comunità alloggio, comunità terapeutiche attive (CTRP attive), comunità di mantenimento (CTRP di mantenimento).
Le Strutture intermedie residenziali (SIR) presentano alcuni aspetti comuni:
– tutte sono gestite direttamente dal DSM, dove sono coinvolte cooperative sociali con funzioni di supporto (lavanderia, pulizia, mensa);
– vi sono accolte sia persone provenienti dall’OP che provenienti dal territorio;
– la collocazione delle strutture è centrale in paesi di medio piccole dimensioni e questo agevola i processi di socializzazione;
inoltre, in un contesto in cui “tutti conoscono tutti” si possono sviluppare meccanismi collettivi di tutela, che, possono favorire l’apertura delle strutture in quanto è il paese stesso che collabora al controllo e al supporto della persona.
Sul piano amministrativo abbiamo fissato rette alberghiere differenti a seconda delle strutture, in rapporto alle caratteristiche socioassistenziali, prevedendo poi tre tipologie di rette per ciascuna struttura e suddividendo gli ospiti in tre gruppi: persone con bisogni prioritariamente sociali (retta piena), persone con bisogni socioassistenziali richiedenti interventi di rilievo sanitario (retta intermedia), ospiti le cui problematiche psichiatriche rappresentano la motivazione principale dell’accoglimento che si configura come alternativo al ricovero e per i quali la retta viene assunta dal servizio sanitario.
Per completezza va aggiunto che, per il triennio 1998-2000, la Regione Veneto ha previsto per gli ex OP un contributo diretto massimo da parte dell’utente non superiore all’indennità di accompagnamento e una integrazione a carico dell’ULSS, sollevando familiari o municipalità da tale onere.
Uno dei problemi che ci siamo trovati ad affrontare è stata la scarsità di finanziamenti, in questo frangente uno strumento che si è rivelato utile è stato l’accordo di programma attraverso cui sono state attivate
sinergie che hanno consentito di andare oltre i vincoli economici. Un esempio può essere “Il Centro di Bressane” che comprende una comunità residenziale, un laboratorio protetto, una legatoria e una serra.
Per la realizzazione della comunità è stato siglato prima un accordo di programma fra comune (proprietario dello stabile e di finanziamenti congelati), ULSS (che ha fornito il personale sanitario) e una cooperativa sociale che ha integrato il finanziamento in cambio della gestione dei servizi di supporto.
Analogamente, nella realizzazione del laboratorio, della legatoria e della serra sono state coinvolte la curia (proprietaria dello stabile), l’ULSS (che ha finanziato la ristrutturazione e le borse lavoro per gli utenti), l’ENAIP (per la formazione professionale) e la cooperativa sociale per l’organizzazione e la gestione degli inserimenti lavorativi.
A questa collaborazione corrispondono, nella quotidianità degli ospiti, opportunità di socializzazione, rese possibili dai fruitori delle strutture lavorative esterni alla comunità se aggiungiamo che nell’area del centro c’è l’ambulatorio del medico di base della frazione, vediamo concretizzarsi una permeabilità della struttura, con la presenza dentro del fuori; ciò contribuisce a disarticolare modalità di relazione manicomiali riproponibili sia dai pazienti che dagli operatori.
Un altro elemento da prendere in considerazione è quello relativo alla < formazione che diventa particolarmente critico se si vuole inserire gli operatori dell’OP a pieno titolo nel DSM.
in OP, ma apprendimento di abilità compatibili con il manicomio3;
analogamente credo si possa dire lo stesso per quanto riguarda la formazione degli operatori.
Abbiamo pertanto colto l’occasione del cambiamento di contesto conseguente all’uscita dall’OP per avviare un programma di aggiornamento e formazione pluriennale: siamo partiti dal fornire nozioni (strumenti di comprensione cognitiva) per poi passare al lavoro sulle dinamiche fra operatori e fra operatori e utenti (strumenti di comprensione emotiva). Questo gioco di rimandi fra teoria e prassi, fra comprensione del funzionamento dei pazienti e funzionamento del proprio gruppo di appartenenza, ha contribuito a far nascere curiosità e interesse, favorendo lo sviluppo di atteggiamenti di confidenza/conoscenza/consapevolezza del gruppo rispetto a precedenti posizioni di collusione/aggregazione (spesso paranoide) di stampo manicomiale. Utile si è dimostrato il coinvolgimento di figure esterne al DSM per quanto riguarda il personale infermieristico, che hanno svolto una funzione “terza”, “paterna” e fra queste e i medici che hanno accolto le istanze, favorendone la lettura e la metabolizzazione e hanno contribuito allo sviluppo di una possibilità dialogica su basi diverse.
Queste, in estrema sintesi, sono state le modalità con cui abbiamo affrontato la dismissione di un OP, cercando di cogliere le potenzialità trasformative per il DSM insite nel processo tanto della cultura della persona quanto dell’organizzazione sanitaria e socioassistenziale che ne discende; riconoscendo, riprendendo Paz, che “il nessuno” che rincorre il DSM nel suo cammino é il rischio della fusione/confusione prevenzione/cura/riabilitazione e controllo sociale, con i meccanismi difensivi che ne derivano, soprattutto in questo momento di crisi del welfare state.

Note bibliografiche
1 Octavio Paz: Il fuoco di ogni giorno. Garzanti, 1992
2 M. Galzigna: Persona, Struttura e Storia. Psichiatria Gen. Età Evol. 35, 1998, 265-286.
3 P. Benassi: La fine dell’era manicomiale. Guaraldi, 1993.