Nuove virtù

Alla domanda subito formulata, con onestà intellettuale, le nuove virtù sono femminili? la risposta è sì e no, ed è risposta estremamente positiva…

Il testo di Barbara Mapelli fin nel titolo, Nuove virtù, predispone a trovare molto, consente di intravedere un contenuto ricco, anche se non semplice, infatti il tema si mostra immediatamente, forse per la mia deformazione professionale, un tema filosofico carico di una lunga tradizione, di grande rilevanza, ma anche impervio e rischioso, caratteristiche tutte di cui l’Autrice è pienamente consapevole.

Ma leggendolo appare subito un’altra caratteristica, quella di essere un viaggio interiore dentro l’identità, femminile in particolare, ma non solo, perché tanti sono, e acuti, gli accenni (direi l’invito) al possibile ripensamento dell’identità maschile da parte dei maschi.

Così dicendo si aprono tuttavia una quantità di problemi che sono a mio parere problemi che aprono, nel senso che dischiudono realtà, modalità, ambiti, esistenze diverse; dalla crisi dell’identità, tema tanto dibattuto nel pensiero contemporaneo, non solo femminista, di cui questo testo si fa carico, in certo senso accettandone gli esiti ultimi, emerge una nuova visione antropologica che costituisce il filo nascosto che tiene insieme, secondo la mia lettura, le singole virtù. Filo che sottende in tutto il libro anche se, quale romanziera di libri gialli, Barbara Mapelli non ne dà una trattazione sistematica, non dedica giustamente un capitolo al soggetto che agisce le nuove virtù, ma semina lungo tutto il testo tanti indizi, lascia pertanto a noi Sherlok Holmes o meglio Miss Marple in erba, il compito di definirne il disegno; questo è quanto io alla fine della lettura ho ricavato e in cui mi sono ritrovata: il profilo chiaro, limpido di un essere umano, donna o uomo, nuovo o rinnovato, dall’uso di queste virtù.

Dirò tra poco quale antropologia è delineata, prima vorrei soffermarmi e scavare proprio in tali virtù, che suggestivamente Mapelli definisce “dimore dell’esistenza” (p.106), a cui aggiungerei allora la metafora dell’oasi, dimora in cui soggiornare lungo il viaggio, ovvero nell’esperienza errante del nostro vivere, accentuando in tal modo, con l’Autrice, non già l’elemento di normatività delle virtù, il dover essere, ma l’esistenzialità, che coinvolge e assume in sé corpo e spirito, ragione e passioni, sentimenti e progetti… Dimore dell’esistenza per dire la dialettica tra interiorità ed esteriorità, percorso mentale e corporeo, forme del viaggio, strettoie, vicoli ciechi, labirinti, ma anche spazi, tuttavia non vuoti, storia e geografia dell’anima, che mostrano una esistenza (molto diversa dagli stereotipi pubblicitari) in cui le virtù non indicano un dovere ma una passione. Si può sottolineare che fare le cose per dovere o invece per passione non cambia le cose, ma cambia noi. Nel nostro testo troviamo 13 dimore, che leggo come le ore della giornata diurna più un’altra, un’ora ‘libera’.

Un accenno merita la modalità di scrittura di Mapelli, non solo il suo attingere (valorizzando) materiali più vari, dalla filosofia alla letteratura, dall’arte alla pedagogia, (di cui dirò tra poco), ma il suo essere presente “con tutta se stessa”, come dice Arendt, e penso ai suoi riferimenti al tempo della scrittura, della sua scrittura, legata cioè alla sua biografia, ed anche alla vita dei suoi gatti, al dialogo con il figlio; l’Autrice, in altre parole, non si nasconde dietro forme distaccate e “neutre” (e come potrebbe?), ma attua il vero partire da sé che il femminismo ha mostrato come pietra di inizio di un nuovo pensiero. Insieme emerge anche la consapevolezza, di fronte a questo tema, di non creare dal nulla, ma essere in qualche modo erede di sapienze antiche, e di dover cercare nuovi equilibri. Partire da sé per Mapelli, come per altre pensatrici, dice un vissuto esperienziale (fecondo e valido per uomini e donne), non già un crogiolarsi nell’interiorità, nell’introspezione tanto criticata da Simone Weil e Hannah Arendt, bensì una via “sperimentale” come interpretazione dell’Erlebnisse personale, quale modo di darsi del mondo.

Ma dice anche una modifica di sé che si muove in un vuoto di significati o di punti di appoggio per crearne di nuovi: le immagini e le emozioni, le ‘nuove virtù’ sono le pietre invisibili con cui la nostra casa interiore viene costruita negli anni.

Quale antropologia dunque è sottesa? Innanzi tutto si tratta del soggetto morale, il che presuppone la libertà e l’imputabilità delle azioni compiute, cioè l’assunzione di responsabilità, di cui Mapelli parla più volte (potremmo dire, con Kant, autos nomos, ma torneremo su questo); in secondo luogo non è un soggetto neutro e qui inizia il lavoro di distacco dal significato e dal senso tutto maschile di virtù, da vir, e anche dallo spazio pubblico in cui il femminile era assente, spazio  in cui le virtù si sono affermate connotando la civiltà che ne è derivata (p.61), laddove alle virtù dell’oikos veniva attribuito un valore inferiore. Con l’irruzione del soggetto donna, come è noto, appaiono sulla scena altri protagonisti, o individui virtuosi, e di questi parla Mapelli, anche se il suo proposito, condivisibile, è quello di delineare un novum che diventi habitus universale (p.67); e questo non per ecumenismo di bassa lega, né per captatio benevolentiae, ma perché l’identità femminile con le sue caratteristiche diventa cifra di un patrimonio virtuoso valido per tutti/e e per ciascuno/a. Riprendendo una espressione di Carla Lonzi “la differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia, approfittiamo della differenza”, ne deriva una visione dell’identità e quindi del soggetto dinamico, nomade, continuamente in viaggio, appunto, e soggiornante nelle dimore dell’esistenza.

Quindi alla domanda subito formulata, con onestà intellettuale, le nuove virtù sono femminili? La risposta è sì e no, ed è risposta estremamente positiva, perché segna una rottura e indica un non volersi rinchiudere nella logica univoca retta dal principio di non contraddizione, ma insieme apre dimensioni più produttive del nostro sapere e soprattutto del nostro esistere, direi che Mapelli assume qui la logica del et-et, piuttosto che dell’aut-aut,
la prima accetta il paradosso, la seconda mi ha richiamato in mente una bella poesia di Rilke: “Ho tanta paura della parola dell’uomo/mi esprime tutto con troppa chiarezza/Questo è cane e quella è casa/Qui è l’inizio e là c’è la fine/Devo stare sempre in guardia”.

Un altro interrogativo si pone quasi pregiudizialmente e si ripete lungo il testo: sono queste virtù educative? Ancora la risposta apre dimensioni originarie più che nuove direi e personalmente mi rincuora per le decise affermazioni di stretta parentela tra educazione e filosofia; contro i tecnicismi e le chiusure di tanta produzione pedagogica contemporanea, in queste pagine si parla di pedagogia come ai miei tempi, dal cui apprendimento anche i filosofi traevano grandi benefici. Pedagogia intesa nel senso più ampio, profondo e ricco della parola, che non si esaurisce quindi in una scienza tecnica, o solo nell’ambito scolastico né in quello accademico, ma si realizza anche in  processi educativi informali (famiglia, vita quotidiana di relazioni etc), in altre parole nel vissuto, ‘patrimonio’ che anche la riflessione filosofica invita a considerare, accettando la trasformazione del suo percorso che ne segue. Si recupera pertanto la linfa vitale che i primi pensatori della Grecia avevano colto e ammettevano con naturalezza, la non scissione di corpo e spirito, quindi anche di corpo e pensiero, linfa dimenticata nel successivo cammino della filosofia e riemersa come un fiume carsico con Nietzsche prima, ma soprattutto con il pensiero della differenza sessuale poi: Luce Irigaray, ma anche Maria Zambrano, con il suo leit motiv della ragione poetica, qui chiamata giustamente a testimone molte volte, quasi un refrain presente in tutte le virtù. Contro un mondo di astrazioni o di fantasmi, mi piace chiamare tale atteggiamento ‘passione di pensare’ con Arendt, o intelligenza del cuore, espressioni usate dalle filosofe per indicare una costellazione concettuale nuova o originaria che dice passione e pensiero, cuore e intelligenza, psiche e leib, in cui le donne – per parafrasare Virginia Woolf – mettono al lavoro la loro potenza immaginaria per combattere la loro insignificanza storica.

Più essenzialmente la ragione poetica è presente nel testo di Mapelli nei ricchissimi riferimenti letterari, che accompagnano ogni virtù, che non hanno un valore puramente ornativo, esteriore, ma sono essenziali nella loro varietà (da Amore e Psiche dell’Asino d’oro, a Orlando di Virginia Woolf, dai romanzi di George Eliot a una bellissima poesia di Emily Dickinson, da Antigone alla Lettera Scalatta, da M. Serao a Borges, da Cutrufelli a S. Weil, da Shakespeare a Dostojevskij, da E. Von Arim a T. Mann) ed esprimono la specularità poetica di fronte alla riflessione filosofica, che specchiandosi ravvisa quella e viceversa, il risultato è un vedere e pensare altrimenti, un pensare di più.

Venendo alle virtù, più che seguire l’analisi vivace, ricca di riferimenti letterari e filosofici a cui rinvio per la lettura diretta, mi sono chiesta se per presentarle si possono trovare dei legami comuni tra loro o si devono accentuare le differenze; infine, (o inizialmente) sono veramente nuove  o rilette con un’ottica nuova? Da cui poi alcune mie perplessità nei confronti di certe virtù qui delineate.

Per il primo punto, intravediamo e, aiutati da Mapelli, possiamo indicare come elemento comune, a mio parere, la relazionalità, l’apertura all’altro/a, (presente nell’amore) l’irripetibilità dell’io in mezzo agli altri (rinvenibile nel coraggio), il dare parola all’altro (rappresentato dall’umiltà), il vivere in armonia (che comprende in sé la dipendenza), l’ascolto e l’accoglienza (che richiede anche la distanza, e Mapelli ne sottolinea l’importanza nel processo educativo), il legame tra le generazioni (che necessita del tradimento), e via via la fiducia, l’attenzione, la cura, il rispetto e la pietà, virtù che conclude ricomprendendole tutte.

Ma d’altra parte rileggendo le virtù non in senso diacronico, bensì singolarmente, mi sembra che un altro criterio potrebbe essere quello di differenziarle, accomunando da un lato le ‘capacità’ della relazionalità e dall’altro le virtù che hanno la loro ragion d’essere nella distanza, ne deriva, come si comprende, un caleidoscopio o un prisma dalle molteplici facce: amore, dipendenza, fiducia, cura, da un lato, ma dall’altro quelle che potremmo definire virtù dello scarto, della diversità, virtù al limite che rischiano l’errore: la distanza è definita con Lévinas conoscenza etica, distacco, anche malinteso, interpretato come punto di partenza di una diversità da superare, specie tra le culture e le civiltà.

Infine, la domanda sopra posta: sono veramente nuove virtù o rilette con un’ottica nuova? E la mia risposta, con Mapelli, è sì e no, et-et, in quanto se per un verso abbiamo l’analisi dell’amore, virtù primaria, condizione di tutte le altre, troviamo inaspettatamente il tradimento e il malinteso, che appaiono virtù nuove. Ma l’amore è riletto, seguendo Carol Gilligan, nella sua forza eversiva per sradicare il patriarcato e insieme, intrecciato al processo conoscitivo, rappresenta l’esempio di quella passione di pensare di cui si è detto, la presenza nascosta nel percorso della filosofia –  personalmente ho seguito questo itinerario per esempio studiando le mistiche per la quali Dio si gusta e si assapora (sapere e sapio).

Ancora troviamo il coraggio non come virtù nuova, ma riletta e reinterpretata per eliminare la cappa della virilità che sempre l’ha accompagnata, il coraggio allora diventa, con Arendt, l’agire libero, il proporsi al mondo come si è (p. 91), e mi piace che si ricordi Antigone, come esempio di coraggio femminile (autonomos e autognotos la definisce il Coro, cioè che segue una legge di autonomia e decide da sé). Così dicendo tuttavia sono rinviata per contrasto ad un’altra virtù, virtù nuova, a mio parere, quale è la dipendenza sulla quale devo confessare di avere qualche perplessità, anche perché mi sembra in opposizione con altre qui presenti; la questione non riguarda l’essere d’accordo su un elenco e proporne un altro, perché Mapelli afferma più volte che questo quadro delle virtù è provvisorio, non conclusivo, rivedibile, etc. La mia esitazione consiste nel fatto che la dipendenza, applicata ed adottata, per esempio, in certo femminismo, ma anche in altre comunità, crea scompensi gravissimi, situazioni patologiche di quell’io, fragile e precario, che va costruendo la propria identità. Se concordo con un significato di dipendenza come “libertà di vivere in armonia con sé e con gli altri”, se posso capire la dipendenza come sano antidoto contro forme di titanismo, ritengo che questa sia una virtù su cui ancora scavare per coglierne le infinite risonanze.

Così come nuove e da indagare con attenzione sono il tradimento e la gelosia, di cui con fatica si scorge il valore educativo, se non nel tradimento della tradizione, su cui Mapelli scrive pagine molto suggestive, collegando una sinfonia di parole dalla medesima radice tradere, tramandare (p. 152), termini che inseriscono questa virtù in una progettualità più ampia.

Vorrei allora collegare i fili nascosti che legano le varie virtù, sempre con l’aiuto di Mapelli,  sul piano della prassi, in particolare riprendo l’amore e lo intreccio con il rispetto: Mapelli in queste pagine, affronta tematiche molto impegnative con il consueto stile, acuto e leggero insieme, in quanto sottolineando come il rispetto sia l’unico sentimento che incrina la dura formalità dell’etica kantiana, lo situa tra giustizia e amore, e mi piace proseguire questa sua indicazione richiamandomi a Paul Ricoeur prima e poi ad un autrice come Iris Marion Young, citata anche qui.

Il filosofo francese, anticipando questa stessa linea, descrive l’orientare disorientando dell’amore nel cuore stesso della giustizia, che può contribuire a “disorientare la giustizia calcolatrice soltanto per riorientarla verso la generosità, spicciolo della moneta dell’amore vero. Essere giusti, non per assicurare l’equilibrio degli interessi ben compresi, come in una morale utilitaristica, ma perché il più sfavorito in ultima analisi è una persona singolare, in-sostituibile, non intercambiabile”1 L’azione sinergica dell’amore e della giustizia dunque consente alla giustizia di liberarsi dai limiti culturali inevitabili, dalle figure storiche contingenti, dalle restrizioni etniche e dai pregiudizi di classe, raggiungendo forse l’ideale di una giustizia radicale, la sua mira universalistica.

Alludiamo, così dicendo, all’ampio dibattito relativo all’elaborazione di una teoria critica  della differenza, che dice (ancora paradossalmente) di una differenza generatrice di
giustizia; in cui ritroviamo con autorevolezza soprattutto esponenti del pensiero della differenza sessuale, sia le  autrici più note (Hanna Arendt, Maria Zambrano), che le nuove generazioni (Iris Marion Young, Sabina Lovibond, Martha Nussbaum, etc.).

La riflessione teorica deriva dalla discussione relativa alla pluralità (sessuale, etnica, religiosa, culturale) presente nelle attuali società e va sottolineato il forte spessore di tale contesto, perché è su questo piano che si deve giocare, nei prossimi anni, la partita del pensiero della differenza, qui “la sapienza di partire da sé” può ri-assumere, sconvolgendola, l’affermazione kantiana, aude sapere. La problematica, come si è detto, è molto dibattuta e ricordiamo unicamente  un nodo importante: con Iris Marion Young, studiosa di queste tematiche e autrice di un testo cruciale come Justice and the politics of difference (1990) si può affermare che la differenza sia una risorsa imprescindibile, unica possibilità nel nostro tempo di evitare l’ingiustizia. Anche altri autori come Michel Walzer, Amartya Sen e Martha Nussbaum sostengono una concezione paradossale di spartizioni ineguali non ingiuste, cioè di un’idea di giustizia che equilibri vantaggi e svantaggi non rimanendo sul piano formale e quantitativo, ma scendendo nel contesto qualitativo; è pertanto in tale contesto che l’alterità del soggetto parlerà con voce diversa, altra anche dal sogno utopico dell’uguaglianza pura e semplice o dalle teorie e correnti comunitaristiche che considerano la società un conglomerato di gruppi omogenei in cui l’unicità e irripetibilità dell’individuo è persa.

La differenza, pertanto, indica che di fronte al pluralismo radicale si vogliono evitare sincretismi di comodo e superficiali, tolleranze di facciata e, senza cadere in relativismi o riduzionismi, esprimere le varie identità e diversità per delineare una differenza che sia momento  generatore di giustizia: si opera contro una tradizione di ugualitarismo, vanto delle società democratiche, contro l’utilitarismo classico, ma anche contro l’individualismo e l’universalismo astratto, tutti concetti derivati dal soggetto neutro.

Si può concludere con Young: “La riflessione normativa nasce quando si ode un grido di dolore o di disagio o quando si provano personalmente sofferenza e disagio”. Si sottolinea pertanto in queste parole un partire dal soggetto, un ascolto dell’altro e dell’altrove o uno struggimento come atto di nascita di norme e ideali: un partire da sé che è anche concretezza storica e sociale di una riflessione legislativa e “immaginazione” o creazione di vie alternative, come le virtù qui assunte consentono di delineare.

Si delineava all’inizio l’antropologia che funge in questo disegno delle virtù, ora si può aggiungere che emerge un soggetto non solo relazionale, ma limitato e finito, fragile e inquieto, in continuo viaggio. In un mio testo di anni fa lo definivo homo ludens per differenziarlo da faber, l’essere umano efficientista, pragmatista, ma anche da sapiens2. Credo che tutte le virtù diano indicazioni in tal senso, ma nuove possono essere l’ironia e il riso, “virtù leggere come la danza”, afferma Mapelli, ma cifre altresì di un sapere precario e temerario insieme che deve trovare o inventare sempre nuove risposte, questa è la complessa natura della sua provvisorietà: la libertà che si trasforma in incertezza e che si collega con il rischio e con la finzione o improvvisazione fittizia, come ancora i tanti riferimenti letterari di questo testo ci mostrano.

Ma non solo, nella virtù che conclude e che rappresenta una sorta di sintesi, la pietà, si ribadiscono proprio queste caratteristiche dell’essere umano, la concretezza dell’esistenza, ma anche la sua frammentarietà e si sostiene, a ragione, che il soggetto morale e la sua formazione sono espressione dell’unione di “estrema accoglienza ed estrema solitudine” (p. 234); tuttavia si può, carichi e arricchiti dal percorso compiuto, delineare una “morale della sostenibilità” riprendendo Rosi Braidotti (p. 242) che dovrebbe mettere in grado di vivere ed aiutare ciascuno/a nell’esprimere le proprie possibilità, tollerando (io direi di più: accogliendo) le complessità che si generano e rigenerano perpetuamente.

Allora anche la domanda posta inizialmente, se queste siano virtù educative, si può completare sottolineando l’innovatività e la progettualità in esse presente come forza trasformatrice di sé e della realtà tutta; progettualità, secondo la frase della Zambrano “le radici devono avere fiducia nei fiori”, che rinvia, per quel gioco di legami interni che si è detto, alla virtù della fiducia. Il testo, come un pozzo senza fondo, invita a una ulteriore lettura, in cui emerga il valore educativo legato al tema che Mapelli qui affronta solo alla fine e lateralmente, ma su cui ha scritto pagine molto significative, ovvero generi e generazioni, tema ineludibile nella prassi educativa.

La scuola e l’università sono luogo di incontro di generi e generazioni differenti, in cui la  trasmissione del sapere e dei saperi non può non passare attraverso il riconoscimento delle diversità rispetto ai modelli culturali, all’uso e alla definizione dei linguaggi, agli aspetti relazionali. Se questo riguarda i saperi, tuttavia bisogna sottolineare che lo scambio avviene tra persone, donne e uomini di generazioni differenti e per questo con differenti percorsi biografici, vocazioni, scelte; pertanto si deve dare visibilità alle trame tra culture e vite, non interrompere i legami tra i soggetti e i loro saperi; ciò può rendere possibile per ragazzi e ragazze di riferirsi ad essi come saperi della vita, rintracciando le radici profonde del proprio essere donne e uomini, nelle storie delle generazioni, ma trovando anche la possibilità di cambiare, che solo le conoscenze possono offrire come risorsa per ciascuno e ciascuna.

Altrove Barbara Mapelli ha scritto: “L’incrocio creativo tra generi e generazioni – parole che hanno una radice comune – trova nell’università il teatro di molte possibilità e incontri tra persone e con i saperi, che sono i saperi o esperienze della vita e di molte vite, saperi irrinunciabili che sempre si rinnovano nell’incontro con una vita”, (da cui il generare, aggiungerei).

La tematica dell’approccio ai saperi, pertanto, deve tener conto della diversità, o meglio del partire da sé di ognuno e ognuna e non appiattirsi sulla neutralità, così come il tema della relazione, in questo caso tra generazioni, non deve essere omologante, anzi iniziare dal riconoscimento di una parzialità e di una diversità.

Le nuove virtù allora possono essere portatrici di una educazione morale, come viene ripetutamente detto in questo testo, che unisca ethos individuale e incontro con le culture, in vista di valori socialmente condivisi: virtù fragili e continuamente trasformantesi, ma “forti”.

Come afferma Goethe: “l’amore non domina, forma e questo è più”.

Direttrice del Dip.to di Filosofia, Professore Ordinario di Filosofia Morale, Università Roma Tre

Note bibliografiche

1 P.Ricoeur, Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia 2000, p.43 e ss.

2 F.Brezzi, A partire dal gioco, Marietti, Genova 1993.