I nuovi curricoli: un ponte tra scuola e famiglia

Con la recente pubblicazione del documento ministeriale relativo agli indirizzi per l’attuazione del curricolo della scuola di base, arriva a compimento la “grande riforma” del sistema scolastico italiano, avviata dal ministro Berlinguer all’inizio dell’ultima legislatura. Riforma complessa perché in essa converge sia il ripensamento dell’organizzazione dell’universo scuola che abdica, lentamente e non sempre con la compiuta consapevolezza di tutti gli attori, al centralismo che l’ha connotata per più di cento anni, sia una riflessione pedagogica che, accogliendo diverse scuole di pensiero, cerca di portare a sistema le buone pratiche che la nostra scuola aveva messo in pratica negli anni.

L’art.1 della legge 30: “Il sistema educativo di istruzione e di formazione è finalizzato alla crescita e alla valorizzazione della persona umana, nel rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle differenze e dell’identità di ciascuno, nel quadro della cooperazione tra scuola e genitori…” appare da subito principio costitutivo di quella che potremmo definire la Carta della nuova scuola italiana, che riesce a sciogliere l’antica querelle tra i sostenitori dell’educazione e quelli dell’istruzione come compito affidato alla scuola.

Emerge con forza la consapevolezza che la scuola di cui si definisce il profilo è quella della società civile tutta, quella, ancora, che grazie alle conoscenze che offre e alle abilità che fa apprendere, promuove la crescita e lo sviluppo della persona umana, di tutti i cittadini italiani per i quali, appunto, si disegnano i percorsi di studio e formazione dall’infanzia ai 18 anni; è, in una parola, scuola che interessa ed appartiene a tutti.

Questo è, senz’altro, uno dei motivi per cui nella Commissione di nomina ministeriale dei 250 esperti erano presenti anche i rappresentanti (come la sottoscritta) delle associazioni genitori più diffuse sul territorio nazionale. Uno dei motivi, dicevo, perché una riforma di tale portata non può decollare senza il consenso della società civile tutta e quindi senza la partecipazione di chi, pur senza competenze pedagogiche o disciplinari in senso stretto, al sistema educativo attribuisce senso. Ed ancora non sarebbe possibile oggi, in una società complessa, consapevoli come siamo della fatica di formare i giovani, pensare ad una scuola chiusa in se stessa e pretendere che consegua i migliori risultati.

Sono pertanto chiamati in causa anche i genitori, le loro attese/speranze, il loro immaginario relativamente a quel forte luogo simbolico che è la scuola pubblica. Scuola cui dall’Unità in poi sono stati affidati alcuni compiti fondamentali: alfabetizzare ed unificare linguisticamente, creare (almeno per un lungo tratto della sua storia) le condizioni per una possibile emancipazione sociale, creare inoltre una coscienza nazionale diffusa.

La scuola, ripeto, come realtà che appartiene a tutti e che a tutti interessa.

E’ la scuola pubblica con un surplus di valore: il genitore che affida ad essa il proprio figlio rinuncia implicitamente ad una sorta d’individualismo proprietario. Rinuncia cioè ad un’idea di clonazione spirituale per cui si vorrebbero i figli educati agli stessi principi cui crede il genitore. Sa che i titolari della libertà garantita dallo stato laico non sono le famiglie, ma i figli, che hanno, essi sì, il diritto ad avere il massimo delle opportunità formative, di critica e di confronto.

La scuola, per essere quella di tutti i bambini e tutte le bambine, di tutte le ragazze e tutti i ragazzi, è necessariamente il luogo della contaminazione, del confronto, della crescita per differenze, anzi attraverso le differenze, intese sempre e soltanto come ricchezza, non come ostacolo da superare per giungere ad un’irenica omologazione delle coscienze, finalmente in possesso di una salda verità inoppugnabile.

E’ però nella pubblicazione delle indicazioni curricolari (adempimento di un obbligo legislativo e contemporanea fine dell’immagine diffusa tra i più di una riforma come contenitore senza contenuto) che è misurabile la “filosofia” complessiva della nuova
scuola, che avrebbe altrimenti corso il rischio del vuoto sotteso alle solenni dichiarazioni di principio.

La centralità del soggetto che apprende (e il diritto ad apprendere in vista del successo formativo per tutti) e l’idea di continuità trovano qui, infatti, il loro incarnarsi pedagogico.  Temi entrambi vicini alle attese dei genitori, fino ad oggi abituati ad una scuola tutta spostata verso l’insegnamento (penso a tutto ciò che nella comunicazione con le famiglie passava connesso alla parola programma –“finire il programma”, “siamo indietro con il programma”, “il programma d’esame”….), percepibile come una struttura rigidamente geometrica che consente solo percorsi unilineari, poche pause, poche soste, mai andamenti a zig zag, quasi che il crescere sia una strada indicata una volta per tutte, per tutti e allo stesso modo: il successo dipende solo dalla rapidità con cui la si percorre, l’orientamento può ridursi ad una formula rituale che segna la fine dell’obbligo. Un’istituzione quindi alla quale adattarsi con sempre meno motivazioni intrinseche; è sempre più forte il senso di un dentro e fuori (dalla scuola): fuori il tempo scorre diversamente, può essere velocissimo come nelle comunicazioni informatiche o assai lento, ma non può essere più riducibile ad un’unica unità di misura. Entra in campo, fortemente ridiscussa, la categoria del tempo, finora un tempo, quello della scuola, abbastanza ingeneroso con i nostri ragazzi (i dati sulla dispersione ce ne danno atto) in cui chi si attardava, perdeva. La scelta di un ciclo lungo come quello della nuova scuola di base e le relative indicazioni curricolari che consentono la conquista stabile d’alcuni specifici obiettivi formativi ci riportano ad una concezione di tempo disteso, ascoltatore attento dei bambini e dei loro ritmi d’apprendimento. Penso, infatti, che la scuola elementare italiana sia una delle migliori del mondo non per semplice innatismo, ma anche perché i suoi insegnanti hanno avuto cinque anni per costruire modelli a misura degli allievi, rispettandone bisogni, capacità e differenze.

Scuola quindi della continuità, scuola della prospettiva verticale: da sempre, come genitori sentivamo l’esigenza che gli insegnanti avessero conoscenza e percezione di quanto avveniva nel precedente segmento scolastico pena il sentirci dire che gli errori e le mancanze erano sempre responsabilità della scuola che è venuta prima. Non si vuole qui fare l’elogio della continuità come valore egemone o assoluto pedagogico; sappiamo che la crescita e l’apprendimento avvengono anche per discontinuità vale a dire per cambiamenti, mutamenti, aggiunte: il problema è di inserire elementi di cambiamento al momento opportuno, nell’ambito però di una visione continua, per poter garantire un apprendimento in cui le cose nuove si leghino coerentemente con le precedenti, acquistando senso per chi impara e rafforzandone la motivazione.

Ma le indicazioni curricolari raccolgono e rispondono anche ad un’altra sfida, quella della modernità e dei saperi essenziali che una società avanzata considera irrinunciabili per le nuove generazioni.  E’ questo un punto nevralgico nel sentire comune. La sirena della modernità ammalia i molti che attribuiscono i mali della scuola italiana ad un suo ritardo nell’accogliere nuovi contenuti in un processo di enciclopedizzazione delle conoscenze cui nessuna agenzia formativa potrebbe tener dietro. I curricoli fanno invece una scelta significativa nel segno della leggerezza, del togliere, puntando più sulla qualità e sulla significatività dell’apprendimento che sulla quantità. E’ pregiudizio difficile da abbattere quello che coniuga il pensiero forte con la pesantezza: un libro d’ottocento pagine è sicuramente serio e rigoroso perché nutrito di contenuti? Sappiamo come molti degli apprendimenti che si presentano sotto forma d’acquisizione d’informazioni siano destinati all’oblio in tempi brevi, salvo che non siano trasformati in competenze, cioè in elementi simbolici strutturati che regolano i nostri ulteriori comportamenti. Ed ancora come individuare i saperi che non saranno da rottamare in breve nel supermercato degli iperspecialismi?  Conoscere tutti gli elementi della complessità o essere in grado di leggerla criticamente? Mi sembra che coraggiosamente le indicazioni ministeriali resistano alla frantumazione e al bombardamento cognitivo cui si è oggi sottoposti, privilegiando una dimensione del pensiero sociale, creativo, autoriflessivo che mi sembra poter essere una risorsa, la risorsa di fronte al fenomeno della globalizzazione che rischia di omologare ed uniformare i soggetti, clonati dai consumi ed incapaci di dominarli.

Viene sollevata da più parti l’obiezione di una “elementarizzazione”della scuola. Essa appare priva di fondamento e soprattutto ingenerosa nei confronti di un ordine di studi che non banalizza il “sapere”o ignora lo statuto epistemologico delle discipline, ma che deve invece fare subito i conti con l’intera società, e non con un’utenza selezionata, mettendo in relazione l’insegnante stesso con i propri saperi, con il sapere informale dei bambini e delle bambine e tra quei saperi informali ed il codice simbolico che a loro appartiene.

Da ultimo porrei l’accento sul tema della quota di curricolo locale a disposizione delle singole scuole. Impegno significativo che comporta rischi di sovrapposizione d’argomenti locali, o, peggio, localistici, che non abbiano alcun raccordo con il curricolo nazionale. Pericoli che si potrebbero evitare con un’attenta riflessione sul legame affettivo e psicologico tra i ragazzi ed il loro ambiente di vita. Ogni giorno i nostri bambini portano in aula non solo i loro zaini, ma anche le loro ansie, le attese del loro ambiente di vita. Lo studio del “locale”, cui potrebbero in modo efficace contribuire i genitori, è potenziale leva per trasformare la scuola in laboratorio della scuola dell’apprendimento e della cittadinanza.

Si tratta ora di declinare il nuovo impianto con le pratiche delle scuole che possono essere valorizzate senza frettolosi colpi di spugna o improprie nostalgie che impediscano di far partire il “nuovo”, nella consapevolezza che l’impianto della riforma, per sua stessa definizione, si dichiara perfettibile (e pertanto misurabile e valutabile) e non messianica risposta a tutti i problemi della formazione.

*Presidente nazionale CGD